sabato 15 settembre 2012

Alla Grecia in greco

Caro Salvatore,
ti invio la mia traduzione della tua poesia alla Grecia che si snocciola in tal modo:

  • Στην Ελλάδα. Από τιν αγγλοσαξονικό σύστημα καταπιεσμένη.

Ω Ελλάδα/πάντοτε σ' αγάπησα/ και τώρα συλλογιέμαι/ το ηλιόλουστο γαλάζιο της θάλασσάς Σου,/που σε τούτες τις ημέρες/οι βορινές καταχνιές/σκοτεινιάζουν τις ονειρεμένες Σου αμμοδιές/όπου γεννήθηκαν η Αφροδίτη και ι Απόλλωνας/ο Θεός του ασημένιου τ'οξου.

Ω Ελλάδα/τους άγριους αετονύχηδες των άπληστων τραπεζιτών/μη τους φοβάσαι/δεν θα μπορέσουν να Σου κλέψουν/το φως της σκέψης Σου,/Εσύ που είσαι μάνα καρπερή.

Ω Ελλάδα/θεϊκή μητέρα των ηρώων/τα στήθη μας στους βαρβάρους θα εναντιώσουμε/και θα αγωνιστούμε με τον τοξότη Απόλλωνα/που εκτοξεύοντας τα φωτεινά του βέλη/την βορεινή αχλύ θα διαλύσει.

Σαλβατόρε Μοντζιάρδο. 10 Ιουλίου 2012.

Traduzione a cura di Bianco Guglielmo.

martedì 11 settembre 2012

ALLA TOMBA DI PADRE KOSMAS




L’eremo appare nel folto del bosco
Chiuso, vetri rotti, tetto sbilenco.
Fredda è la cenere davanti al forno
Che spalanca la bocca nera e vuota.
Sotto la quercia che vivo gli dava ombra
Mamma gatta ora allatta tre gattini.

L’erbaccia invade l’orto abbandonato
E pietosa ricopre la sua fossa
Segnata dalle pietre e da una croce.
Padre Teofilo leva piano un canto
Sottovoce, sommesso come nenia:
Eonìa i mnìmi tou Patròs Kosmà…
Eterna memoria di Padre Kosmàs…

Dall’Egeo soffia il vento e scuote gli alberi
Che muovono le foglie come labbra
Imploranti per lui eterna requie.
Ma sottoterra le sue ossa fremono
Né troveranno pace se non quando
Torneranno in Calabria a riposare.


Ricordo della visita fatta il 27 agosto 2012 da me insieme a Padre Giovanni e Padre Teofilo del Monte Athos e gli amici di Calabria: Giuseppe Altimari, Vincenzo Busa, Francesco Cosentino, Francesco Curci, Raffaele De Marco.

                                                                     Salvatore Mongiardo

lunedì 6 agosto 2012

SISSIZIO DI SANT'ANDREA 2012


SISSIZIO DI SANT’ANDREA -18 AGOSTO 2012 ORE 18.00

Località GIAMBARELLO 13 - All’inizio della Pineta

Care Amiche ed Amici,

ci ritroviamo dove abbiamo tenuto il primo sissizio nel 1995, e ritorniamo col Bue di Pane Pitagorico, simbolo della fine della violenza. Nessuno è profeta nella sua patria! mi ha detto recentemente un amico, e io ho inteso quelle parole di Cristo in un senso nuovo. Difatti, se per patria intendiamo la terra dei padri, la Palestina e il mondo ebraico erano la patria di Cristo. Invece, se per patria intendiamo la terra dei sogni, delle profonde aspirazioni del cuore, la terra di elezione, allora la patria di Cristo era certamente la Calabria! E’ questo il frutto delle ricerche che sono contenute nel mio breve libro, gratuito in rete, Cristo ritorna da Crotone. Nel libro spiego che i grandi valori predicati da Gesù, quali la libertà degli schiavi e l’eucaristia come giustizia sociale, provengono dall’Italia, fondata da re Italo nelle nostre terre con il sissizio, cioè il convivio dove tutti portavano il cibo che dividevano in amicizia. Quei valori confluirono dagli Itali nei Pitagorici che li trasmisero agli Esseni. Questi li passarono a Gesù che li promulgò al mondo intero. Anche l’ostia bianca e rotonda della messa è venuta dal culto pitagorico dell’adorazione del sole nascente a Crotone. E la tovaglia di lino bianco sugli altari è stata ordinata, intorno all’anno 300, da Papa Eusebio che proveniva da San Giorgio Morgeto, in provincia di Reggio Calabria. Questi arcani che si svelano nella nostra terra saranno presto conosciuti in ogni parte del mondo e segneranno la seconda venuta di Cristo.

Mai come oggi l’umanità ha avuto tante possibilità di aiutare tutti, e mai come oggi le nazioni si sono chiuse nell’egoismo della finanza che strangola e impoverisce tutti. Negli incontri attuali di politici e autorità finanziarie, si parla di migliaia di miliardi, ma nemmeno un solo miliardo viene dato per il vaccino dei bimbi o per il cibo agli affamati del Terzo Mondo, mentre ci sono miliardi a volontà per gli armamenti: il modello anglosassone è fallito e tutti siamo diventati schiavi di quello che Gesù chiamò MAMMONA di iniquità, cioè il profitto. E’ giusto che l’uomo guadagni per vivere, ma il profitto e la speculazione fatta con i soldi sono antipitagorici, anticristiani, satanici.

Il monaco greco ortodosso Kosmàs, morto di dolore perché obbligato a lasciare la Calabria, quando visitò Sant’Andrea nel 2010, si augurò una ribellione di Grecia e Magna Grecia contro l’asservimento al sistema finanziario anglosassone. Kosmàs diceva che l’Anticristo imperversava nel mondo perché nessuno dava più importanza alle parole di Gesù nel Padrenostro: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori!
Noi diamo il benvenuto a Gesù che ritorna per liberarci dai lacci mortali della finanza di iniquità. Egli torna finalmente alla sua vera patria, la Calabria, derelitta e disprezzata, perché lui non abbandona i suoi amici, e torna per sedere con noi al sissizio, l’intramontabile convivio di giustizia sociale. Salutiamo il suo ritorno con il saluto che echeggiava in Magna Grecia all’arrivo del dio: EVOE’!
                                                                                             
                                                                                              Salvatore Mongiardo

Ognuno porti da mangiare cibi che divideremo con esclusione di carne e pesce. Nel sito ci sono acqua pura e vino.
Salvatore Mongiardo             348 7820212              mongiardosalvatore@gmail.com
Franco Monsalina                  328 6816333              f.monsalina@tiscali.it
Info Point: Caffè del Corso di Sant’Andrea Ionio

mercoledì 25 luglio 2012

Detti famosi di Cola


Detti famosi di Cola d’a Fattura


Al secolo si chiamava Nicola Betrò, ma in paese era conosciuto come Cola d’a Fattura, nato all’incirca nel 1860 e morto nel 1941. Era il bisnonno di Alfredo Varano e nonno, quindi, di sua madre Annina. Li ringrazio entrambi per avermi fornito le informazioni che mi hanno permesso di ricostruire i suoi detti che vengono ricordati ancora oggi.

Cola era alto e magro, aveva occhi azzurrissimi e capelli sul biondo pettinati a mascagna. Ebbe sei figli, alcuni emigrati in America i quali, durante la crisi degli anni Trenta, gli mandavano 110 lire al mese. Appena riceveva la somma, Cola correva a comprare pane che regalava ai poveri. Un suo figlio, che si chiamava Nicola come lui, sposò Emilia Mattei, l’ultima discendente della nobile famiglia del letterato barone Saverio Mattei. Emilia emigrò col marito a Brooklyn, dove visse e morì.

Cola faceva il duro lavoro della maggior parte degli andreolesi, cioè zappava la terra. Ma affondare la zappa sotto il sole nella terra dura non era per lui. Così un giorno decise di smettere, lasciò la campagna della Pirarella e se ne tornò a casa. Entrò nel basso, appese la zappa al chiodo e prese commiato dall’arnese con queste parole: Dalle pietre ti guardo io, dalla ruggine guardati tu! De’ pìatri ti guardu io, d’a rùggia guardati tu!

Dovette poi dare spiegazioni di quella decisione e raccontò che, mentre stava zappando, un bombaco si mise a girare attorno e gli ronzava: Cola, vattene, questo non è lavoro per te! Cola, vattìnda, chissu ’on è mistìari u tua!

Si diede allora al commercio dell’olio e accompagnava i grossisti che lo compravano nei paesi dove lui conosceva i migliori produttori. Avvenne così che una volta si ritrovò a Satriano e si fece notte. Cola si mise in cammino per Sant’Andrea e, passando vicino a una campagna, vide delle luci che si spostavano. Erano contadini che zappavano, facevano i terribili maggesi di luglio per preparare la terra alle prime piogge, e lavoravano di notte con le lanterne per evitare il solleone. Allergico com’era alla zappa, Cola esclamò: Signore, ti ringrazio perché non sono nato a Satriano! Signuri, ti ringràzziu ca ’on nescìvi a Satriànu!

Una volta andò a Catanzaro in treno e volle fare bella figura con i viaggiatori che leggevano il giornale. Se ne procurò uno e cominciò a sfogliarlo, ma lo teneva alla rovescia perché era analfabeta. Un viaggiatore glielo fece notare e lui rispose prontamente: Chi sa leggere alla rovescia, sa leggere anche dritto! Cui sapa u lèja ara storta, sapa puru ar’a derìtta!

