S. Mongiardo-Lettera ai Calabresi per la pace nel mondo
Care Amiche e cari Amici,
io sono nato nel
1941 in Calabria da genitori e progenitori calabresi. Ho passato l’infanzia e
la gioventù sulla costa jonica catanzarese; poi cinquanta anni tra studi e
incarichi manageriali in Sicilia, Roma, Germania, Francia, Sardegna e un
periodo di trenta anni a Milano. Nel 2013 ho lasciato per mia libera scelta Milano
per tornare in Calabria, a Soverato, città vicina al mio paese natale,
Sant’Andrea Jonio. Quel ritorno era preannunciato nel mio primo libro Ritorno
in Calabria (1994), del quale il Prof. Antonio Piromalli ha
scritto ne La Letteratura Calabrese (L. Pellegrini Editore) alle pagine
341 e 342:
La natura di Mongiardo è seriamente utopistica (ripresa della grande tradizione culturale naturalistica della Calabria e religiosità umana e universale) …
Il romanzo di Mongiardo è molto importante anche perché assegna
alla Calabria una funzione storica nel futuro… L’opera di Mongiardo è
ideologicamente geniale. L’autore, dopo un viaggio in America per ritrovare
parenti emigrati da molto tempo e custodi dell’immagine di una Calabria aspra e
difficile, comprende lo sforzo da lui fatto per sfuggire la Calabria, quella
del ‘’buco nero che aveva spento’’ il lui la gioia di vivere e decide di
scrivere.
Riporto lo scritto del Prof. Piromalli non per orgoglio o vanagloria, che non fanno parte del mio carattere, ma perché quel giudizio mi ha aiutato a capire me stesso e a farmi ritornare in Calabria, una decisione che lasciò sgomenti i miei amici, i quali mi vedevano come uno sconsiderato che ritorna in un posto carico di problemi. In effetti, gli ultimi dieci anni passati in Calabria sono stati faticosi per lo studio, la ricerca e la scrittura di quella storia della Calabria sconosciuta a tutti, anche agli stessi Calabresi, ignorata dalla storiografia tradizionale. Le mie ricerche hanno portato alla luce una visione completamente nuova della Calabria, che vi voglio brevemente raccontare.
La storia sconosciuta della Calabria
Normalmente si
ritiene che la storia della Calabria sia cominciata con la colonizzazione
greca, ma non è così, perché l’Homo Sapiens abitava in Calabria da diecine di
migliaia di anni prima dell’arrivo dei Greci. Per fare un esempio, l’Università
di Firenze ha rinvenuto sepolture risalenti al 22.500 a.C. dentro la Grotta
del Romito a Papasidero (CS).
Intorno al 10.000
a. C., quando si sviluppò l’agricoltura, la Calabria era abitata da popolazioni
che non avevano armi e vivevano in pace in vari villaggi. Facevano parte di
quell’Antica Europa, come l’ha chiamata la famosa antropologa
lituana-americana Marija Gimbutas, i cui abitanti furono
chiamati gilanici dall’altra grande antropologa austriaca-americana, Riane
Eisler. Col termine gilanico lei intendeva un popolo libero e pacifico, guidato dalle donne e
dedito all’agricoltura. Quel periodo fu cantato dai poeti come Età
dell’Oro, quando i popoli vivevano felici, non c’era bisogno di leggi e
la comunità provvedeva a tutti i bisogni.
Oggi possiamo affermare che quella non fu un’epoca mitica immaginata
dai poeti, ma era semplicemente il ricordo di un lontano tempo felice. Gli
archeologi hanno stabilito che le popolazioni gilaniche vivevano in pace, analizzando i
resti dei villaggi, dove non c’erano fortificazioni né sono state trovate armi
nelle tombe o scheletri con ferite riconducibili a battaglie. Non vi erano nemmeno
grandi differenze tra le classi sociali e le sepolture a inumazione erano molto
simili, come se non ci fossero ricchi e poveri.
