lunedì 1 dicembre 2014

VANGELO DI NONNA MARIANNA

Vangelo di nonna Marianna

Dedico questa novella alla memoria di mia sorella la scrittrice Anna Mongiardo

Nonna Marianna era vedova di mio nonno paterno Salvatore, morto nel 1922 per malattia contratta durante la prima Guerra Mondiale nel gelo del Monte Grappa, dove lui era responsabile della teleferica. Quella morte mise in ginocchio la famiglia di otto figli piccoli, e nonna Marianna se la vide brutta fin quando mio padre, crescendo, non si impadronì del mestiere e poté iniziare a lavorare come fabbro nella bottega, la forgia, che era stata di suo padre.
La nonna, occhi nerissimi e lucidi come smalto, abitava in una casa a pochi passi dalla Chiesa Matrice e dall’Olmo della Libertà, uno dei tre piantati a Sant’Andrea durante la Repubblica Partenopea del 1799. La restaurata monarchia borbonica si guardò bene dal farli tagliare temendo rivolte: due dei tre olmi sopravvivono ancora in paese; il terzo fu tagliato agli inizi del Millenovecento davanti alla casa dei Migali, indomiti antiborbonici, per far passare la nuova strada provinciale. I Migali avevano voluto un olmo davanti casa per testimoniare l’opposizione ai tiranni, e usano fino al presente nella famiglia il nome di Armodio, uccisore del tiranno Ipparco nell’antica Atene.

A me piaceva andare da nonna Marianna per l’aura di mistero che si respirava nella sua casa dove vedevo il ritratto di nonno Salvatore in divisa militare, e quello del figlio, anche lui Salvatore, un bellissimo giovane morto a venticinque anni poco prima della mia nascita. Mi attiravano anche i fatti strani successi in quella casa, come quello accaduto quando era morto il cognato della nonna, Arena. Nonna Marianna aveva sentito un fracasso di stoviglie rotte e andò a guardare nella credenza, ma le stoviglie erano tutte intere. Impallidì allora, e capì che un parente lontano era morto e mandava l’avviso con quel rumore: era questa l’interpretazione che in paese si dava al rumore di piatti rotti. La nonna si preoccupò e andò a dirlo a mio padre che lavorava nella forgia sotto casa, ma lui sorrise incredulo e continuò a lavorare.

Era il periodo di carnevale e la nonna si mise a friggere polpette di carne di maiale riempiendone una limba, un grande recipiente di terracotta con la bocca più larga della base, quando arrivò il telegramma dall’America che annunciava la morte del parente. Allora mio padre chiuse la forgia, andò in casa dove si teneva il lutto, si ricevevano cioè le visite di condoglianza, durante le quali veniva offerto ripetutamente il caffè.
Mia nonna non sapeva cosa fare con la limba piena di polpette, la coprì con un grande piatto e la infilò sotto una cassapanca. Mio padre aveva lavorato sodo tutta la mattinata e, dopo l’ennesimo caffè, sentì un forte languore di stomaco. Ebbe bisogno di fare acqua, come si diceva pudicamente per fare pipì, andò al piano di sopra e vide la limba sotto la cassa. La tirò fuori, tolse il piatto e mangiò delle polpette. La ricoprì, la rimise sotto la cassa e ritornò al lutto che durò a lungo, e mio padre mangiò polpette altre volte. Quando la nonna radunò la numerosa famiglia per la cena e scoperchiò la limba, disse allibita:
            -Quantu fu sbertu u gattu, quanto è stato intelligente il gatto! Tirare la limba, scoperchiarla, mangiare le polpette e poi rimetterla a posto!

La nonna usava nel parlare le misure borboniche. Il muro della sua casa era stato rinforzato e c’erano volute due canne di pietra: una canna corrispondeva a otto metri cubi. Il vicino che aveva fatto il rinforzo non volle essere pagato:
-Galantuomo fu Franciscuzzu Varano, vero galantuomo!
Quando si era fidanzata, nonno Salvatore si accorse che in casa di lei non avevano sale: andò dal salinaro e tornò portandone nientedimeno dui livri, due libbre, poco più di mezzo chilo.
E per indicare una piccola quantità, lei diceva ’na unza, un’oncia, circa ventisette grammi. Lei era analfabeta e non sapeva leggere, ma riusciva a riconoscere alcune lettere maiuscole: Chissu è lu O, chistu è lu A…

Un pomeriggio mi raccontò di quando, molto tempo prima, la Sibilla era venuta in paese per far morire tutti gli abitanti. Si nascose in una casetta, aspettò l’ora propizia nella notte, aprì la finestrella e lanciò la maledizione:
            -Morea mortalitati, morea mortalitati!
E sarebbero morti tutti se una donna, udendo la maledizione, non avesse avuto l’accortezza di gridare:
            -Alle galline, alle galline!
La popolazione si salvò, ma al mattino tutte le galline furono trovate morte stecchite.