Un giorno stava tornando verso casa e, mentre scendeva per Piazza Castello, chiese ad un carabiniere che saliva: Scusate, ma io vado o vengo? Scusati, ma io vàju o vìagnu? Il carabiniere si sentì provocato e lo portò in caserma.

A Cola piaceva scherzare e un giorno chiese a una signora alta e prosperosa: Se ti do dieci lire, vieni a coricarti con me? Si ti dugnu dìaci liri, vìani ’u ti curchi cu mia? La donna rispose: Svergognato, a me dici queste porcherie? Sbirgognatu, a mia dici ’si porcherìi?
Subito Cola cambiò la proposta: Allora dai tu cinque lire a me e vengo io a coricarmi con te! Allora tu duni cincu liri a mia e vìagnu io u mi curcu cu tia!

Luglio 2012                                                                   
                                                                                                          Salvatore Mongiardo 

sabato 7 luglio 2012

ALLA GRECIA


ALLA GRECIA 
oppressa dal sistema finanziario anglosassone
____



Sempre ti ho amato, o Grecia, e ora penso
all’azzurro assolato del tuo mare
in questi giorni che nordiche brume
offuscano i tuoi lidi di sogno
dove nacquero Venere ed Apollo,
dio dall'arco d'argento.
Feroci artigli di avidi banchieri
non riusciranno, o Grecia, non temere,
a rubarti la luce del pensiero
di cui sei la feconda genitrice.
Grecia, divina madre di eroi,
ai barbari opporremo il nostro petto
e lotteremo con l’arciere Apollo
che lanciando i suoi strali luminosi
dissiperà la nordica caligine.



10 luglio 2012                                                        Salvatore Mongiardo

martedì 13 marzo 2012

LA MESSA DI DON ANGELINO

La messa di don Angelino

Era il luglio del 1956 e di primo mattino andavo verso la Chiesa Matrice di Sant’Andrea Ionio per servire le messe. Sarei rimasto più volentieri a dormire per riprendere fiato dopo le fatiche dell’anno scolastico, trascorso nel Seminario Regionale di Catanzaro, ma gli obblighi religiosi continuavano anche durante le vacanze. Il caldo era infernale già a quell’ora e dai muri delle case veniva il calore che non si era disperso durante la notte.
Passai davanti alla grande casa dei Donnàngeli, che si stendeva per tutta la biforcazione di due strade che si congiungevano poi davanti a Piazza Castello, dove sorgeva la Chiesa Matrice. I Donnàngeli erano una delle poche famiglie buone di Sant’Andrea. Non erano baroni, titolo che avevano solo i Mattei e gli Scoppa. Erano una nobiltà minore, come i Iannoni e i Damiani. Avevano campagne, persone letterate in famiglia, e un buon numero di fondi agricoli. Tutte le famiglie buone potevano fregiarsi del don alla maniera spagnola e la parola Donnàngeli era una denominazione di quella famiglia che aveva avuto don Angelo Maria Calabretta, arciprete di Sant’Andrea fino al 1870 circa, prima del latinista arciprete Antonio Mongiardo. Anche l’ultimo erede maschio portava il nome di Angelo, don Angelino Calabretta, che all’epoca aveva circa quaranta anni. Calabretta è un cognome di Sant’Andrea, sul quale è opportuno fare una riflessione. I Bretti, o Bruzi, erano gli schiavi fuggitivi di cui parla lo storico Tito Livio, che costituirono il nucleo interno e indomabile della Calabria. Il cognome Calabretta forse è in grado di svelare la vera origine del nome Calabria, che a me sembra venire dal greco Kalabrettia, cioè la Bella Brettia. I Bretti del territorio di Sant’Andrea, i Calabretta, convissero e si fusero con i Samà, i vasai venuti dall’isola greca di Samo nel settimo secolo avanti Cristo.

Il Vèiolo stava aprendo il basso terraneo dei Donnàngeli e conduceva fuori l’asino. Il Vèiolo si occupava delle loro campagne, era guercio dell’occhio sinistro che aveva perso per una scheggia di legno, e indossava una giacca di velluto giallo a coste. Il suo vero nome era Andrea Arena, ma tutti lo chiamavano in quel modo perché lui diceva di se stesso che era vèiolo: non pronunciava correttamente la parola vedovo, termine poco conosciuto nel linguaggio andreolese che usava la forma latina di cattivo o cattiva per chi era in vedovanza. Cattività non cattiveria, condizione giuridica di captivus, cioè di non libero, secondo le antiche regole del diritto romano. Il Vèiolo non sapeva di queste sottigliezze, anche perché la sua vedovanza era inventata. La moglie, una forestiera, lo aveva abbandonato senza figli e lui aveva giudicato quell’abbandono come una morte. Il Vèiolo aveva partecipato in trincea alla prima guerra mondiale, ma non voleva parlarne. E non voleva nemmeno parlare della moglie: era vedovo.

Il caseggiato dei Donnàngeli era inquietante. Sopra il basso terraneo dell’asino c’era una costruzione al rustico rimasta incompiuta da decenni. Dove l’incompiuta finiva, c’era un deposito di statue e arredi sacri che veniva aperto il Venerdì Santo per prendere la naca, il catafalco del Cristo morto da portare in processione. Quel locale era stato in passato una chiesetta dedicata alle Anime del Purgatorio, ma non aveva una congrega che la sostenesse economicamente, e fu soppressa. Come ricordo di quella vicenda era rimasto un modo di dire che indicava una persona dal viso strano, improbabile: Sembra il procuratore delle Anime del Purgatorio. Quel procuratore difatti non era mai esistito perché non esisteva la congrega.
Costeggiando la casa per tutta la sua estensione fino all’altra strada, c’erano mezzanini sempre chiusi, balconcini, un grande balcone centrale e il portone con un bel portale in granito. Separato dalla strada, c’era il trappeto dei Donnàngeli, uno tra i più importanti frantoi delle ulive del paese.
Don Angelino Calabretta, baffetti, fine viso greco, era rimasto orfano di padre in tenera età e aveva perso la madre durante la sua prigionia nella seconda guerra mondiale. Così fu allevato dalle due zie nubili, donna Severina, la maggiore, e donna Caterinella. Le due sorelle vestivano all’antica con lunghe sottane, corsetto, capelli raccolti a chignon, u tuppu, e andavano a supervisionare le campagne sempre con l’ombrello per proteggersi dalla pioggia o dal sole. Il comando effettivo della casa era nelle mani energiche di donna Caterinella, tanto che in un’occasione il costruttore Argentino Samà ebbe a esclamare: Ma quale Caterinella, è una Caterinona! Don Angelino aveva sposato una Rispoli di Davoli e aveva deciso che era più conveniente prendere impiego a Catanzaro presso l’Inps, visto che le campagne venivano abbandonate con l’emigrazione di massa dal Meridione.

Quella mattina di metà luglio 1956 era stato per me particolarmente pesante. In chiesa c’erano state due messe cantate di suffragio per i morti con tre preti in paramenti neri, che accompagnati dall’organo salmodiavano l’Ufficio dei Defunti e poi celebravano la messa. All’epoca vigeva ancora il digiuno eucaristico ed io avevo potuto bere solo un po’ d’acqua dopo la comunione. Non vedevo l’ora di andare a casa a fare colazione e mi stavo preparando a uscire dalla sacrestia, quando la campana mezzana annunciò una messa cantata di gloria, con rintocchi ben diversi di quelli lenti delle tre campane che annunciavano le messe da morto. Il sacrestano Benincasa mi disse che c’era una messa straordinaria all’altare della Madonna del Carmine. I tre sacerdoti indossarono paramenti bianchi e si diressero alla cappella del Carmine, mentre l’organista cieco cantava il Kyrie eleison e io portavo l’incensiere. Non c’erano fedeli perché l’ora era tarda e don Angelino era il solo ad assistere alla messa. L’arciprete Samà, il celebrante, disse che era in ringraziamento per la sua assunzione all’Inps.
La famiglia di don Angelino si trasferì a Catanzaro ma non dimenticò il Vèiolo che, vecchio e malato, fu ricoverato in ospedale dove Peppe, il figlio di don Angelino, andava a imboccarlo ogni giorno. Alla fine della vita il Vèiolo si rivolgeva a Peppe chiamandolo figlio, fijju. E il giovane era felice di sentirsi chiamare figlio dal servitore. In quell’ospedale di Catanzaro il feudalesimo si chiudeva per sempre in amore.
11 marzo 2012
Salvatore Mongiardo