L’invasione indoeuropea
Intorno al 4.000
a. C., dalle steppe dell’attuale Russia meridionale mossero alla conquista
dell’Europa e dell’India - motivo per cui sono chiamati Indeuropei - popoli delle
steppe che avevano addomesticato i cavalli selvaggi che cavalcavano, e avevano fatto
armi col rame che affiorava in pepite lungo i fiumi. Quegli Indoeuropei
sottomisero l’Antica Europa, l’India e una vasta area intorno al Medio Oriente,
con invasioni a varie ondate cui nessuno poteva resistere. Il loro dilagare è
ricordato dal mito greco dei centauri, esseri violenti per metà guerrieri e per
metà cavalli. Anche dal cavallo di Troia in fondo afferma che senza cavallo non
si può vincere una guerra. Quelle invasioni durarono un paio di millenni e
sottomisero tutto il Nord Europa, salvo una parte dell’Italia Meridionale, tra
cui la Calabria. La Gimbutas chiamò quegli invasori Kurgan, dal nome della città russa della Siberia sudoccidentale,
a circa duemila km a est di
Mosca. Attorno a quella città lei
trovò molte tombe a cumulo, nelle quali venivano sotterrati i capi morti
assieme ad alcuni giovani scelti e servi che dovevano accompagnarlo
nell’aldilà. Le torture, i sacrifici umani, la schiavitù delle donne praticati
dai popoli Kurgan raggiunsero livelli di ferocia e crudeltà inaudite.
L’etica gilanica sopravvisse in Calabria, mentre tutta
l’Europa incluso Centro e Nord Italia furono sottomesse dagli Indoeuropei. Le differenze
tra Nord e Sud Italia si fanno risalire all’annessione del Sud al Piemonte, ma
in realtà esse sono vecchie di migliaia di anni e sono profonde perché derivano
da etiche diverse. La Calabria resistette più a lungo all’espansione
indoeuropea perché difficile da raggiungere via terra a causa delle foreste
della Sila, popolate da orsi e lupi. Poi, intorno al 1700 a. C., la Calabria fu
colonizzata da greci venuti dal mare, tra cui gli Enotri, dalla cui stirpe nacque
Italo, il fondatore dell’Italia, come vedremo più avanti. Tanto afferma lo
storico greco Dionigi di Alicarnasso (60-7 a. C.), che scrisse di una
colonizzazione arcaica, avvenuta diciassette generazioni (circa 500 anni)
prima della guerra di Troia (1200 a. C.).
I Greci della colonizzazione classica, invece, quella da
tutti conosciuta, arrivarono circa mille anni dopo, intorno al 700 a. C., e fondarono
varie poleis tra cui Taranto, Sibari, Kroton, Locri e Reggio. I fondatori greci
delle varie colonie sparse nel Mediterraneo discendevano da quegli Indoeuropei
che avevano conquistato la Grecia con armi e cavalli: ciò e confermato dal
fatto che alcuni Greci del ceto dominante come Achille, Menelao ed Elena era
biondi, come riporta Omero.
Si direbbe di sì, ma, se guardiamo a
quanto emerge dalle mie ricerche, la risposta cambia a seconda di cosa
intendiamo per civiltà. Se la intendiamo come arte, templi, colonne,
navigazione, commercio e lingua, la risposta è sì, anche perché la stessa lingua
italiana proviene dal latino, il quale è di origine indoeuropea come il greco,
il tedesco, l’inglese e altre lingue ora in uso.
Se invece definiamo la civiltà come benessere sociale e gioia
di vivere derivanti dall’assenza di competizione, guerre, schiavitù e violenze,
la risposta è che la colonizzazione greca segnò l’inizio di una decadenza
inarrestabile per la Calabria.
I coloni non
portavano con sé le donne, che non potevano remare, e sposarono donne del
posto, che da sempre erano libere e continuarono a vivere libere anche da sposate
con i coloni. Nello stesso periodo, le donne in Grecia vivevano chiuse nel
gineceo, che non era un lussuoso quartiere loro riservato, ma il sottotetto
della casa, nel quale esse partorivano, tessevano, cucinavano, conducendo una
vita così misera che spesso per disperazione si impiccavano a una trave del
tetto. A Crotone non c’erano schiavi e a Locri, nelle Tavole di Zaleuco del VI secolo
a. C., la prima legge scritta in greco di tutto l’Occidente, Grecia inclusa,
diceva:
Ai Locresi non è consentito
possedere né schiavi né schiave.
