lunedì 10 ottobre 2016

Ricordo del cugino Angelo

Ricordo del cugino Angelo

(Angelo Iorfida, S. Andrea Jonio 1929 - Canton Ohio 2016)

Di mio cugino Angelo ho scritto nei miei libri, e ora che è morto voglio ricordarlo per il suo fortissimo attaccamento al paese natio che sembrava crescere invece di diminuire con gli anni. Angelo era partito nel dopoguerra con la madre Maria Vittoria per ricongiungersi al padre Nazareno rimasto in Usa. La sua partenza avvenne nel 1947, quando Angelo aveva appena conseguito il diploma di maturità classica. Più volte mi ha raccontato il suo viaggio avventuroso per andare a consultare Padre Pio sull’opportunità di andare o meno in America. Padre Pio non ebbe dubbi: Moglie e marito devono stare assieme. Angelo ricordava perfettamente il profumo celestiale di fiori che emanava dal confessionale del frate.

Il viaggio per l’America riservò loro una sorpresa perché la nave era stata costruita per i mari caldi e nelle acque fredde dell’Atlantico le lamiere si restringevano col rischio di allagamento. Il capitano ricevette ordine di fermarsi e attendere un’altra nave che sarebbe arrivata in soccorso. In alto mare i passeggeri furono trasbordati ad uno ad uno con una teleferica.
All’arrivo in America, Angelo si iscrisse all’università e si impegnò negli studi con successo, ma anche col risultato di perdere i capelli: era credenza in paese che lettura e studio facevano venire la calvizie. Angelo era un giovane prestante e molto bello e quella perdita dispiaceva a sua madre che ci scrisse per procuragli un rimedio ritenuto infallibile. Nella lettera zia Maria Vittoria chiedeva di spedire… escrementi di topi con la quale fare ad Angelo degli impacchi sulla testa. Le mie zie avevano un podere vicino al paese, l’Abbruschiata, sulla strada di Briga verso il fiume Saluro. In quel podere c’era un ricovero in muratura abbandonato dove i topi facevano festa lasciando abbondanti escrementi. Un giorno le zie mi portarono con sé e mi sollevarono -io avevo forse otto anni- fino a raggiungere un ripiano del ricovero dove gli escrementi neri erano particolarmente abbondanti. Poi mi mandarono verso la gebbia piena d’acqua e io vi andai a lavare le mani, anche se avevo paura perché spesso vedevo u jèlandru, la biscia d’acqua, che stava sul muretto della gebbia a scaldarsi prima di lanciarsi a prendere qualche rana.

La cura per i capelli non ebbe effetto, e su quell’episodio facemmo grandi risate con Angelo quando andai a trovarlo a Canton. La calvizie comunque non impedì ad Angelo di sposare la bella Mary, nata in America, figlia di una sorella del prefetto Sandro Voci.
Nei nostri incontri in America il paese di Sant’Andrea tornava vivo nei racconti di Angelo, quasi dolente, come se il suo distacco non fosse mai avvenuto. Le persone, i fatti, le famiglie, i racconti erano come un film infinito dal quale lui non riusciva a staccarsi.

In paese Angelo aveva abitato nel rione del Ferraro, e vicino a casa sua stava un sempliciotto, u Pacciarìaddhu ’e Mugnulu, il quale nella vita si era scelto un compito importante. La mattina all’alba si metteva a gridare: Alzatevi, gente, che è giorno! E alla sera: Coricatevi, gente, che è notte!

Più di una volta Angelo mi descriveva il panorama che si vedeva dalla sua casa del Ferraro: c’era il viottolo che scendeva verso il Valloncello, dove tra la folta macchia mediterranea svettavano tre grandi pini. E vi scorreva un rigagnolo d’acqua dove andavano a bere i colombi che avevano il nido nel sottotetto della Chiesa Matrice. Poi il terreno si addolciva verso la marina con le colline di creta coltivate a grano… e il mare azzurro si stendeva davanti alla costa …
Angelo ricordava quei paesaggi con straordinaria vivezza e struggente nostalgia. Spero che la visione azzurra del nostro mare gli sia stata di conforto nella sera della vita. 

Salvatore Mongiardo

11 ottobre 2016