domenica 4 marzo 2012

IPOTESI SULL'ORIGINE DEL COGNOME MONGIARDO

Scrivo questa breve nota su sollecitazione del gruppo di Facebook Mongiardo nel mondo del quale ovviamente faccio parte. Per risalire all’origine del nostro cognome, dobbiamo andare indietro di mille anni. Difatti attorno al 1030 nasceva a Colonia, in Germania, San Bruno, il fondatore dei certosini. Il quale era tanto dotto e amabile che fu nominato scolarca, come dire Magnifico Rettore della prestigiosa scuola di Reims, in Francia. Egli ebbe numerosi allievi da tutta Europa e tra questi Eudes di Chatillon che diventò Papa Urbano II. Da Papa ordinò a San Bruno di lasciare la solitudine della prima certosa vicina a Grenoble, dove si era ritirato, e a raggiungerlo a Roma per aiutarlo a riformare la Chiesa. A San Bruno non piacevano gli intrighi di curia né di corte e finì per ritirarsi nell’eremo di Serra, poco distante da Mileto, allora capitale dei Normanni e sede del Gran Conte Ruggero, padre del futuro re Ruggero II di Sicilia che allora si finiva di conquistare. Urbano II lanciò nel 1095 a Clermont, in Francia, la prima crociata al grido: Dio lo vuole! Dal dire al fare c’era di mezzo il mare, e Urbano II venne nel 1097 in Calabria, a Mileto, per ottenere l’appoggio del Gran Conte Ruggero che controllava i porti pugliesi e siciliani necessari a imbarcare crociati e armi. I crociati erano in maggioranza normanni francesi, discendenti dei biondi vichinghi. Normanno vuol dire Nord man, uomo del Nord. La strada per arrivare dalla Normandia alla Puglia era lunga e i crociati muovevano i loro accampamenti piantando a sera i pioli delle tende al grido di: Mont (de) Joy, pronunciato MONGIUA’, monte di gioia. Era come un rito per ricordare che la loro destinazione era Gerusalemme, chiamata nella Bibbia Monte di Gioia, Mons jubili nella traduzione latina di San Gerolamo. Per la cronaca va ricordato che papa Urbano II morì due settimane prima che la notizia della conquista di Gerusalemme gli arrivasse a Roma. San Bruno morì nel 1101 e la presa di Gerusalemme è ricordata nella vecchia fontana davanti alla Certosa di Serra, recentemente visitata da Papa Benedetto, con l’anno della conquista 1099 inciso nel granito, oggi poco leggibile. 
21 febbraio 2012                                                                               Salvatore Mongiardo

venerdì 23 dicembre 2011

PASQUALINO


Pasqualino

Pasqualino Frustaci, nipote del Sordo, porta ancora con baldanza i suoi ottantadue anni come al tempo che militava, anima e corpo, nel Partito Comunista andreolese, del quale fu uno dei fondatori nel 1944. Lo incontrai una mattina di fine estate 2011 in Piazza Castello a Sant’Andrea, e lo invitai a venire in macchina in montagna, dove andavo ad attingere acqua alla Fontana dello Scoglio. Mio padre, da fontaniere, volle lasciare quella fontana a servizio del pubblico quando, intorno al 1950, immisero la sorgente nell’acquedotto comunale.
Pasqualino si lasciò andare ai ricordi e mi raccontò che aveva cominciato a badare alle pecore col pastore Saverio Zangari all’età di sei anni, con caldo, freddo, acqua e vento. A dieci anni passò sotto Antonio Varano e il 10 giugno del 1940 si trovava con lui a pascolare le capre presso il vecchio mulino di Macca, quando all’improvviso le campane suonarono a stormo perché l’Italia era entrata in guerra: Viva la guerra, dobbiamo distruggere l’America, viva Mussolini!
Non andò proprio così. Il 16 luglio del 1943, dodici aerei americani bombardarono il ponte sul fiume Alaca e la terra tremò tanto che le capre si dispersero. Nel cercare le capre Pasqualino ebbe sete e, dopo avere scacciato le vespe, bevve l’acqua che si era depositata dentro l’impronta lasciata nel fango dallo zoccolo di una vacca.
Intanto avanzavamo con la macchina sotto gli alberi della montagna, e a un punto Pasqualino disse:
            -Qui c’era la fontana della Femmina Schietta. Sai perché si chiamava così?
Non lo sapevo, e mi spiegò che l’acqua usciva dalla fessura della roccia, stretta come la natura di una vergine. In andreolese schietta vuol dire non sposata, e si dice anche per il celibe: è schietto.
Raggiungemmo la nuova diga della Lacina, che fornisce acqua potabile a ottantasei comuni della costa tirrenica. Il paesaggio con gli abeti era alpestre; l’acqua del bacino artificiale aveva ricoperto la pozza chiamata Gran Gurno dalla quale, nel terremoto del 1783, uscivano acqua calda e fango. Non per nulla le cime attorno, oggi disseminate di pale eoliche, sono segnate sulle mappe come Monte Trematerra.
Al ritorno Pasqualino mi parlò di un grande masso isolato, la Pietra di Mommo, che un tempo si ergeva solitario. Gli andreolesi dicevano che quel masso era il Pallino dei Giganti: figuriamoci quanto dovevano essere grandi le bocce! Quell’allusione ai giganti era forse il ricordo di una civiltà megalitica che si sviluppò in Calabria in epoca preistorica, e che sembrerebbe confermata dal recente ritrovamento dei megaliti di Nardo di Pace.
Chiesi a Pasqualino di parlarmi di Mommo, e mi raccontò:
            -Era uno che passando andò a guardare la pietra da vicino e si accorse che c’era una scritta:
Scoppa e troverai!
Scoppare significa in andreolese togliere il coperchio, la coppa, ma probabilmente quella scritta era un’allusione alla potente famiglia Scoppa e alla baronessa Enrichetta Scoppa, zia dei marchesi Lucifero, padrona di tutto il territorio dal mare ai monti. Mommo non seppe resistere alla tentazione, e riuscì ad aprirla in un punto. Ma vi trovò un’altra scritta, però beffarda:
E mo’ chi mi scoppasti, chi cazzu trovasti?
Mommo allora si adirò e prese a picconate la pietra fin quando quella non si aprì come una melagrana. E trovò il paiolo di rame, u stagnatìaddhu,  pieno di ducati d’oro.
Lasciai Pasqualino davanti casa sua e prima di congedarmi gli feci la domanda tipica degli andreolesi:
            -Pasqualino, chi ti parza d’a vita? Cioè, cosa ti è sembrata la vita, che idea te ne sei fatto.
Rispose.
            -La vita è una cosa difficile e bisogna saper resistere saldamente a tutte le tempeste. Comunque ci vogliono sempre due cose: onestà e sincerità di cuore. Adesso però entra in casa, perché l’acqua è buona, ma il vino è meglio!

Natale 2011                                                                                                  Salvatore Mongiardo

martedì 25 ottobre 2011

DA MOSCA A CROTONE


Per il Simposio Internisti Magna Grecia
Crotone 6-8 ottobre 2011

Sulla Piazza Rossa del Cremlino le sferzate di acqua e vento facevano presagire la prima neve. La grande stella rossa, posta da Stalin in cima alla torre, sfidava il cielo plumbeo. Quella stella mi fece ricordare il luogo dove era nata, Crotone, e il nome che Pitagora, suo scopritore, le aveva dato: Igea, la salute. Il filosofo forse vedeva una stabilità salutare in quella stella che si poteva costruire senza calcoli, col solo compasso. Unendo i vertici di un pentagono regolare iscritto dentro un cerchio, nasceva una stella che al centro riproduceva sempre un altro pentagono regolare. Quell’elaborazione pitagorica, nata come ideale, era diventata simbolo del terrore staliniano, e poi emblema delle Brigate Rosse. Riflettevo su quella maligna metamorfosi mentre visitavamo la Cattedrale di Cristo Salvatore, di fronte al Cremlino, che Stalin aveva fatto abbattere e che era stata ricostruita identica alla prima. Dentro la chiesa i fedeli baciavano le icone, le candele ardevano a centinaia ed echeggiavano i cori di potenti voci slave.

La stella a cinque punte mi ricordò anche il congresso medico al quale mi aveva invitato a parlare il Professor Franco Perticone della Facoltà di Medicina dell’Università Magna Grecia di Catanzaro. E difatti la sera del 7 ottobre lasciai la Santa Madre Russia per Crotone.
La mattina seguente parlai ai medici internisti e mi soffermai sul modo di vivere pitagorico, non tanto sull’astensione dal mangiare carne e pesce, che era la regola fondamentale, ma sull’importanza che per Pitagora aveva la vita in comune, essenziale per ben vivere e ben morire.  La vita in comune permetteva di seguire gli insegnamenti del filosofo ed eliminava la solitudine, problematica allora come ai nostri giorni. Anche i beni dovevano essere in comune, e bisognava consegnare i beni individuali a un economo che provvedeva alla loro amministrazione. La comunità era provvista di tutto in modo sobrio ma non povero, e perseguiva con lo studio, le pratiche di culto e l’osservazione delle stelle, l’unione dei viventi a Dio in un legame di amicizia cosmica. I pitagorici si occupavano dei loro membri, curandoli e aiutandoli fino alla fine della loro vita, e ne celebravano degni funerali. Pitagora raccomandava di andare incontro alla morte con animo sereno pregando gli dei come quando si doveva attraversare l’Adriatico selvaggio. Così era chiamato, e lo fu fino al Medioevo, lo Ionio sul quale sorge Crotone. Il buon morire era il corollario del buon vivere, per il quale era essenziale coltivare un profondo rispetto per tutti i membri della comunità: perciò era esclusa qualunque forma di competizione che comportasse una vittoria, la quale sporcava l’uomo perché lo separava dagli altri e lo rendeva soggetto di invidia. Per non parlare poi del sesso che era strettamente limitato dentro il matrimonio. Insomma, un mondo che era in tutto e per tutto l’opposto del nostro mondo.

