mercoledì 30 ottobre 2019

TEANO: una donna speciale


TEANO: una donna speciale

            Dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna: quest'affermazione è particolarmente vera per Teano (Theanòs) di Crotone, il personaggio femminile forse più importante dell'antichità, anche se poco conosciuto e apprezzato.
Teano era una delle diciassette allieve che frequentavano la Scuola di Pitagora, ed ebbe l'ardire e la determinazione di sposare un uomo più vecchio di lei di circa quaranta anni. Pitagora, straniero, ne aveva circa sessanta, e lei solo venti. Da quell'unione nacquero cinque figli: Damo e Muià, femmine; Arignota, Telauge e Mnemarco, maschi.
            Pitagora favoriva le donne in tutti i modi, facendo leva soprattutto sulla moglie e le due figlie. Erano esse, difatti, a guidare i cori per onorare le divinità, alle quali offrivano focacce impastate con le loro mani. Nasceva così un nuovo culto che contraddiceva i sacrifici di sangue, celebrati da sacerdoti maschi nel Tempio di Hera Lacinia, a poca distanza da casa loro. L'offerta sacra passò così dagli uomini alle donne e dal Tempio dentro le mura di casa.
            Teano fu anche femmina senza ipocrisia, e perciò affermava che la donna deve deporre il pudore assieme alla tunica quando si univa al marito. E doveva riprendere il pudore assieme alla tunica, quando si rivestiva. Il sesso era vissuto appieno da lei e Pitagora come fusione di forze primigenie della natura.
            Teano seguì il marito nella gloria e nelle persecuzioni, peregrinando da polis in polis della Magna Grecia, quando i pitagorici furono cacciati da Crotone.
Per lei non ha contato l'età né la nazionalità e nemmeno la religione del suo tempo. La sua vicenda dimostra che la donna conosce da sé la strada che porta al bello e al buono, cose che tutti costantemente sogniamo. Lei è la creatura che ci conduce alla vera patria: il sogno che diventa realtà.

Salvatore Mongiardo
30 ottobre 2019
           
           
           

sabato 26 ottobre 2019

La comunione all'ammalata


La comunione all'ammalata

            Era il 1954 ed io avevo tredici anni. Una mattina Padre Ruggiero, nel Collegio dei Padri Redentoristi di Sant'Andrea, mi chiese di accompagnarlo a casa di un'ammalata, che abitava nel rione della Fontanella, in pratica dall'altra parte del paese. Padre Ruggero salì i gradini dell'altare maggiore e, prima di aprire la porticina d'argento del tabernacolo, fece una profonda genuflessione al modo che io già conoscevo. Egli picchiava sodo col ginocchio destro sul marmo, tanto che si sentiva il rumore. Gli avevo chiesto una volta perché mai facesse una genuflessione così profonda davanti al tabernacolo, e il buon Padre, guardandomi con benevolenza mi spiegò: Perché lì dentro, per amore nostro, sta chiuso il figlio del capo! Egli voleva dire che sotto la specie delle ostie, Gesù, figlio di Dio, stava chiuso a disposizione dei fedeli. Dio come capo era un'immagine del Napoletano, da dove il Padre e i suoi confratelli provenivano.
            Padre Ruggiero scostò il velo che ricopriva il tabernacolo, infilò la chiavetta e prese dalla pisside un'ostia, che ripose in una piccola teca, legata a un cordoncino che passò attorno al collo, mentre recitava: O sacrum convivium, in quo Christus sumitur…
Andammo poi per le vie del paese e il Padre non rispondeva alle persone che lo salutavano, mantenendo un atteggiamento compunto e serio. Era segno che portava il sacramento dell'eucaristia e tutta l'attenzione doveva essere riservata al figlio del capo. Arrivammo alla casa della donna, che viveva sola, non lontano dalla casa abitata allora dalla famiglia di Enrico Armogida. La stanza era povera, una vicina aveva acceso una candela e l'anziana ammalata era stesa nel letto. Notai con stupore che una corda era appesa al soffitto e arrivava fin sopra il letto per permettere all'ammalata di afferrarsi, girarsi sul letto e anche alzarsi per i bisogni. Il capo della corda, lucida per il molto uso, terminava con una piccola guaina di cuoio che impediva alla corda di sfilacciarsi.
            Padre Ruggero diede l'ostia alla donna che la prese devotamente in bocca e poi la vicina le diede da bere dell'acqua: si usava sciacquare la bocca dopo la comunione in segno di rispetto della sacra specie. Poi il Padre parlò familiarmente all'ammalata e alla fine si congedò: Se non ci vediamo più, ci vediamo in cìelo. Ai napoletani piace vivere a colori e danno un tocco di colore anche al cielo, che diventa cìelo, come il cuore diventa cùore e perfino la preghiera diventa preghìera.
La donna allargò le mani sulla coperta, e borbottò sottovoce parole andreolesi che il Padre non poteva capire: Fussa pe' mia, starìa supa sta terra puru si aiu u m'acchiappu ara corda. La donna preferiva vivere ammalata con l'aiuto della corda piuttosto che andare nel cìelo di Padre Ruggero. Egli me ne chiese la traduzione, ma io ritenni sconveniente l'affermazione della donna e dissi che lei lo ringraziava di tutto cuore.

