domenica 11 settembre 2011

L’ARMISTIZIO DEL 1943




Lo sbarco degli americani in Sicilia aveva cambiato le sorti della guerra. I tedeschi si ritiravano attraversando la Calabria, e ammassavano armi lungo il torrente Callipari, a pochi chilometri da Sant’Andrea, per opporre resistenza agli americani. Il timore di rimanere coinvolti in una battaglia, spinse molti andreolesi a cercare rifugio fuori paese, e la mia famiglia si trasferì a Tralò, nella casetta di campagna di zio Giovanni Ranieri. I giovani andreolesi sotto le armi erano un numero impressionante: più di cinquecento, come risulta dagli archivi comunali, circa il dieci per cento della popolazione. A Tralò c’erano mio padre, zio Giovanni, molte zie e cugini, una ventina di persone, tra le quali mio cugino Angelo Iorfida. Io avevo allora due anni, ma ricordo tutto, come mio padre, che scherzava sulla sua memoria prodigiosa dicendo: Ricordo pure quando si è sposata mia madre!

La scelta di Tralò non era stata felice. La cima, che si vede a occhio nudo dalla Locride fino alla Presila, è un punto trigonometrico riportato su tutte le mappe militari. Gli aerei americani vi giravano attorno per calcolare la rotta e poi andavano a bombardare i ponti di strada e ferrovia. Il rombo di avvicinamento degli aerei era terrorizzante, mio padre ansimava, io chiedevo un asciugamano per coprire le gambe, perché ero convinto che le bombe me le spezzavano, le donne imploravano a gran voce tutti i santi. Come se non bastasse, c’era anche un gran serpente nero, innocuo ma spaventoso, che strisciava nelle vicinanze della casetta: la zia Nunziata aveva appeso filze di aglio per tenerlo lontano. Zio Giovanni aveva un bosco di castagni in montagna, a Farina, e fu deciso di trasferirci lì. Mio padre fece costruire in fretta dai carbonai un gran capanno di frasche ben fitte, con il tetto in terra battuta per resistere alle piogge, e pagò una cifra enorme: diecimila lire!

Era l’inizio di agosto e ci muovemmo verso Farina, dove il numero di persone  aumentò con l’aggiunta di altri parenti. Mia madre, anche se incinta al nono mese, portava una sporta sulla testa, io camminavo tenuto per mano dalla zia Mariuzza. Anna mia sorella, che aveva quattro anni, portava una gallina. A Farina, accanto al capanno, c’era una capannina, dove stava il suocero di zio Giovanni, Peppe lo Zasso, anziano e sempre coricato. All’inizio io avevo paura di quel vecchio, coperto di un lenzuolo bianco, che però mi prese a benvolere e mi insegnava le filastrocche:

Na vota era Carota
Chi facìa cozzetta e vota
Sa masurava e non li jìa,
Jestimava a morta chi on venìa.

Oppure:
Ara ruga do Ferraru
Ci stannu tri infantini:
Mara Rosa, Cuncipita e Catarini.

O ancora:
E mo’ chi ti vivisti
Tuttu u vinu da caseddha
Attàccati a sta ciarameddha!

Intanto, il 22 agosto del 1943, mia madre cominciò ad avere le doglie del parto, e mio padre mandò mio cugino Angelo a chiamare in paese il medico Pietro Voci. Per convincerlo a quella trasferta, ci volle l’asino di Gerardo Ramogida, ma il medico si rifiutò di salire sul duro basto, e mandò Angelo dai Padri Liguorini per farsi prestare la sella da donna. I Padri, quando andavano in missione nei paesi sperduti, usavano quella sella perché la sottana gli impediva di cavalcare come i maschi. Le ore passavano, e quando il medico arrivò, trovò una bella bimba che vagiva, Caterina. Il numero era cresciuto, eravamo trentadue, anzi trentatré contando anche Bianchina, la capra maltese. Al medico Voci piacque quel posto e vi rimase diversi giorni, attirato dalle soppressate e dal vino buono, facendo però preoccupare mio padre per la bocca in più da sfamare. Il medico ricambiò l’ospitalità con una astuzia. Sull’atto di nascita fece scrivere: Nata in località Farina, dove i genitori si trovavano a villeggiare. Il medico spiegò che era un accorgimento utile se la bimba, da grande, avesse dovuto sposare un forestiero: non era necessario dovergli dire che era nata sotto gli alberi! Non andò così, e Caterina sposò il medico andreolese Andrea Armogida.
Una notte una voce di uomo echeggiò ripetutamente nella vallata: Mastru Vicenzinu! Qualcuno chiamava mio padre, le zie raccomandarono di stare zitti e spensero la lanterna a olio. Poteva essere un traditore che voleva scovare i fuggiaschi per segnalarli ai tedeschi!
Mio padre si fece coraggio e gridò: Chi sei?
L’uomo rispose: Sono il figlio di Mannagajjha! – soprannome di una famiglia andreolese.
Mio padre: Cosa vuoi?
L’uomo: La guerra è finita, l’abbiamo sentito alla radio!
Mio padre: Abbiamo vinto?
L’eco faceva: o-o…
L’uomo: No, armistizio incondizionato!
L’eco: o-o…
Mio padre: E vaffanculo!
L’eco: o-o…
Guerra e pace, vincere e perdere, erano cose degli uomini che l’eco non capiva. Per l’eco, quella notte dell’8 settembre del 1943, tutto finiva con un o-o.
                                                                    
                                                                                        
                                                                                         Salvatore Mongiardo

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