Quei precetti di vita pitagorici furono ripresi da Gesù, conosciuto da tutti ma non come pitagorico. La discendenza culturale di Gesù dal pitagorismo rappresenta la più grande scoperta della mia vita, e le minuziose ricerche che ho condotto non lasciano dubbi in merito. Il tutto sarà esposto nel libro che sto scrivendo Cristo è arrivato a Crotone, titolo che rimanda alla formazione culturale di Cristo avvenuta in buona parte attraverso la dottrina pitagorica. L’anello di congiunzione tra Pitagora e Cristo furono gli Esseni, dei quali scrive testualmente lo storico Giuseppe Flavio:
…si tratta di un gruppo che segue un genere di vita che ai greci fu insegnato da Pitagora (Antichità Giudaiche XV, 371).

Che Gesù sia stato in qualche misura esseno è ormai dottrina comune. Lo stesso Papa Benedetto XVI nel suo bel libro Gesù di Nazaret (Dal Battesimo alla Trasfigurazione, pagg. 98 e 104) scrive che i poveri di spirito (dei quali è il regno dei cieli) era il modo di chiamarsi degli Esseni. Gesù parla del regno dei cieli, o regno di Dio, come di uno stato di equilibrio interiore, una serenità che solleva sopra i flutti tempestosi della vita: il regno di Dio è dentro di voi! Ma Gesù non rimase fermo alla dottrina esseno-pitagorica, andò molto oltre allargando al mondo intero le comunità pitagoriche, chiuse ed elitarie. E soprattutto spezzò il ciclo pitagorico delle reincarnazioni, la metempsicosi, con il tempo lineare che va dalla terra al paradiso e la vita in comune anche dopo la morte: se muori e credi in me vivrai con me per tutta l’eternità. Per la prima volta la morte viene affrontata in compagnia.

La domanda che posi ai medici internisti era: se seguiamo quegli insegnamenti e pratichiamo una condotta di vita con beni in comune ed esclusione di ogni competizione, si genera o no nell’individuo un equilibrio ormonale tale che scompaiono le grandi angosce del vivere? Cioè: i precetti filosofici di Pitagora, e quelli religiosi di Cristo, hanno un valore scientifico e medico dimostrabile? Oggi si possono misurare agevolmente i livelli ormonali che si creano in certe condizioni di vita, e abbiamo attrezzature scientifiche e abilità nel condurre i test: si potrebbe accertare se i precetti pitagorico-cristiani siano indispensabili o meno a produrre il mix ideale di ormoni che porta a ben vivere e ben morire?

Nella crisi mondiale ed europea delle finanze sono accomunate Grecia e Magna Grecia, cioè il Sud Italia, come la parte più debole del sistema monetario dell’euro. La sostanziale identità di Grecia e Meridione mi porta a concludere che noi meridionali siamo estranei culturalmente al sistema feudale, inventato dagli anglosassoni e impiantato nel Sud dai Normanni. Quel sistema feudale non è finito, anzi si è rafforzato con le borse, le banche, la finanza che sono la forma più raffinata e anonima del feudalesimo. La Magna Grecia non ha né mai avrà la vocazione alla finanza e alla produzione: i nostri geni ci portano infallibilmente a una visione alta dell’umano destino verso il quale convergono storia, etica, filosofia e religione.
I medici, che sono una classe rispettata e stimata, dovrebbero prendere le redini della politica volando alto per ristabilire, con l’evidenza della ricerca scientifica, un equilibrio di vita ormai smarrito, ma che a Crotone era stato chiaramente enunciato e praticato. Oggi la medicina dovrebbe occuparsi anche delle malattie dell’anima, quelle angosce del vivere che dilagano tra miliardi di individui.
La crisi attuale mette in evidenza le gigantesche risorse culturali che la Storia, quella con la esse maiuscola, ha accumulato nella Magna Grecia. Al confronto i giacimenti petroliferi e minerari sono poca cosa, perché non sono in grado di dare quell’autentico benessere che si costruisce con l’equilibrio e la condotta di vita. 
Intorno al 440 avanti Cristo, con l’attivo interessamento di Pericle da Atene, fu riaperta a Crotone la scuola pitagorica, dopo la cacciata di Pitagora e dei suoi seguaci avvenuta intorno al 500 a. C. Scrive difatti Giamblico nella Vita Pitagorica (35, 264):
Dopo molti anni… i Crotoniati furono presi da sentimenti di pietà e di pentimento e decisero di far tornare in patria i pitagorici superstiti. Fecero venire degli ambasciatori dall’Acaia, tramite i loro buoni uffici si riconciliarono con gli esuli e consacrarono a Delfi i patti giurati. I pitagorici che fecero rientro erano ben una sessantina, vecchi a parte. Tra questi ultimi, alcuni si erano dati alla medicina e curavano i malati con un opportuno regime alimentare: furono costoro a guidare il ritorno.

Quel ritorno a Crotone, guidato dai medici pitagorici, invita oggi gli Internisti della Magna Grecia a spaziare verso orizzonti luminosi. A me il cuore dice che il solco tracciato da Pitagora, e portato da Cristo fino ai confini del mondo, ci condurrà verso traguardi di civiltà finora impensabili: le Chiavi del Regno si trovano in Calabria.

                                                                                             
                                                                                                          Salvatore Mongiardo

giovedì 22 settembre 2011

Origini magnogreche di Sant’Andrea Ionio


Origini magnogreche di Sant’Andrea Ionio
Giornata Europea del Patrimonio - 25 settembre 2011
Chiesa della Madonna di Campo

L’incontro di oggi ci sollecita a indagare sulle origini del paese di Sant’Andrea Ionio, che finora si riteneva fosse sorto in marina intorno al Mille, assieme alla chiesa di San Nicola da Cammerota, per opera dei monaci basiliani. A mio modo di vedere, San Nicola è l’ultimo episodio di crescita di Sant’Andrea, che esisteva già dal tempo delle colonie greche. Intanto la stessa Chiesa di Campo è stata fattoria ellenistica del III secolo avanti Cristo, come gli scavi del Gruppo Archeologico Paolo Orsi hanno dimostrato. Inoltre, nelle colline di Isca, a Pètina, ci sono resti magnogreci. Le colline di Soverato hanno chiare tracce dello stesso periodo, per cui sarebbe strano pensare che il territorio di Sant’Andrea sia stato saltato dalla colonizzazione greca.
I seguenti dieci punti spingono verso l’origine magnogreca del nostro paese.

1   In Sant’Andrea la gran parte della popolazione porta il cognome Samà. Non c’è dubbio, come mi confermava il grande e compianto amico Padre Kosmàs del Monte Athos, docente di filologia, che la parola viene da samàios, abitante di Samo in Grecia, isola famosa per la produzione di stoviglie. Difatti si diceva nell’antichità portare vasi a Samo, per indicare un lavoro inutile, perché a Samo si producevano vasi in abbondanza. E Sant’Andrea, dove tutti gli argagnari, i vasai, erano Samà, fino a pochi decenni addietro fu capitale della produzione delle stoviglie, che erano vendute fino a Serra, Guardavalle e Strongoli.

2   Sant’Andrea è l’unico paese in Italia che ha il cognome Còccari: tutti i Còccari di Italia e America vengono da nostro paese. Nell’isola di Samo, a circa 8 km dalla capitale, si trova ancora oggi la cittadina marittima di Kòkkari, come si può vedere in ogni mappa dell’isola.

3  Appena fuori dell’abitato di Sant’Andrea Superiore, c’è la località di Niforìo, che in greco significa nuovo villaggio: nuovo rispetto a cosa? Niforìo ci offre forse il bandolo della matassa con la materia indispensabile per produrre le stoviglie da mettere sul fuoco per cucinare, la creta rossa, il famoso centrùapuddhu, presente in abbondanza nelle vicinanze da Furno a Tralò.

4   Un’altra grande formazione di creta rossa è quella di Briga, a poca distanza dalle calcare per la cottura del vasellame, che in paese erano una ventina agli inizi del 1900. Questi dati lasciano supporre che un abitato, nel VII-VI secolo avanti Cristo, si era sviluppato attorno alla chiesa del Protettore e, in seguito, a Niforìo per ragioni che non conosciamo. Questa ipotesi sembra confermata dalla presenza di altre due chiese vicine a quella del Protettore: quella di Santa Barbara, originariamente di fronte alla fontana e al Calvario, e quella di Santa Caterina d’Alessandria, i cui ruderi sono ancora visibili accanto alle Suore Riparatrici. 

5   Nel 1933 mio padre aprì, tagliandola con la sega, la statua in legno di ulivo di Sant’Andrea per bonificarla. All’interno c’era un piccolo pezzo di pergamena con su scritto 1047: quindi a quella data la chiesa c’era già. San Bruno sarebbe arrivato in Calabria non prima del 1070. La grangia certosina di Tutti i Santi, che segnava in paese il limite della donazione dei Normanni, era accanto ma non era la chiesa di Santa Caterina: quella grangia sarebbe menzionata per la prima volta in un documento di Papa Callisto II del 1121. La festività di Tutti i Santi fu introdotta nella Chiesa cattolica dai certosini, prima non esisteva, e si prestava molto bene a mettere assieme santi e culti greci e latini.