Le Tavole di Zaleuco sono di fondamentale importanza perché
testimoniano che la libertà italica fu riconosciuta come norma da una polis
greca. Si può dire allora che la libertà delle persone e dei popoli è arrivata dalla
Calabria ai confini della Terra dopo un lungo travaglio di venticinque secoli.
I Greci si riempivano la bocca e morivano anche per la libertà, ma lo facevano
per la libertà loro e delle loro famiglie, non certo per gli schiavi e le
schiave che c’erano in Grecia. Questa ambiguità dell’etica greca è testimoniata
da due filosofi ritenuti i più grandi dell’umanità: Platone e Aristotele. Platone conosceva benissimo la Magna Grecia,
dove vigeva la libertà di tutti, perché egli aveva frequentato per sette anni
la Scuola Pitagorica di Crotone, riaperta nel 444 a. C. per volere di Pericle:
in quella Scuola la libertà era il fondamento dell’etica. Platone tuttavia
affermò che… gli schiavi erano necessari,
altrimenti chi avrebbe fatto i lavori? Aristotele andò oltre, sostenendo
che l’etica doveva essere stabilita dai politici!
L’etica di quei due cattivi maestri, ricchi e di buona famiglia, era
esattamente contraria a quella praticata dai pitagorici.
Nelle opere degli antichi autori greci e romani, come anche
negli usi e nei costumi dei popoli preitalici e italici, ci sono riferimenti
chiari a questo popolo. In sintesi possiamo dire che i Lacini abitavano tutto
il Golfo di Squillace e l’entroterra, da Locri a Capo Lacinio vicino a Crotone,
e soprattutto l’altipiano fertile della Lacina, così chiamata ancora oggi, sito
tra Serra San Bruno e la costa jonica. Per maggiori dettagli di questa mia
ricerca, guardate il documento allegato:
https://drive.google.com/file/d/16pkubx65S0eP0FHP1vAG4eWevBaL7Laa/view?usp=sharing
I Lacini erano un popolo gilanico che da millenni abitava la Calabria, la quale, a partire dai Greci, ha subito venti occupazioni e dominazioni straniere: 1 - i Greci; 2 - Alessandro il Molosso, re dell'Epiro; 3 - suo nipote Pirro con gli elefanti; 4 - i Bruzi; 5 - i Siracusani con Dionisio; 6 - i Cartaginesi con Annibale, acquartierato a Capo Lacinio per otto anni; 7 - Spartaco con gli schiavi; 8 - i Romani; 9 - Alarico con i Goti; 10 - i Longobardi; 11 - gli Arabi; 12 - i Bizantini; 13 - i Normanni; 14 - gli Svevi; 15 - gli Angioini; 16 - gli Aragonesi; 17 - gli Spagnoli; 18 - i Borboni; 19 - i Francesi; 20 - i Piemontesi.
La Calabria,
però, non ha mai fatto guerra a nessuno, una particolarità che Fra
Salimbene da Parma (1221-1288), seguace di San Francesco d’Assisi
nell’abito ma non nel cuore, attribuì a viltà, perché non erano insorti in armi
contro i Normanni. In realtà i Calabresi non avevano e non hanno la guerra
nell’anima, a differenza degli altri abitanti dell’Italia di origine indoeuropea,
come i Latini, gli Etruschi e i Galli.
La nascita dell’Italia
Lo storico
Antioco di Siracusa nel V sec. a. C. scrisse della Prima Italia (Prote Italìa),
nata nell’istmo Squillace-Lamezia intorno al 1500 a. C. Non dobbiamo pensare
che l’Italia sia nata confinata dentro l’Istmo, ma in un territorio più ampio
di cui l’Istmo costituiva l’asse mediano. Ciò è avvenuto a causa del clima più
piovoso per lo scambio termico dei venti che attraversano e temperano l’Istmo
attraverso la Gola di Marcellinara: il ponente da ovest e lo scirocco da sud,
per cui si potrebbe dire che l’Italia è
figlia del buon vento. Ciò ha generato il fenomeno raro della
fruttificazione perenne: ancora oggi non c’è in quella zona un solo mese senza
frutti.