Salvatore Mongiardo
25 ottobre 2019

sabato 12 ottobre 2019

Pio XII e mio cugino Vincenzo


Pio XII e mio cugino Vincenzo

            Papa Pio XII non ha bisogno di presentazione, mentre mio cugino Vincenzo sì, anche se di lui ho scritto nel mio Ritorno in Calabria un intero capitolo, e poi ancora nel mio Sesso e Paradiso. Vincenzo Codispoti (1916-1996) era la persona più amabile e affettuosa che si possa immaginare, e il più amato da me tra tutti i miei numerosi cugini. Egli era, in realtà, cugino primo di mia madre.
            La vita di Vincenzo fu segnata dalla sventura già in tenera età, quando perse per malattie i genitori e due fratellini. Fu allevato dalla zia paterna Mariantonia, la germanese, così chiamata per la sua alta statura e i capelli biondi. Lei non volle sposarsi per dedicarsi interamente a lui, e a volte commentava che Vincenzino era nato la sera del 29 novembre 1916, quando la luce elettrica arrivò in Sant'Andrea: Ma per lui fu più scuro della mezzanotte!
La zia lo amava più di un figlio, e pensò di mandarlo nella comunità dei Padri Liguorini, quella fondata da Sant'Alfonso dei Liguori, dalla quale fu allontanato alla vigilia dell'ordinazione sacerdotale per disturbi psichici a lui causati dal duro regime quasi carcerario di quella congregazione. Superò poi brillantemente gli esami di maturità classica a Roma, dove fece scalpore perché si presentò alle prove scritte di latino e greco senza vocabolari, dei quali non aveva bisogno. Si iscrisse alla facoltà di lettere e superò tutti gli esami, ma non si poté laureare, perché chiamato alle armi allo scoppio della seconda guerra mondiale. Fatto ufficiale, fu inviato in Albania, dove non poteva combattere perché l'unica mitragliatrice era inceppata, e lui cercava di ripararla di notte al lume di una candela, mentre rifletteva: Potrei morire in questa trincea da un momento all'altro e in paese, a Sant'Andrea, nessuno saprebbe nulla!
            Dopo l'armistizio del 1943, fu catturato dai tedeschi con tutto il contingente italiano e spedito in Germania in un campo di prigionia - non un lager - dove i soldati italiani facevano lavori forzati in una miniera di rame.      
Il comando tedesco offrì la possibilità di insegnare la lingua tedesca agli italiani, che si rifiutarono in blocco per un comprensibile sentimento di nazionalismo. Vincenzo fu l'unico che accettò, e arrivò a padroneggiare così bene quella lingua che i tedeschi ne erano meravigliati. All'arrivo degli americani, il campo si svuotò di prigionieri, ma Vincenzo fu lasciato solo, perché si era infortunato un piede. Allora, zoppicando, si avviò sopra un ponte di ferro, pieno di soldati tedeschi in ritirata su camion e panzer, mentre lui, da solo, percorreva il ponte in direzione opposta. Nessuno dei soldati tedeschi gli fece alcun male, cosa che lui raccontava con ammirazione.