6   Altri elementi fanno pensare alla nascita di Sant’Andrea come piccola colonia magnogreca per la presenza di cognomi come Carchidi, che indica quelli venuti dalla Calcidia: Reggio era colonia fondata da calcidesi. In sostanza si può pensare che ci fu un abitato formato in maggioranza da samesi, ma anche da altri coloni. Si potrebbe anche ipotizzare che i nostri samesi provenissero da Samo vicino a Bovalino, colonia senza dubbio fondata da quelli di Samo di Grecia. Ma a Samo di Calabria, l’ho verificato di persona, non esiste il cognome Samà, mentre esiste un solo Codispoti, molto diffuso invece in Sant’Andrea, che significa padrone di casa.

7  Ci sono tuttavia altri elementi che suggeriscono la derivazione di Sant’Andrea da Samo di Grecia, e sono elementi pitagorici: Pitagora veniva dall’isola di Samo. Il primo è la pietra del fulmine. Pitagora (Porfirio, Vita di Pitagora, cap. 17) fu purificato dalla pietra del fulmine. Gli antichi ritenevano che il fulmine avesse un puntale in pietra che rompeva dove colpiva. Da bambino io ho sentito di un taglialegna, Pietro Aloisio, che portò dalla nostra montagna il cuneo del tuono, una pietra nera a forma di cuore, che il boscaiolo riteneva fosse il puntale del fulmine. Aveva visto un fulmine spaccare un albero, aveva cercato attorno e trovato quella pietra.

8  Ulteriore elemento è la fortissima religiosità degli andreolesi, verosimilmente derivata da Pitagora che sosteneva che al Dio tutto è possibile e nulla al Dio è impossibile: segui Dio! era il suo motto. Quella religiosità, che ho vissuto direttamente nel paese e nella mia famiglia, era come un’aura mistica che tutto avvolgeva e tutto rasserenava in un orizzonte ultraterreno. E non derivava, come alcuni pensano, dai Padri Liguorini. I miei nonni, che vivevano di quella fede, erano già sposati quando i Liguorini iniziarono a operare in paese agli inizi del 1900. Quella religiosità così intensa non si riscontrava nei paesi vicini.

9   Altro indizio può essere considerata la sessuofobia andreolese, nemmeno questa riscontrabile nei paesi vicini, che ha condotto molte donne andreolesi a soffrire di gravi disturbi nervosi, come ho distesamente narrato nei miei libri. I rigidi divieti sessuali, anzi la totale proibizione del sesso salvo la procreazione nel matrimonio, sono di origine pitagorica, non tanto cristiana, come comunemente si pensa. Confluì certamente nel cristianesimo, e si sviluppò soprattutto nel cattolicesimo, ma inizialmente non venne da Cristo, bensì da Pitagora.

10  Sant’Andrea Ionio era abitato ancora prima della Magna Grecia. Le asce di pietra del Neolitico, segnalatemi da Angela Maida ed esposte nel Museo Etnografico Pigorini di Roma, sono indicate come provenienti da Sant’Andrea. A me è giunta notizia di tombe trovate in marina, all’incirca sotto la stazione ferroviaria, esplorate dal marchese Armando Lucifero, archeologo lui stesso e amico del grande archeologo francese François Lenormant, col quale fece diverse indagini sul territorio di Calabria.

Le possibili origini magnogreche di Sant’Andrea ci aiutano a capire in profondità le ragioni della decadenza del Meridione. Difatti, se la mia interpretazione è corretta, si potrebbe dedurre che la decadenza del Sud, non è solo dovuta a fattori politici, ma anche all’abbandono di quella visione alta del destino umano, dalla perdita cioè di quella religiosità.

Queste brevi considerazioni sono un invito a ripensare la nostra origine e a cercare i filoni di pensiero e cultura che noi possediamo come pochi altri posti al mondo. Le indagini archeologiche sono importanti perché portano alla luce gli elementi tangibili che ci permettono di ricostruire la nostra identità, la nostra anima. Un grande plauso e vivo ringraziamento al Gruppo Archeologico Paolo Orsi, che con tanto impegno ricerca le tracce del nostro passato, con l’augurio che possa estendere le sue indagini a tutto il territorio di Sant’Andrea.

                                                                                    Salvatore Mongiardo 

domenica 11 settembre 2011

L’ARMISTIZIO DEL 1943




Lo sbarco degli americani in Sicilia aveva cambiato le sorti della guerra. I tedeschi si ritiravano attraversando la Calabria, e ammassavano armi lungo il torrente Callipari, a pochi chilometri da Sant’Andrea, per opporre resistenza agli americani. Il timore di rimanere coinvolti in una battaglia, spinse molti andreolesi a cercare rifugio fuori paese, e la mia famiglia si trasferì a Tralò, nella casetta di campagna di zio Giovanni Ranieri. I giovani andreolesi sotto le armi erano un numero impressionante: più di cinquecento, come risulta dagli archivi comunali, circa il dieci per cento della popolazione. A Tralò c’erano mio padre, zio Giovanni, molte zie e cugini, una ventina di persone, tra le quali mio cugino Angelo Iorfida. Io avevo allora due anni, ma ricordo tutto, come mio padre, che scherzava sulla sua memoria prodigiosa dicendo: Ricordo pure quando si è sposata mia madre!

La scelta di Tralò non era stata felice. La cima, che si vede a occhio nudo dalla Locride fino alla Presila, è un punto trigonometrico riportato su tutte le mappe militari. Gli aerei americani vi giravano attorno per calcolare la rotta e poi andavano a bombardare i ponti di strada e ferrovia. Il rombo di avvicinamento degli aerei era terrorizzante, mio padre ansimava, io chiedevo un asciugamano per coprire le gambe, perché ero convinto che le bombe me le spezzavano, le donne imploravano a gran voce tutti i santi. Come se non bastasse, c’era anche un gran serpente nero, innocuo ma spaventoso, che strisciava nelle vicinanze della casetta: la zia Nunziata aveva appeso filze di aglio per tenerlo lontano. Zio Giovanni aveva un bosco di castagni in montagna, a Farina, e fu deciso di trasferirci lì. Mio padre fece costruire in fretta dai carbonai un gran capanno di frasche ben fitte, con il tetto in terra battuta per resistere alle piogge, e pagò una cifra enorme: diecimila lire!

Era l’inizio di agosto e ci muovemmo verso Farina, dove il numero di persone  aumentò con l’aggiunta di altri parenti. Mia madre, anche se incinta al nono mese, portava una sporta sulla testa, io camminavo tenuto per mano dalla zia Mariuzza. Anna mia sorella, che aveva quattro anni, portava una gallina. A Farina, accanto al capanno, c’era una capannina, dove stava il suocero di zio Giovanni, Peppe lo Zasso, anziano e sempre coricato. All’inizio io avevo paura di quel vecchio, coperto di un lenzuolo bianco, che però mi prese a benvolere e mi insegnava le filastrocche:

Na vota era Carota
Chi facìa cozzetta e vota
Sa masurava e non li jìa,
Jestimava a morta chi on venìa.

Oppure:
Ara ruga do Ferraru
Ci stannu tri infantini:
Mara Rosa, Cuncipita e Catarini.

O ancora:
E mo’ chi ti vivisti
Tuttu u vinu da caseddha
Attàccati a sta ciarameddha!

Intanto, il 22 agosto del 1943, mia madre cominciò ad avere le doglie del parto, e mio padre mandò mio cugino Angelo a chiamare in paese il medico Pietro Voci. Per convincerlo a quella trasferta, ci volle l’asino di Gerardo Ramogida, ma il medico si rifiutò di salire sul duro basto, e mandò Angelo dai Padri Liguorini per farsi prestare la sella da donna. I Padri, quando andavano in missione nei paesi sperduti, usavano quella sella perché la sottana gli impediva di cavalcare come i maschi. Le ore passavano, e quando il medico arrivò, trovò una bella bimba che vagiva, Caterina. Il numero era cresciuto, eravamo trentadue, anzi trentatré contando anche Bianchina, la capra maltese. Al medico Voci piacque quel posto e vi rimase diversi giorni, attirato dalle soppressate e dal vino buono, facendo però preoccupare mio padre per la bocca in più da sfamare. Il medico ricambiò l’ospitalità con una astuzia. Sull’atto di nascita fece scrivere: Nata in località Farina, dove i genitori si trovavano a villeggiare. Il medico spiegò che era un accorgimento utile se la bimba, da grande, avesse dovuto sposare un forestiero: non era necessario dovergli dire che era nata sotto gli alberi! Non andò così, e Caterina sposò il medico andreolese Andrea Armogida.
Una notte una voce di uomo echeggiò ripetutamente nella vallata: Mastru Vicenzinu! Qualcuno chiamava mio padre, le zie raccomandarono di stare zitti e spensero la lanterna a olio. Poteva essere un traditore che voleva scovare i fuggiaschi per segnalarli ai tedeschi!
Mio padre si fece coraggio e gridò: Chi sei?
L’uomo rispose: Sono il figlio di Mannagajjha! – soprannome di una famiglia andreolese.
Mio padre: Cosa vuoi?
L’uomo: La guerra è finita, l’abbiamo sentito alla radio!
Mio padre: Abbiamo vinto?
L’eco faceva: o-o…
L’uomo: No, armistizio incondizionato!
L’eco: o-o…
Mio padre: E vaffanculo!
L’eco: o-o…
Guerra e pace, vincere e perdere, erano cose degli uomini che l’eco non capiva. Per l’eco, quella notte dell’8 settembre del 1943, tutto finiva con un o-o.
                                                                    
                                                                                        
                                                                                         Salvatore Mongiardo

martedì 2 agosto 2011

LA QUERCIA DI MATASSI


LA QUERCIA DI MATASSI

Matassi è chiamata la montagna di Sant’Andrea che scende verso Isca e si scorge chiaramente dalla marina. Il nome Matassi viene dal greco Metà-Assi, al di là dell’Assi, il fiume che sbocca a Monasterace.