D’altra parte, le
minuziose ricerche condotte dal tedesco Prof. Armin Wolf nel suo
importante libro Ulisse in Italia (2021),
dimostrano che la Terra dei Feaci, narrata da Omero nell’Odissea, è quella vicino
al fiume Làmetos, che sbocca nel Tirreno all’altezza dell’odierna Lamezia. Lì
vicino viveva un popolo di Enotri, arroccati nell’odierna cittadina di Tiriolo
(CZ), da dove si vedono i due Mari Jonio e Tirreno, come espressamente riporta
lo stesso Omero.
Chi era Italo
Tutti gli storici
antichi concordano che Italo era uno degli Enotri della
colonizzazione arcaica, il quale doveva essere figlio di un greco enotrio e di
una donna del posto. Italo apparteneva dunque a due parentele e a due culture,
la greca e la locale, e non gli fu difficile capire che le armi non creavano
benessere, mentre i locali vivevano nell’abbondanza con i raccolti
dell’agricoltura. Perciò egli decise di unire i suoi Enotri ai preitalici, che
io ritengo soprattutto Lacini, creando i sissizi (da syn-sitein, mangiare insieme), banchetti comunitari ai quali gli
Enotri portavano il vino e i Lacini il pane. I sissizi erano dunque banchetti
per unire due popoli, sissizi che poi Italo allargò, unendo con la persuasione,
e a volte con la forza, i popoli circonvicini, ai quali diede il suo nome: Italìa, Italia.
Il termine italo
si trova sia in latino: vitulus, che in greco: ìtalos.
In ambedue le lingue, il termine significa giovane toro, torello, animale totemico
dei Lacini. Quel nome era anche dato a maschi greci e a maschi romani come
Vitellio, nome che fu anche di un imperatore. Ai tempi della colonizzazione classica
poi, furono chiamati Italioti i nati da coloni greci e da
donne italiche, che a loro volta erano nate dall’unione degli Enotri e altri
coloni con i Lacini e altri popoli autoctoni.
Ovviamente la
grande maggioranza della popolazione attorno all’Istmo era di origine lacina o
comunque locale, per cui il modo di vivere, l’etica, rimase sostanzialmente
quella neolitica. I coloni greci dovettero adattarsi a quell’etica, ma non
rinunciarono alle loro armi e alle guerre che tanto amavano, e combatterono
molte guerre tra le poleis, come fece Crotone contro Locri e Sibari, che
distrusse nel 510 a. C.
In quello
scenario complicato sbarcò a Crotone un ragazzino di forse dodici anni di nome
Pitagora, venuto dall’isola greca di Samo con suo padre Mnesarco, che produceva
e vendeva sigilli per anelli incisi su pietre dure o preziose, molto richiesti
dai ricchi coloni. Pitagora rimase colpito dal clima di libertà di Crotone e,
tornato in patria, si dedicò per cinquanta anni allo studio e ai viaggi in
Grecia, Siria, Libano, Israele, Egitto e Mesopotamia. Alla fine, però, decise
di voler vivere in un posto dove la dottrina da lui elaborata fosse ben
accolta, e nel 530 a. C., all’età di circa sessanta anni, ritornò a
Crotone.
Nascita della Magna Grecia
La mente di
Pitagora aveva grande capacità di analisi e sintesi e nei suoi lunghi soggiorni
tra i popoli stranieri egli cercò di capire quale fosse il miglior modo di
vivere. Era così arrivato a delle conclusioni originali e coniò il termine di filosofia,
amore per la sapienza, che per lui non era un insieme di nozioni astratte, ma qualcosa
che dava
sapore alla vita, aiutava a vivere bene. Perciò diceva: L’uomo
è a sé stesso causa del proprio bene e del proprio male: tutto
dipendeva dall’agire umano.