            Rientrato a Roma, si presentò per avere l'assegnazione della tesi di laurea, ma i regolamenti prevedevano allora che ai reduci fosse data la laurea a vista col punteggio minimo, cosa che egli rifiutò con sdegno, né mai più volle dare l'esame di laurea. Fu poi assunto nel servizio consolare e mandato a Tirana, in Albania, dove nessuno voleva andare a causa del regime comunista di allora, ma dove Vincenzo conobbe Angelica, cittadina greca, che svolgeva funzioni consolari per la Grecia.
I due s'innamorarono e da allora vissero sempre assieme appassionatamente, anche se con mille precauzioni, perché il governo greco proibiva ai suoi dipendenti di frequentare membri del servizio consolare italiano, dopo la vile aggressione fascista alla Grecia.
            In seguito furono entrambi trasferiti a Londra, dove Vincenzo finalmente poté sposare Angelica col rito civile. La cosa scontentò la zia Mariantonia, super cattolica, e allora i due la accontentarono con regolari nozze cattoliche. In pratica quel matrimonio sanava, almeno per loro, lo scisma anglicano, avvenuto ai tempi di Enrico VIII, che di mogli diverse ne aveva sposato ben sei. La Grecia, però, allora non riconosceva il matrimonio contratto fuori dal rito ortodosso. E i due, non più giovani, si sposarono per la terza volta ad Atene con quel rito. Quella volta sanarono lo scisma tra cattolici e ortodossi, avvenuto nel 1054, con la bolla papale di scomunica, deposta sull'altare di Santa Sofia a Costantinopoli dal cardinale Umberto da Silva Candida.
Angelica vive ad Atene, ci sentiamo di tanto in tanto e afferma sempre convinta di avere sposato il migliore italiano.
            C'eravamo, però, dimenticati di Pio XII e di come abbia avuto a che fare con Vincenzo. In realtà il papa di Vincenzo non seppe mai nulla, ma successe che un giorno egli ricevesse in San Pietro una delegazione di cattolici tedeschi. Vincenzo, che abitava a Porta Cavalleggeri, vicino alla Basilica Vaticana, si trovò a passare dalla Piazza ed entrò nella Basilica, attirato dai cartelli scritti in tedesco. Il papa arrivò portato sulla sedia gestatoria, e poi si mise a parlare ai presenti. Quando arrivò ai fedeli tedeschi, l'occasione - e forse la vanità - lo portarono a usare la sua conoscenza del tedesco, lui che aveva firmato complicati testi in tedesco per il concordato con Hitler nel 1933, e vissuto per anni in Germania come nunzio apostolico, cioè ambasciatore del Vaticano.
            Si rivolse dunque ai tedeschi dicendo che avrebbe usato la loro lingua. Ma, vuoi per l'emozione, o per l'età, o per un lapsus, o vuoi anche per l'identità della parola lingua, che, in italiano e in latino indica sia il parlato che la lingua come organo, se ne uscì con lo strafalcione: die deutsche Zunge… In tedesco Zunge significa lingua in senso anatomico. Per dire in tedesco: Mi mordo la lingua, si usa Zunge, la lingua organo, non Sprache, la lingua parlata.
            La cosa non sfuggì a Vincenzo, che si sentì ribollire il sangue al pensiero di come e dove aveva imparato il tedesco. E mentre Guardie Svizzere, Guardie Nobili e Palatine, cardinali e gestatori beatamente sorridevano all'erudizione del pontefice, si allontanò dalla Basilica bollando il papa con la sua voce cavernosa: Ignorante, imbroglione…