I fatti che sto per raccontare avvenivano nell’anno del Signore 1833. Il barone Pier Nicola Scoppa, nonno della baronessa Enrichetta, aveva finito di abbellire la grangia certosina di Sant’Andrea, da lui acquistata in seguito alla confisca dei beni ecclesiastici, operata nel 1806 dal regime napoleonico nel Regno di Napoli. Era l’ultimo rilevante acquisto degli Scoppa, che già prima si erano ingranditi enormemente sul litorale ionico. Infatti, con astuzia avevano acquisito in trentatré comuni i possedimenti che il re Ferdinando di Borbone aveva confiscato alla Chiesa, per finanziare la ricostruzione della Calabria dopo il grande terremoto del 1783.
Il barone Pier Nicola trasformò la grangia in lussuoso palazzo baronale, con colonnato, divani in oro zecchino, quadri e un’argenteria così favolosa che il liguorino Padre Cesarano più volte la menziona nelle lettere ai suoi superiori.

Ma se il barone Pier Nicola pensava di averla fatta franca, si sbagliava. Lui era dottore in utroque jure, aveva acquistato i possedimenti con atti pubblici ineccepibili, ma sempre roba della Chiesa era! E impossessarsi di beni della Chiesa portava male. Il barone Pier Nicola forse sorrideva per quelle credenze superstiziose. Nella famiglia aveva due vescovi, quello di Roccella e quello di Ostuni. Ma non gli bastò a proteggerlo.

La prima disgrazia si abbatté su Pier Nicola nel 1822, quando suo fratello Francesco Antonio Scoppa gli mise incinta la figlia Diana, proprio nel palazzo di Sant’Andrea! Ne nacque una vicenda straziante che vide coinvolti baroni e baronesse, Papa e Re di Napoli, notai e tribunali. Una storia complessa e dolorosa che non può essere narrata ora.

La seconda batosta arrivò appunto nel 1833, quando banditi armati assalirono il palazzo di Pier Nicola, il quale si salvò dal sequestro di persona nascondendosi dietro una porta. E lì stette trattenendo il respiro, mentre i banditi razziavano quello che potevano. Pier Nicola fece un voto alla Madonna perché lo salvasse dalle mani dei banditi. La Madonna lo esaudì e lui fece cesellare in argento la porticina del tabernacolo nella chiesa del Protettore Sant’Andrea. Lui vi è rappresentato dietro una porta con l’abito a due code, il tàit, mentre i banditi con schioppo e baionetta lo cercano e dall’alto la Vergine stende la mano a fermare i banditi (vedi foto in fondo a pagina 3).

Chi erano quei banditi? Erano disperati coraggiosi, che rischiavano la vita pur di non sottostare alle feroci regole feudali che asservivano le popolazioni alla nobiltà. Ma quella volta avevano osato troppo, e la reazione non si fece attendere. Le truppe borboniche mossero dai vari distaccamenti e chiusero i banditi nella montagna di Matassi, dove alcuni furono catturati. Prima però di cadere nelle mani dei soldati, i banditi fecero in tempo a nascondere il bottino nel cavo di una quercia così maestosa che si scorgeva addirittura dalla chiesa di Campo. 

I banditi furono condannati alla galera a vita e spediti in un carcere lontano. L’ultimo dei sopravvissuti, sapendo che mai sarebbe uscito per impadronirsi del bottino, confidò il fatto a un altro galeotto, non condannato a vita, con il quale aveva fatto amicizia, gli narrò i fatti e gli descrisse la quercia e la particolarità che si vedeva da Campo.

Quando quel galeotto fu rimesso in libertà, si recò a Sant’Andrea e cercò la chiesa di Campo. Era forestiero, nessuno l’aveva mai visto prima, e parlava con un accento sconosciuto. Diceva che doveva sciogliere un voto alla Madonna Assunta, ma destava sospetto che un forestiero conoscesse quella chiesa di campagna. Finse di pregare, o forse pregò ardentemente la Madonna di fargli trovare il bottino per campare. Ma la Madonna Assunta, alla quale gli Scoppa tenevano accesa la lampada a olio perpetua, non ascoltò la supplica del poveraccio. L’Assunta aveva culto antichissimo nella Marina di Sant’Andrea, nella chiesa rurale di Campo di proprietà degli Scoppa.


Il galeotto guardava da Campo verso la montagna, ma la quercia dove era? Era tutta una selva, e poi erano passati tanti anni… Si decise allora di chiedere informazioni a un pastore che pascolava le pecore nel greto del fiume Saluro, a pochi passi dalla Chiesa. Il pastore conosceva benissimo la quercia, ma si chiese perché mai un forestiero la cercasse. E gli rispose in modo convincente:
-Voi cercate quella quercia grande che si vede dalla marina? Non è a Matassi, ma ad Assi, verso Monasterace. Andate, tutti la conoscono e sapranno indicarvela!
Il forestiero partì, il pastore chiamò i fratelli e andarono alla quercia di Matassi. Smossero il terriccio, trovarono il tesoro e con quello costruirono in paese delle case.

Ora la quercia di Matassi non c’è più, il palazzo Scoppa è abitato da tre suore indiane che si prendono cura di pochi bambini, la Madonna Assunta è stata sloggiata dalla chiesa di Campo da un’indagine archeologica che l’ha resa inagibile e ha stabilito che inizialmente era una fattoria magnogreca del terzo secolo avanti Cristo. In seguito diventò chiesa cristiana vicina a un accampamento romano. Campo sta per accampamento militare, probabilmente una postazione lungo la via che andava da Taranto a Reggio. Quella prima chiesa fu dedicata al legionario San Martino, finché con la conquista bizantina non fu dedicata alla Dormizione della Madonna, dai cattolici poi intesa come Assunta in cielo…

Gli episodi dei banditi e della quercia, da me inseriti in una cornice storica più ampia, mi furono narrati da mio nonno materno Bruno, l’uomo più buono e onesto della terra, che mi indicava anche le case costruite in paese con il ricavato del bottino.

Vi auguro Buon Ferragosto 2011, festa della Madonna Assunta, ancora onorata davanti alla chiesa di Campo.   
                                      
                                                                               Salvatore Mongiardo


Porta del tabernacolo nella chiesa del Protettore Sant’Andrea Apostolo
in Sant’Andrea Ionio, Catanzaro, Italia.



sabato 30 luglio 2011

PATTO DI AMICIZIA TRA GLI ITALIANI


Quest’anno ricorrono i 150 dell’Unità di Italia tra festeggiamenti, ma anche tra polemiche e tentativi di disgregare l’Italia. Noi vi invitiamo idealmente in Calabria per riflettere sull'Italia e sul suo destino. Difatti la storia del mondo è inconcepibile senza l’Italia che ha generato la Latinità, Roma e il suo impero, la Chiesa cristiana e il papato, Dante, Padre della Patria, e poi il Rinascimento con il fiorire della arti e una lunga schiera di geni da Colombo a Michelangelo a Marconi.
           
L’Italia nacque in Calabria, terra che radunò popoli molto diversi tra loro: Liguri, Oschi, Morgeti, Sicani, Bruzi, Pelasgi, Taurini, Enotri e Itali. Scrive Aristotele nella Politica, libro 7, capitolo 10:

Italo convertì gli Enotri da pastori in agricoltori e fondò l’Italia nel territorio compreso tra il Golfo di Squillace e quello di Lamezia.

Italo fondò l’Italia non per calcolo politico, ma sull’amicizia come base del vivere comune. Aristotele insiste ripetutamente sullo spirito di amicizia che regnava tra gli Itali: tutti portavano da mangiare e dividevano il cibo nel sissizio, il banchetto al quale partecipavano senza distinzione.

La politica come teoria e pratica di predominio fu una creazione dei Greci: la stessa parola politica viene da polis. Ma fu la peggiore creazione di un popolo grande in tanti altri campi. Le polis greche difatti si distrussero in sterili lotte tra Sparta, Atene e Tebe, come in Magna Grecia tra Sibari, Crotone e Locri.

Il mondo di oggi è dilaniato tra povertà, ricchezza, armi e debiti pubblici che la politica ha creato e non è più in grado di gestire. Ma è soprattutto un mondo che non ci piace perché non corrisponde alla nostra cultura millenaria: per noi Calabresi la terra è la casa comune di tutti senza distinzione tra bianco e nero, ricco e povero, cristiano e musulmano, maschio e femmina, giovane e vecchio: esistono solo amici.

Con il Patto di Amicizia tra gli Italiani vogliamo allargare l’ideale sorto su questa antica terra dove l’Italia nacque e dove vuole rinascere nello spirito di amicizia.
A noi si uniranno Re Italo, Pitagora, Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella e San Francesco di Paola che ci guideranno verso l’intramontabile convivio dove ognuno potrà guardare negli occhi dell’altro e vedere solo la luce dell’amicizia.

Nessuno può sfuggire al suo destino: quello dell’Italia, della quale la Calabria è madre, è dare al mondo la Civiltà Sissiziale, la Civiltà dell’Amicizia.


