domenica 18 novembre 2012

Storia della statua di S. Andrea Apostolo


Storia della statua di S. Andrea Apostolo
che si venera nell’omonimo paese sullo Ionio in Calabria

La statua è in legno di ulivo e risalirebbe all’anno 1047. Ne abbiamo certezza perché, intorno al 1933, i pittori Zimatore e Grillo, che affrescarono la chiesa del Patrono, decisero di aprire la statua per alleggerirla e risanarla dei tarli roditori. I portatori, difatti, si lamentavano del peso eccessivo durante le lunghe processioni, ma nessun falegname in paese era disposto a tagliarla. Allora i pittori si rivolsero a mio padre, Mastru Vicenzìnu, che trapanò il petto del Santo e vide che la punta di ferro affondava. Poi la segò dalla spalla sinistra alla coscia destra, e nel cavo c’era ’na cartuddha, un pezzetto di pergamena con su scritto 1047. Mio padre era categorico sulla data: ’A vitta io!... L’ho vista io! Questa notizia è leggermente in contrasto con quanto riporta don Tito Voci nel suo bel libro Indagine storica su S. Andrea Jonio (pag.51), che fa risalire l’iscrizione all’anno 1009, e il rinvenimento dell’iscrizione stessa a metà del Milleottocento, quando la statua fu restaurata dopo l’oltraggio dei soldati francesi. Don Tito riporta questa notizia che aveva appreso dall’arciprete don Bruno Voci, grande dotto e compagno di studi di Pio XII a Roma.
Gli anni attorno al Mille erano quelli della conquista della Calabria da parte dei Normanni, ma prima del loro arrivo da noi si osservava il rito greco, che esclude tutte le statue e permette solo le immagini, le icone. La statua, quindi, segna un ritorno al culto latino e testimonia anche che il paese di Sant’Andrea in collina era preesistente, visto che si poneva una statua importante in quella chiesa. La statua riecheggia le antiche sculture greche, con il piede sinistro poggiato sulla punta e indietreggiato rispetto al destro. Elemento particolare è il libro che il Santo tiene con la mano sinistra e che rappresenta il Vangelo di Sant’Andrea, il famoso Quinto Vangelo che nessuno ha finora trovato e che riporterebbe una dottrina in parte diversa da quella dei quattro vangeli canonici. Nella stessa pagina don Tito scrive: Tra i simboli di Sant’Andrea, insieme alla croce e ai pesci, vediamo un libro, che può riferirsi ai Vangeli di Sant’Andrea, messi tra gli apocrifi del Decreto Gelasiano (Papa Gelasio I, 492-496). Certamente lo scultore teneva conto dell’antica tradizione orientale circa un vangelo attribuito a S. Andrea, e testimonia così anche l’antichità della statua.
Questa vicenda è stata narrata da Mario Pomilio nel bellissimo romanzo “Il quinto evangelio, Rusconi, 1975, pag.73”:
… Avevo dimenticato di parlarti d’una credenza e d’una usanza. Si dice qui che ogni cento anni un monaco arriva fra noi dall’Oriente recando con sé un libro e dei pesci. Ed è uso d’un paese non distante da qui, sito proprio a mezza strada tra Stilo e Vivario, d’addobbare ogni anno in primavera una navicella con fiori e ricchi drappi, per simularne lo sbarco. Dietro l’uomo che fa le
parti del monaco si forma quindi una processione la quale per un sentiero sale fino a un’antica chiesa molto cara ai pescatori e dedicata a Sant’Andrea, quello stesso che fu tra gli apostoli di Gesù e che, a quanto narrano, fu inviato in Calabria a convertire le nostre genti. Alla fine i pesci e il libro vengono deposti sull’altare. I primi sono per ricordare che fu proprio quell’apostolo a indicare a Gesù, quando le genti ebbero fame, il ragazzo che teneva in mano i pesci e i pani del miracolo. Per quanto riguarda il libro, un vecchio codice dei Vangeli, ricordo d’aver udito che fu appunto Sant’Andrea colui che indusse San Giovanni a scrivere il suo Vangelo.