Io ho chiamato la sintesi della sua dottrina Il Pentalogo di Pitagora, costituito da cinque principi, immutabili come le regole della matematica e della geometria, che ho sintetizzato così:
Felicità + Pace =
Libertà + Amicizia + Comunità di vita e di beni + Dignità della
donna + Vegetarismo.
Al suo arrivo a Crotone, Pitagora fu accolto con grandi onori ed ebbe molti seguaci, ma la comunità di vita e di beni che egli voleva attuare, esigeva che i ricchi si spogliassero delle loro ricchezze, cosa che non piaceva affatto alla classe abbiente di Crotone. Porfirio, il filosofo molto apprezzato del III sec. d. C., lo stesso che scrisse le Enneadi del suo maestro Plotino, scrisse una Vita di Pitagora fortunatamente giunta fino a noi, nella quale egli scrisse di duemila barbari che con i loro capi, donne e bambini vennero dai villaggi circonvicini per ascoltare Pitagora a Crotone. La parola barbaro indicava uno che parlava una lingua sconosciuta, balbetta.
Con loro meraviglia, quei barbari Lacini, forse aiutati da nipoti o parenti italioti che facevano da traduttori, si sentirono dire dal più famoso sapiente dei Greci che il modo di vivere giusto era quello che loro stessi praticavano. Elessero allora Pitagora loro legislatore e decisero di non fare nulla al di fuori di quanto egli comandava. Costruirono un nuovo villaggio sulla collinetta di Laureta che arriva al mare, sita tra Crotone e Capo Lacinio, dove ebbe sede la sua Scuola e dove Pitagora visse tra i Lacini assieme ai suoi allievi, giovani uomini e donne, venuti da Crotone e anche da lontano. Scrisse Porfirio che il nome di Magna Grecia dato a quell’Italia non derivava dallo splendore delle poleis né dall’abbondanza dei raccolti, ma era dato unicamente per due motivi: l’ammirazione della vita irreprensibile dei pitagorici e l’altezza della loro speculazione filosofica. Il prestigio dell’Italia diventò così alto che tutti volevano farne parte, e così il nome di Italia si espanse dalla Calabria a tutta la penisola.
Ricapitolando: il
popolo autoctono dei Lacini, unendosi ai Greci, generò la Prima Italia, la
quale per opera dell’etica predicata e praticata dai pitagorici, fu chiamata
Magna Grecia, che diffuse nel mondo l’etica universale di rigore matematico,
sempre valida per le persone, la società, le religioni, la politica e la
finanza. È la stessa etica che abbiamo ripreso con la fondazione nel 2015a
Crotone della Nuova Scuola Pitagorica, etica che cerchiamo di diffondere per il
bene dell’umanità.
I sommovimenti antipitagorici
I giovani
pitagorici di Crotone cercarono di influenzare le scelte politiche della loro
polis, ma ciò portò a una insurrezione capeggiata da Cilone, un ricco avversario
dei pitagorici. Molti di essi furono uccisi e la loro sede fu data alle fiamme,
Pitagora si salvò a stento con la sua famiglia, cercando asilo a Caulonia e
Locri, che glielo negarono per paura di Crotone. Riparò a Taranto, ma anche lì
ci furono sommovimenti contro i pitagorici ed egli se ne andò a Metaponto, dove
tenne scuola per alcuni anni. Anche lì ci fu un sollevamento contro di lui che si
rifugiò nel Tempio delle Muse, dove come supplice non poteva essere catturato.
Pose allora fine alla sua vita nel 500 a. C. all’età di novanta anni, perfettamente
lucido dopo quaranta giorni di volontario digiuno.
Sembrava la fine,
ed era invece l’inizio di un ciclo che diffuse la dottrina pitagorica nel mondo
antico, arrivando fino a noi. Questa mia lettera si è forse allargata troppo,
ma per capire la Calabria di oggi è indispensabile conoscere la sua storia
passata, almeno per sommi capi. Per i dettagli sul pitagorismo e sui legami tra
mondo ebraico e Gesù, la cui etica è identica a quella di Pitagora, guardate il
mio libro Il Pentalogo di Pitagora,
disponibile in rete:
https://drive.google.com/file/d/1C1Yaeh7y233RenHQJDKhvM4xfIwSh7-B/view?usp=sharing
Queste notizie servono a darvi un’idea di quante vicende fondamentali dell’evoluzione umana si siano svolte in Calabria, la terra che oggi tutte le statistiche classificano come l’ultima d’Europa per la qualità di vita.