                                                   Salvatore Mongiardo    

giovedì 23 giugno 2011

Le martelline


Le martelline

L’ingegner Domenico Cosentino mi manda da Roma la lettera che trascrivo. La sua mente corre sempre al paese con ricordi carichi di contenuti e forme quasi mitologiche. Sembra che la sua mente, come la nostra, trovi pace solo in quell’eterno ritorno, come se l’anima volesse accostarsi a una tavola morale, il solo posto dove trova il pane che la sazia.
Questo incessante vagare della mente verso il nostro paese, visto come approdo sicuro e definitivo, mi richiama la bella figura di Lamanno, un personaggio che merita una pagina tutta per sé. Trasferito in vecchiaia a casa del figlio a Roma, Lamanno andava nelle periferie della capitale a chiedere: Sapiti ncunu viiùalu pe’ Sant’Andria… Conoscete qualche viottolo che porti a Sant’Andrea?

Ovviamente mastro Vincenzino era mio padre: lo scrivo per chi non è andreolese. Il caro Domenico non menziona, ma tutti ricordiamo suo fratello Nicola che, munito di occhialoni contro le schegge di granito, stava seduto sulle macine del loro mulino a lavorarle con grande precisione. Ogni fine settimana occorreva una diecina di martelline, che un discepolo di mio padre portava al mulino.

Questo che segue è il testo di Domenico.

“La martellina è un martello di acciaio, con tagliente da ambo le parti, usato dagli antichi sfarinatoi di grano, i mugnai, che trasformavano il grano in farina per la produzione di pane casereccio, come era tutto il pane sino a cinquanta anni fa, prodotto in casa da ogni famiglia di paese o città.
La trasformazione del grano in farina avveniva alimentando la superficie di due macine rotonde, una fissa e l’altra rotante, con il grano che cadeva dalla bocca della tramoggia. La qualità della farina, grossa o fina, dipendeva dalle superfici delle due macine che si usuravano, e ogni settimana dovevano essere ravvivate a mano con le martelline.
Le martelline erano sagomate e temperate dal fabbro, che è stato sempre a Sant’Andrea, Vincenzino Mongiardo. E’ stato lui, mastro Vincenzino, il vero artefice del taglio delle martelline alle quali dava tempra e rinvenimento adatti a scalpellare finemente il granito.
Da lui soprattutto è dipesa l’affluenza dei consumatori locali, non solo andreolesi, che per trenta anni si sono nutriti con il grano sfarinato dalle macine. A suo merito, bisogna dire che mastro Vincenzino non aveva seguito i corsi severi di Tecnologie Speciali del Prof. Oberziner di Roma!”

18 maggio 2011                                
                                                                               Salvatore Mongiardo

domenica 19 giugno 2011

Invito in Calabria al Presidente Lula



Presidente Lula,

Lei ha annullato la sua visita a Roma temendo disordini per avere favorito la permanenza di Cesare Battisti in Brasile. Ora io desidero invitarla al mio paese, a Sant’Andrea Ionio, in Calabria. Si domanderà dove si trova e perché quest’invito. Il mio paese è lo stesso di un ragazzo dagli occhi sorridenti, si chiamava Andrea Campagna, che emigrò a Milano con la famiglia e diventò poliziotto.

Una mattina del 1979 vidi Andrea sulla prima pagina dei giornali ucciso da Cesare Battisti che, già con il solo nome, disonora la memoria di quel Cesare Battisti eroe dell’indipendenza italiana.

Nel 2009 a Sant’Andrea incontrai Antonietta, la madre di Andrea. Fu più forte di me, e mi misi a parlare di Andrea, della sua uccisione, di come lei lo venne a sapere… Antonietta parlò con estrema lucidità di quel giorno terribile, e concluse:
“Dicono che bisogna perdonare, ma io potrei dirlo solo con le labbra, ma con il cuore no, mai!”, e alzò ripetutamente la testa per sottolineare il diniego.

Quando vado al cimitero del paese, vedo la tomba di Andrea e penso che il mondo va male perché governato dalla feccia della terra, i politici, i quali producono armi, guerre, affamano i miseri e lasciano morire i bambini. O proteggono i delinquenti. E sogno il giorno che gli abitanti della terra insorgeranno per fare piazza pulita di tutti i politici: un mondo così, prima finisce meglio è.

Presidente Lula, quando verrà a Sant’Andrea nessuno le dirà nulla o le torcerà un capello. L’accompagnerò io alla tomba di Andrea e poi a casa di sua madre, che alzerà la testa in senso di diniego: Perdonare, mai!

Ho poche speranze che lei abbia il coraggio di affrontare la madre di una vittima. Dica però al suo protetto Battisti di Antonietta Campagna! Auguro a quel vigliacco che se la veda ogni giorno davanti mentre alza la testa per negargli il perdono.

19 giugno 2011                                                               

                                                                                     Salvatore Mongiardo

martedì 29 marzo 2011

VEGETARIANESIMO E VITA GIUSTA


Il vegetarianesimo come base dell'etica pitagorica e della vita giusta
Intervento per l’Associazione Cattolici Vegetariani
Ozzano Emilia (BO), 2 Aprile 2011

          Care amiche a cari amici,

se guardiamo ai principi che ispiravano la condotta di vita di Pitagora e dei pitagorici, vediamo che, rispetto al mondo di oggi, essi sono in tutto e per tutto l’opposto. In altre parole, il mondo attuale e i suoi valori sono esattamente descritti da un solo aggettivo: antipitagorici. Si potrebbe anche aggiungere che tutti i nostri mali erano stati previsti da Pitagora. Anzi possiamo addirittura immaginare Pitagora che guarda al nostro mondo che va male, e con un sorriso di superiorità commentare: come volevasi dimostrare!
Vediamo allora brevemente quali erano i principi seguiti da Pitagora e dai suoi. Sono sette i capisaldi dell’etica pitagorica. Il numero di sette è una mia elaborazione, che però rispecchia la predilezione di Pitagora per questo numero che ricordava il giorno di nascita di Apollo, di cui Pitagora si riteneva figlio.

Questi capisaldi sono:
1.    i beni devono essere in comune
2.    la vittoria sporca l’uomo
3.    rifuggire dal successo e dalla gloria
4.    astinenza dal sesso
5.    vita sobria di comunità in posti solitari
6.    amicizia universale
7.    vegetarianesimo

          1. La comunione dei beni, praticata anche dai primi cristiani ma presto dimenticata, era la conditio sine qua non per far parte della cerchia dei pitagorici, i quali dovevano mettere tutti i loro beni a disposizione della comunità, salvo poi riprenderli in caso di abbandono. Tanto per fare un esempio puramente teorico, se applicassimo la regola pitagorica al debito pubblico italiano, questo verrebbe automaticamente azzerato dai risparmi degli italiani che all’incirca ammontano alla cifra del debito.

          2. La vittoria che sporca il vincitore è dottrina originale del pitagorismo, che riteneva un male la separazione del vincitore dai vinti, in quanto il vincitore diventava soggetto d’invidia. La vittoria aveva dunque un suo carico perverso, era indegna di una persona per bene. I pitagorici potevano gareggiare per gioco, ma senza vincitori, tanto che era proibito loro perfino assistere ai giochi olimpici dove si coronavano i vincitori. In questo senso ristretto sarebbe da interpretare l’espressione che ai giochi è importante partecipare, non vincere.

          3. Il rifiuto del successo e della gloria si giustificava perché il pitagorico doveva impiegare le sue migliori energie in una conquista delle cose nobili e belle, come la conoscenza del firmamento, l’unione a Dio, lo studio, l’apprendimento delle dottrine arcane e delle scienze. La ricerca del successo e della gloria invece erano fuorvianti perché distoglievano da quegli obiettivi considerati il vero scopo della vita. Oggi prevalgono in tutto il pianeta le culture anglosassoni per le quali vincere, essere il primo, avere successo, è tutto e anche di più.

          4. L’astinenza dal sesso, salvo la procreazione, era molto rigida presso i pitagorici e come tale passerà nel cristianesimo. Per Pitagora il sesso era un piacere ammaliatore e omicida, come il canto delle Sirene, che induceva a distrazioni e tradimenti, alimentando fantasie morbose che divoravano la mente e l’anima dell’individuo. E’ rimasta celebre l’espressione ironica di Pitagora quando qualcuno dei suoi allievi gli chiedeva il permesso di lasciare la scuola per unirsi a una donna: Uno si accoppia quando vuole essere più debole di se stesso.
Le visite ai siti porno fatte giornalmente tramite internet vengono attualmente calcolate in centinaia di milioni in tutto il mondo: ricordano il canto ammaliatore e omicida delle Sirene, perché divora le migliori energie dell’individuo.

          5. La vita dei pitagorici doveva svolgersi lontana dalle grandi città per non essere distratti e turbati dalla vita reale. Era soprattutto bandita la mollezza dei costumi e il lusso: la vita doveva svolgersi sobriamente e con grande forza d’animo. Una prova di carattere per i pitagorici consisteva nel preparare un lauto banchetto e poi andare via senza assaggiare nulla! La vita in comune delle comunità pitagoriche era una invenzione che non aveva precedenti nel mondo occidentale. La vita comunitaria eliminava alla radice quello che oggi è il maggiore dei mali: la solitudine dell’individuo, abbandonato dalla famiglia soprattutto nella parte finale della vita. Qualcosa di inconcepibile per i pitagorici, i quali accorrevano dai loro sodali ammalati e li assistevano curandoli fino alla morte.