Mia madre non amava la nonna, sua suocera, per certi suoi modi di fare che a lei sembravano fuori luogo. Per esempio, quando mangiava e al termine si alzava da tavola, la nonna diceva:
            -E pure oggi mangiammo bellissima!
Una forma avverbiale antica che meriterebbe un approfondimento filologico, ma che a mia madre non piaceva, come non piaceva il gesto della nonna di raccogliere le briciole cadute per terra, solo un gesto, facendo finta di portarle alla bocca in segno di rispetto per il cibo che non si doveva sprecare.

Peggio ancora, la nonna beveva vino, cosa che mia madre disapprovava perché le donne non dovevano bere, e poi perché la nonna beveva come gli uomini. Con questa espressione mia madre indicava un modo di bere, usato dai lavoratori in campagna, dove si portava il vino in una mbùmbula, un orcio di coccio smaltato di verde, che conteneva circa due litri. Era di forma cilindrica con due manici in alto e l’imboccatura stretta. Quando si dava da bere allo zappatore, questo lo prendeva infilando la mano sinistra nel manico esterno. Poi coricava l’orcio sulla parte esterna dell’avambraccio sinistro e lo alzava facendo cadere del vino in bocca. La mano destra rimaneva appoggiata al marruggiu, il manico della zappa. Era un modo suggerito dall’igiene, per non bere dove altri avevano accostato le labbra.

Fu così che una volta, avevo una diecina d’anni, andai a trovarla ed entrando vidi la nonna proprio nell’atto di bere come un uomo. La nonna non si scompose, finì di bere dicendo: Lodamu u Signuri, si asciugò la bocca col dorso della mano, e nascose la mbùmbula sotto il letto, come faceva sempre. Poi si sentì in dovere di darmi una spiegazione:
            -Nipote mio, ora tu sei grande e devi sapere come è la vita! La vita è come se tu dovessi portare sulla testa un grossa màzzara, una masso tondeggiante di granito, dalla fiumara di Alaca fin su in paese. La pietra ti schiaccia e tu non reggi più. Allora che fai?
Mi sgomentava l’idea della màzzara sulla testa, ma non azzardavo una risposta. La nonna continuò:
            -Ti dico io cosa devi fare! Butti giù la pietra, ti siedi sopra e ti riposi. Poi devi mangiare bene e bere meglio. Ricordati: mangiare bene e bere meglio, altrimenti non ce la fai!
E rafforzò la negazione con un gesto non più in uso: piegò la mano destra all’interno verso il polso, la poggiò così piegata contro il collo e poi la fece scivolare in fuori stendendola a palma in su. In quel momento suonò la campana grande della Chiesa Matrice per la funzione serale. A quel rintocco i colombi volarono dal sottotetto della chiesa e andarono a posarsi sull’olmo. La nonna rifletté un momento e poi disse:
            -Quello che ti ho detto è vangelo!

Mi prese per mano e mi condusse in chiesa per la recita del rosario e la benedizione eucaristica. Salimmo per la scala di granito, quella delle donne, che era più breve della scalinata maggiore, e si levava a lato del campanile dove era murato lo stemma dei principi Ravaschieri Fieschi, feudatari del principato di Satriano che all’epoca includeva Sant’Andrea. Entrammo in chiesa per la porta delle donne che si apriva sotto il campanile attraverso un bell’arco di granito a tutto sesto.

In chiesa ci dirigemmo verso la cappella dedicata alla Madonna Immacolata. A lato dell’altare, su un gran quadro con cornice in oro zecchino, erano scritti in bella grafia i nomi di tutti i confratelli sotto il decreto del Re Ferdinando IV di Borbone che autorizzava la Confraternita. Alla lettera M c’era, identico al mio, il cognome e il nome di nonno Salvatore.
La statua dell’Immacolata in legno dipinto, opera di un sacerdote di Sersale, sfavillava di luci sopra l’altare. Le donne iniziarono la recita del rosario e alla fine cantarono il Salve Regina, adattato in italiano e musicato dal napoletano Sant’Alfonso:

In questa valle orrenda
Di pianto e di dolore
Coi gemiti del cuore
Noi invochiamo pietà.

Ma non ci fu pietà. Pochi anni dopo, una vicenda che ho descritto compiutamente nel Ritorno in Calabria nel capitolo Il precipizio di Fabellino, portò alla demolizione della veneranda Chiesa Matrice. Il popolo non ebbe il coraggio di reagire e non si oppose al saccheggio. Altari in marmi policromi, tabernacoli, dipinti, colonne, volte, cancellate, balaustre, stucchi e ossa di migliaia di morti sepolti nella chiesa nei secoli, furono rovesciati a Fabellino, il precipizio che finisce nella valle di Alaca.
Un angelo di stucco, strappato dalla cupola della Chiesa, mentre veniva buttato nella discarica pensò che quella fosse la valle di Giosafat e guardò per vedere se le ossa riprendessero carne per risorgere. Ma le ossa rimasero secche e l’angelo stesso si sbriciolò rotolando a valle.

1 dicembre 2014

Salvatore Mongiardo