Salvatore Mongiardo
12 ottobre 2019
             

venerdì 11 ottobre 2019

Francesco Lopez - Pitagora e l'Egitto


Francesco Lopez

Pitagora e l'Egitto

Le arti sapienti per la tutela della Vita
Pisa University Press 2019

            Ho appena terminato di leggere con la massima attenzione questo prezioso libro del professor Francesco, che continua a stupirmi per la profondità della sua analisi e l'abilità nel risolvere situazioni complesse del mondo antico. A queste si aggiungono la sua capacità di sintesi e l'audacia nel ripresentare valori che sembrano del passato, che invece sono e rimangono universali.
            Il libro non è di facile lettura per chi non ha dimestichezza con le dottrine filosofiche antiche. Per chi invece possiede questa qualità, il libro è una guida magistrale che conduce nel mondo della cultura, delle idee, della medicina, cosmologia e destino dell'uomo dopo la morte. Esso è come un museo del mondo antico che espone i collegamenti del pensiero e delle aspirazioni, finora non emersi, tra Grecia, Egitto, Samo, Mesopotamia e Magna Grecia.
            Dal libro appare sempre più chiara l'importanza della polis di Crotone, non solo come capitale della Magna Grecia con Pitagora, ma anche come crocevia di incontri culturali che arricchirono razionalità, medicina, etica ed escatologia del mondo occidentale. Quella ricchezza fu ben valutata dal più fine dei politici di Atene, Pericle, che volle la riapertura della Scuola Pitagorica di Crotone, chiusa per circa cinquanta anni, dopo la rivolta di Cilone contro Pitagora e i pitagorici. E fu sempre quella ricchezza di contenuti che attirò i grandi del passato, primo fra tutti Platone, che alla riaperta Scuola di Crotone rimase sette anni, per suggerimento di sua madre Perictione, filosofa pitagorica e amica di Socrate.
            Francesco non ha bisogno delle mie lodi, che comunque gli faccio sincere, e spero che gli amici più preparati si procurino il libro, disponibile su Amazon, e lo leggano.
            Mi sembra comunque doveroso fare una presentazione del libro a Crotone a cura della nostra Nuova Scuola Pitagorica, della quale Francesco è uno dei cinque fondatori e membro del direttivo. Il suo libro termina così:

Pitagora… modello di sapiente a 'tutto tondo' rivolto alla conoscenza e alla tutela delle energie vitali degli uomini e del cosmo, in senso sia terreno che soprattutto escatologico.

Salvatore Mongiardo
10 ottobre 2019

             
             

venerdì 4 ottobre 2019

Magna Grecia alla ribalta



            A metà settembre 2019 in compagnia di Rosario Amelio ho partecipato all'incontro organizzato da Giovanni Canora: Terra e salute in Basilicata, a Castelluccio Inferiore e Superiore. Eravamo immersi in una vallata verdissima, chiusa da montagne di tale bellezza che incutevano timore. Incredibile era la predominanza di occhi verdi nelle persone, uomini e donne, tutti così amabili e cortesi che sembravano provenire da un mondo incantato.
            Teana, un piccolo comune vicino, prese il nome da Teano, la giovane moglie di Pitagora, la quale, secondo una tradizione orale consolidata, andava lì a passare l'estate con la famiglia per sfuggire al caldo di Crotone. Del resto sappiamo da Giamblico che dalla Lucania venivano a Crotone giovani allievi e allieve per frequentare la Scuola Pitagorica, e di essi conosciamo anche i nomi.
            Rimasi letteralmente allibito quando seppi che una piccola frazione di Teana si chiama… Locri, proprio come Locri di Calabria. E un'altra piccola frazione del vicino comune di San Severino Lucano si chiama Cròpani, esattamente come il comune che sorge tra Catanzaro Lido e Botricello in Calabria. 
            A proposito di Cropani, poi, faccio notare che il nome non viene dal greco kopros, sterco, etimologia accettata da tutti, ma sbagliata. La parola greca da cui prende il nome era àcropa, termine dorico che indica un pane a punta: akron+pa, come acutamente mi ha spiegato l'amico prof. Enrico Armogida.
            Zia Concetta, una sorella di mio padre sposata a Isola Capo Rizzuto, quando veniva in visita a Sant'Andrea mi portava la cropa, una ciambelletta con forma particolare, se ben ricordo a panierino. Erano gli anni 1948-50. Certamente nel Crotonese ci sono ancora delle persone che ricordano la cropa, e saperne di più sul suo uso, o farla addirittura infornare, costituirebbe un tassello utile per la riscoperta delle nostre complesse origini. Invito pertanto chi può a fare un'indagine in merito.
            Le due frazioni di Cropani e Locri di Basilicata sono abitate e non hanno resti archeologici noti. La loro denominazione potrebbe derivare da pitagorici originari dei due centri di Calabria, sfuggiti alla rivolta antipitagorica di Cilone dell'anno 510 a. C. circa, quando molti pitagorici di Crotone e delle altre polis furono uccisi o scacciati. Si può ipotizzare - con cautela - che alcuni pitagorici di Locri e Cropani di Calabria si siano rifugiati e insediati in Lucania, dove avevano amici.
            Per chiarezza faccio notare che il comune di Teano, antica Teanum, quello dello storico incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, deriva non da Teano di Pitagora, Theanòs, ma dal termine osco che significa atro, nero, come Rio Negro o Lago Negro. Quella denominazione è dovuta al colore nereggiante delle acque per la presenza di materiale ferroso.  

Salvatore Mongiardo
4 ottobre 2019           

CALABRIA A RAVENNA