martedì 13 marzo 2012

LA MESSA DI DON ANGELINO

La messa di don Angelino

Era il luglio del 1956 e di primo mattino andavo verso la Chiesa Matrice di Sant’Andrea Ionio per servire le messe. Sarei rimasto più volentieri a dormire per riprendere fiato dopo le fatiche dell’anno scolastico, trascorso nel Seminario Regionale di Catanzaro, ma gli obblighi religiosi continuavano anche durante le vacanze. Il caldo era infernale già a quell’ora e dai muri delle case veniva il calore che non si era disperso durante la notte.
Passai davanti alla grande casa dei Donnàngeli, che si stendeva per tutta la biforcazione di due strade che si congiungevano poi davanti a Piazza Castello, dove sorgeva la Chiesa Matrice. I Donnàngeli erano una delle poche famiglie buone di Sant’Andrea. Non erano baroni, titolo che avevano solo i Mattei e gli Scoppa. Erano una nobiltà minore, come i Iannoni e i Damiani. Avevano campagne, persone letterate in famiglia, e un buon numero di fondi agricoli. Tutte le famiglie buone potevano fregiarsi del don alla maniera spagnola e la parola Donnàngeli era una denominazione di quella famiglia che aveva avuto don Angelo Maria Calabretta, arciprete di Sant’Andrea fino al 1870 circa, prima del latinista arciprete Antonio Mongiardo. Anche l’ultimo erede maschio portava il nome di Angelo, don Angelino Calabretta, che all’epoca aveva circa quaranta anni. Calabretta è un cognome di Sant’Andrea, sul quale è opportuno fare una riflessione. I Bretti, o Bruzi, erano gli schiavi fuggitivi di cui parla lo storico Tito Livio, che costituirono il nucleo interno e indomabile della Calabria. Il cognome Calabretta forse è in grado di svelare la vera origine del nome Calabria, che a me sembra venire dal greco Kalabrettia, cioè la Bella Brettia. I Bretti del territorio di Sant’Andrea, i Calabretta, convissero e si fusero con i Samà, i vasai venuti dall’isola greca di Samo nel settimo secolo avanti Cristo.

Il Vèiolo stava aprendo il basso terraneo dei Donnàngeli e conduceva fuori l’asino. Il Vèiolo si occupava delle loro campagne, era guercio dell’occhio sinistro che aveva perso per una scheggia di legno, e indossava una giacca di velluto giallo a coste. Il suo vero nome era Andrea Arena, ma tutti lo chiamavano in quel modo perché lui diceva di se stesso che era vèiolo: non pronunciava correttamente la parola vedovo, termine poco conosciuto nel linguaggio andreolese che usava la forma latina di cattivo o cattiva per chi era in vedovanza. Cattività non cattiveria, condizione giuridica di captivus, cioè di non libero, secondo le antiche regole del diritto romano. Il Vèiolo non sapeva di queste sottigliezze, anche perché la sua vedovanza era inventata. La moglie, una forestiera, lo aveva abbandonato senza figli e lui aveva giudicato quell’abbandono come una morte. Il Vèiolo aveva partecipato in trincea alla prima guerra mondiale, ma non voleva parlarne. E non voleva nemmeno parlare della moglie: era vedovo.

Il caseggiato dei Donnàngeli era inquietante. Sopra il basso terraneo dell’asino c’era una costruzione al rustico rimasta incompiuta da decenni. Dove l’incompiuta finiva, c’era un deposito di statue e arredi sacri che veniva aperto il Venerdì Santo per prendere la naca, il catafalco del Cristo morto da portare in processione. Quel locale era stato in passato una chiesetta dedicata alle Anime del Purgatorio, ma non aveva una congrega che la sostenesse economicamente, e fu soppressa. Come ricordo di quella vicenda era rimasto un modo di dire che indicava una persona dal viso strano, improbabile: Sembra il procuratore delle Anime del Purgatorio. Quel procuratore difatti non era mai esistito perché non esisteva la congrega.
Costeggiando la casa per tutta la sua estensione fino all’altra strada, c’erano mezzanini sempre chiusi, balconcini, un grande balcone centrale e il portone con un bel portale in granito. Separato dalla strada, c’era il trappeto dei Donnàngeli, uno tra i più importanti frantoi delle ulive del paese.
Don Angelino Calabretta, baffetti, fine viso greco, era rimasto orfano di padre in tenera età e aveva perso la madre durante la sua prigionia nella seconda guerra mondiale. Così fu allevato dalle due zie nubili, donna Severina, la maggiore, e donna Caterinella. Le due sorelle vestivano all’antica con lunghe sottane, corsetto, capelli raccolti a chignon, u tuppu, e andavano a supervisionare le campagne sempre con l’ombrello per proteggersi dalla pioggia o dal sole. Il comando effettivo della casa era nelle mani energiche di donna Caterinella, tanto che in un’occasione il costruttore Argentino Samà ebbe a esclamare: Ma quale Caterinella, è una Caterinona! Don Angelino aveva sposato una Rispoli di Davoli e aveva deciso che era più conveniente prendere impiego a Catanzaro presso l’Inps, visto che le campagne venivano abbandonate con l’emigrazione di massa dal Meridione.

Quella mattina di metà luglio 1956 era stato per me particolarmente pesante. In chiesa c’erano state due messe cantate di suffragio per i morti con tre preti in paramenti neri, che accompagnati dall’organo salmodiavano l’Ufficio dei Defunti e poi celebravano la messa. All’epoca vigeva ancora il digiuno eucaristico ed io avevo potuto bere solo un po’ d’acqua dopo la comunione. Non vedevo l’ora di andare a casa a fare colazione e mi stavo preparando a uscire dalla sacrestia, quando la campana mezzana annunciò una messa cantata di gloria, con rintocchi ben diversi di quelli lenti delle tre campane che annunciavano le messe da morto. Il sacrestano Benincasa mi disse che c’era una messa straordinaria all’altare della Madonna del Carmine. I tre sacerdoti indossarono paramenti bianchi e si diressero alla cappella del Carmine, mentre l’organista cieco cantava il Kyrie eleison e io portavo l’incensiere. Non c’erano fedeli perché l’ora era tarda e don Angelino era il solo ad assistere alla messa. L’arciprete Samà, il celebrante, disse che era in ringraziamento per la sua assunzione all’Inps.
La famiglia di don Angelino si trasferì a Catanzaro ma non dimenticò il Vèiolo che, vecchio e malato, fu ricoverato in ospedale dove Peppe, il figlio di don Angelino, andava a imboccarlo ogni giorno. Alla fine della vita il Vèiolo si rivolgeva a Peppe chiamandolo figlio, fijju. E il giovane era felice di sentirsi chiamare figlio dal servitore. In quell’ospedale di Catanzaro il feudalesimo si chiudeva per sempre in amore.
11 marzo 2012
Salvatore Mongiardo

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