          6. L’amicizia universale, la filìa, è riportata nel capitolo 33 della Vita Pitagorica di Giamblico, e vale la pena citarla per esteso:

…la filìa era l’amicizia degli dèi verso gli uomini tramite la pietà e il culto. Amicizia dell’anima per il corpo e della ragione per le facoltà irrazionali grazie alla filosofia e alla sua contemplazione speculativa. Amicizia degli uomini l’uno per l’altro: fra i cittadini tramite la retta osservanza delle leggi; fra gli stranieri, tramite l’esatta scienza della natura umana; dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli e i parenti in virtù di un incorruttibile sentimento di comunanza. Amicizia insomma di tutti per tutti, persino verso gli animali. Amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso tramite la buona salute, il regime di vita adatto e alla temperanza.

Una sola e sempre la medesima parola, filìa, questo amore reciproco, che fa in modo che tutti i galantuomini del mondo siano amici anche prima di conoscersi. Oggi siamo lontani anni luce da quell’insegnamento con tutte le forme di razzismo, chiusura culturale a migranti, terzo e quarto mondo.
         
          7. La proibizione di nutrirsi di animali, sia carne che pesci, era giustificata da Pitagora perché l’animale aveva in comune con l’uomo lo stesso spirito di vita: l’uomo era fratello maggiore dell’animale al quale egli doveva rispetto e aiuto. Pitagora sosteneva che mai si sarebbe potuto uccidere un uomo se non si uccideva l’animale. Quindi, il cibarsi di carni era la porta dalla quale entrava la violenza nell’uomo, e la vera origine di tutte le guerre. Per questo l’offerta pitagorica agli dèi consisteva in focacce di farina e miele, spesso a forma di animale, come nel caso del bue di pane che Pitagora offrì quando scoprì il suo famoso teorema. Egli suscitò meraviglia a Delo, quando offrì focacce ad Apollo Genitore che non accettava sacrifici cruenti. I pitagorici, che in bianche vesti di lino facevano le loro offerte di pane, sfidavano i templi di Grecia e Magna Grecia bagnati dal sangue delle vittime.

Allarghiamo adesso il discorso sul vegetarianesimo di Pitagora il quale chiaramente ammonisce che l’uscita dalla violenza è possibile solo se si guarda alla vita e ai suoi problemi con audacia e benevolenza. Pitagora difatti iniziò la sua straordinaria avventura umana prendendo le difese di un cane bastonato. Il filosofo non solo rifiutava di cibarsi sia di carne che di pesce, ma stava lontano da cacciatori e macellai. L’uccisione, e poi il consumo di creature, come ribadisce il pitagorico Empedocle, aveva due effetti nefasti per l’uomo: provocava una brama incontrollata di sesso e, inoltre, faceva nascere una cultura violenta che alla fine restituiva all’uomo la violenza perpetrata contro l’animale.

Questo concetto lo ritroviamo in Giordano Bruno, il quale scriveva testualmente:

Ben fece Caino a uccidere quel massacratore di animali Abele…

Bruno voleva indicare, nel suo linguaggio colorito, che la violenza data agli animali fatalmente si ritorce contro l’uomo per una legge di reazione uguale e contraria.

Riprendiamo adesso il discorso su pecore e agnelli ricordando il rispetto dimostrato da Pitagora per questi animali. Pitagora e i suoi si rifiutavano addirittura di indossare abiti di lana perché era il vestito dell’animale che non poteva essere tosato. Lino non lana, era il loro vestire, e la loro vestizione anche da morti. E il lino era prediletto perché a ogni lavaggio diventava sempre più candido, simbolo di purezza. Questo rispetto estremo per l’agnello ci richiama la figura di Cristo Buon Pastore, che non vende e non uccide le sue pecore, ed è in forte contrasto con l’offerta mattutina e vespertina nel Tempio di Gerusalemme, dove si offriva l’olocausto di un agnello.
Oggi è universalmente accettato che Gesù era in qualche misura ammiratore o conoscitore o seguace degli Esseni, la setta religiosa di Ebrei che lasciarono i loro scritti nei Rotoli di Qumran. Lo stesso Papa Benedetto XVI, durante la celebrazione del Giovedì Santo 5 aprile 2007, ha affermato che Gesù potrebbe aver celebrato la Pasqua ebraica, la sua Ultima Cena, nel giorno in cui la fissava il calendario degli Esseni, che erano vegetariani. Il papa ha detto testualmente:

…Gesù ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran… e l’ha celebrata senza agnello…

C’è però da chiedersi a chi s’ispiravano gli Esseni nella loro pratica rigorosamente vegetariana e nella contestazione del Tempio di Gerusalemme e di ogni sacrificio cruento. Una fonte, che nessuno può mettere in dubbio, è il grande storico Giuseppe Flavio, colto ebreo di nobile famiglia, che partecipò come generale alla guerra contro i Romani e predisse a Vespasiano che sarebbe diventato imperatore. Nelle Antichità Giudaiche (XV, 371) egli scrive testualmente degli Esseni:

Si tratta di un gruppo che segue un genere di vita che ai Greci fu insegnato da Pitagora.

Il dato decisivo però non è tanto la testimonianza degli storici, quanto il fatto che gli Esseni e i pitagorici facevano le stesse cose:
·       vita di comunità
·       cena rituale
·       beni in comune
·       osservano la castità
·       dottrine segrete
·       vestiti di lino bianco
·       preghiere al sorgere del sole
·       bandiscono l’olio
·       proibiscono il giuramento
·       sono vegetariani
·       aborriscono il sacrificio
·       bagno rituale

Senza voler andare nei dettagli, ci limitiamo a questi dodici punti che balzano agli occhi. Ora, se incrociamo queste informazioni, arriviamo a quanto scriveva monsignor Canciani su Gesù come esseno e vegetariano che cacciava gli animali dal Tempio per salvarli, e che celebrava l’Ultima Cena senza agnello.
Personalmente sono convinto che è necessario guardare a Gesù attraverso la cultura pitagorica, che nel mondo antico ebbe una diffusione oggi largamente sottovalutata. Basti pensare che la dottrina dei Sufi altro non è che la diramazione pitagorica nel mondo islamico, come quella essena lo fu nel mondo ebraico.
Nel libro che sto scrivendo, dal titolo Cristo è arrivato a Crotone, i punti di contatto tra Pitagora e Gesù portano a una visione di Gesù come grande filosofo, una analisi che finora non è stata compiuta. Basti solo pensare che Gesù fu l’unico ad andare oltre Pitagora e la sua metempsicosi, la trasmigrazione delle anime. Gesù andò anche oltre la dottrina, codificata poi da Plotino, con l’eterno ripetersi del ciclo cosmico, tanto simile alle reincarnazioni del mondo orientale. Quelle concezioni, ripetitive e cariche di angoscia, vengono superate brillantemente da Gesù con la creazione del tempo lineare, dal vivente che raggiunge Gesù risorto per l’eternità senza ripiombare più nel ciclo. E’ un argomento complesso che non può essere affrontato ora, ma si sintetizza dicendo che la dottrina di Cristo, rivisitata in chiave pitagorica, acquista enormemente in coerenza e razionalità.

L’Apocalisse termina con l’adorazione dell’Agnello, che rimane vivo sul trono di Dio, nella Gerusalemme Celeste dove non c’è più spargimento di sangue. Le ultime parole dell’Apocalisse sono un’invocazione accorata quanto inaspettata: Vieni, Signore Gesù! Abbiamo diritto a chiederci: perché Gesù deve tornare una seconda volta? Io penso che Gesù stia ritornando nello splendore della sua veste di lino per ristabilire la grande coerenza con la quale ha vissuto. Non si può difatti parlare di fine dei sacrifici cruenti, e poi lasciare che si macellino milioni di vittime ogni giorno. Gesù torna per fare sulla Terra una sola famiglia per tutti i viventi, e questo avverrà attraverso la giustizia animale.

Mi rendo conto che questo può apparire una utopia. Ma voglio darvi due segni che ho captato durante le ricerche per la stesura del mio libro. Due segni conservati nella chiesa, ma dei quali abbiamo perso la memoria. Tutti e due i segni provengono dalla Magna Grecia, la terra di Pitagora. Il primo è la prescrizione delle tovaglie di lino bianco su tutti gli altari, prima ricoperti da tovaglie colorate. Questo fu disposto da papa Eusebio che regnò pochi mesi nell’anno 300 dopo Cristo. Papa Eusebio, chiamato magnogreco, proveniva da Casignana in Calabria, e per quella riforma si ispirò direttamente alla tradizione pitagorica.
Il secondo segno è l’elevazione dell’ostia nella messa. Fino alla riforma conciliare della liturgia, il sacerdote celebrava con le spalle rivolte al popolo. Era difatti una prescrizione pitagorica non voltare mai le spalle al sole, al Dio, ed è anche la ragione per cui gli altari erano posizionati sempre a oriente. L’ostia, rotonda e bianca di luce come il sole nascente, provenivano dalla tradizione pitagorica del Sud Italia, e da lì passarono a Roma. Duc in altum, duc in altum! Alzala, alzala, gridavano al sacerdote i primi cristiani che volevano vederla alzarsi come il sole. Questi due segni ci indicano che siamo alle porte di una più profonda comprensione della storia per la costruzione del regno di pace fra tutti i viventi.

2 aprile 2011
                                                                          Salvatore Mongiardo