Il paese cui fa riferimento Mario Pomilio, a metà strada tra Stilo e Vivario, cioè Squillace, non può essere che il nostro, ma non sappiamo da dove Pomilio prese quell’indicazione così precisa.
Nel libro di Mons. Francesco Samà, dal titolo Vita di S. Andrea Apostolo, si narra che la statua fu portata al mare e bagnata dal popolo per implorare la pioggia dopo tre anni di siccità: O ni vagni o ti vagnàmu… O ci bagni o ti bagniamo. Quest’antica credenza forse riecheggia i riti propiziatori della pioggia che si facevano ai tempi della Magna Grecia, portando a mare le statue delle divinità, come avveniva per i Bronzi di Riace (Prof. Giuseppe Roma, Università della Calabria). Monsignor Samà riporta anche l’offesa fatta alla statua durante il saccheggio del paese nel 1806 da parte delle truppe napoleoniche. Un soldato cavò gli occhi con la baionetta perché non era riuscito a tirare la statua giù dalla nicchia per distruggerla: Accippàu, cioè diventò pesante e immobile come un ceppo d’albero.
La croce a X, o croce decussata, è il simbolo del Santo e si trova anche su alcune bandiere, come quella di Scozia. Generalmente si ritiene che il Santo fu legato a una croce di quella forma. La critica più recente spiega che forse fu legato a un albero con piedi e mani allargate, e diventò lui stesso come una X, come l’uomo di Leonardo per intenderci. Fu quindi visto dai presenti come una X, che nella lingua greca corrisponde al chi aspirato maiuscolo e rappresenta, secondo Platone, l’immortalità.
Al braccio destro del Santo è appesa una coppia di triglie, in ricordo di quando Andrea di Betsaida era pescatore fin quando Gesù lo chiamò per primo: perciò in greco è designato come protocleto. Betsaida sorge sul Lago di Genezaret o Tiberiade, in ebraico Kinneret per la sua forma di arpa, detto anche Mar di Galilea, dove le triglie, pesce di acqua salata, non esistono, come ho verificato di persona. La triglia, invece, è comune nei mari della Grecia (barbunia). Le reliquie che si conservano in paese sono due: una è del liquido (manna) che trasuda dal sacello dove si conservano le ossa dell’Apostolo in Amalfi. L’altra è un frammento dell’occipite (còcculu), secondo una tradizione orale a me riferita da don Luigi Samà. D’altra parte, Mario Codispoti ricorda come nel popolo si credeva che gli Andreolesi fossero particolarmente intelligenti per virtù di questa reliquia. La complessa vicenda delle reliquie del Santo è riportata nel libro di Mons. Samà e si può riassumere così: in Amalfi c’è il corpo e l’occipite, come ho verificato di persona. Il cranio, portato a Roma, fu restituito da Papa Paolo VI alla Chiesa di Patrasso. Dal cranio manca anche la parte frontale, venerata nel Monastero di Sant’Andrea sul Monte Athos in Grecia, da me fotografata nell’agosto del 2012 (vedi foto).
Nelle vecchie immaginette e nel filmino a colori girato dal compianto Bruno Greco, insegnante e notaio a Brooklyn, si può vedere l’aureola in argento trafugata nel furto sacrilego intorno al 1950 assieme alla croce e ai due pesci. Quell’aureola era fatta con grappoli d’uva traforati e intrecciati su tutta la superficie, mentre l’aureola che l’ha sostituita porta dei grappoli solo verso l’esterno. Per quanto a mia conoscenza, il dio greco Diòniso aveva il capo coperto di grappoli d’uva (Bacco per i Romani). Quell’aureola forse riecheggiava le nostre lontane origini come popolo degli Enotri che poi diventarono Itali. Quegli Enotri abitavano le nostre contrade, come confermerebbero i palmenti scavati nella roccia, di recente scoperti nelle campagne di Santa Caterina Ionio (vedi relazione di Manuela Alessia Pisano).
Salvatore Mongiardo