Il fatale arrivo dei Normanni
L’arrivo del
cristianesimo in Calabria migliorò le attese degli abitanti, perché aggiunse la
prospettiva della vita eterna al pitagorismo, che insegnava invece il ciclo
incessante delle reincarnazioni, la metempsicosi. Poi, intorno all’anno
Mille i Normanni, originari della
Scandinavia ma da secoli stanziati in Normandia, conquistarono facilmente il
Sud e la Calabria, dove stabilirono la loro capitale a Mileto (RC), che poi trasferirono
a Palermo nel 1101 alla morte del Granduca Ruggero d’Altavilla.
I Normanni erano
cristiani discendenti da popoli nordici feroci come i Goti, gli Ostrogoti e i Longobardi.
Invece i Calabresi erano cristiani di origine magnogreca, cioè pitagorica, la
cui etica vietava perfino la detenzione e l’uso delle armi e vietava l’uccisione
degli animali. Pitagora, difatti, stava lontano da macellai e cacciatori e
ammoniva:
La pace nasce dal rispetto della vita degli animali. Se non osi
uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo.
I Normanni instaurarono nel Sud Italia il regime feudale con la servitù della gleba, l’esser legati come schiavi alla zolla di terra: in Calabria fu ridotto in schiavitù il popolo che aveva creato e diffusa la libertà di tutti.
I Calabresi e tutto il Sud furono gravemente tassati
dai Normanni per edificare fastose cattedrali e per preparare armi e flotte per
la Prima Crociata, per la quale il papa francese Urbano II nel 1192 venne a
Mileto per concordare i termini della spedizione col Gran Conte Ruggero. Questi
prese parte alla conquista di Gerusalemme nel 1099, e tornò con una reliquia
preziosa: un dito del Protomartire Santo Stefano.
Questi intrecci complicati
mettono in luce un dissidio tuttora irrisolto tra etica e legalità. Dal punto
di vista pitagorico, una legge è legale solo se non contraddice i
cinque principi del Pentalogo.
Le Costituzioni di Melfi, promulgate
nel 1231 dall’imperatore Federico II, nipote del Barbarossa e
figlio della normanna Costanza d’Altavilla, erano pitagoricamente
illegali, perché affermavano il regime feudale, secondo il quale l’imperatore
era padrone assoluto di tutto, mentre duchi, principi, conti e visconti di sua
nomina erano signori dei territori loro assegnati e dei popoli che li abitavano.
Federico II fu chiamato stupor mundi per la sua vasta
cultura, ma andrebbe considerato nella sua duplice formazione: quella pitagorica
della matematica, nella quale eccelleva, e quella barbarico-feudale, ereditata
dal nonno Barbarossa.
Le invasioni
barbariche che disintegrarono l’impero romano non furono solo un fatto del
passato: la barbarie da allora è avanzata a dismisura sul principio che uno domina
sugli altri, principio da cui derivano tutte le forme di competizione, finanza e
le stesse guerre, che esigono sempre vincitori e vinti.
Nella battaglia
di Legnano del 1176, la Lega Lombarda vinse contro Federico Barbarossa che
voleva imporre il suo dominio sui comuni dell’Italia settentrionale. Quella
vittoria fu possibile perché i Lombardi, discendenti dai Longobardi, erano
gente d’armi e facevano continue guerre tra di loro: Milano contro Como, Lodi,
Pavia, Cremona e altri comuni. Lo stesso vale per le guerre del centro Italia,
durate fino a tutto il Rinascimento, che videro infinite lotte tra Perugia e
Assisi, Firenze e Arezzo, Lucca, Pisa e Siena.
Al Sud il regime
feudale sarebbe durato fino all’annessione al Regno d’Italia nel 1861, quando fu
abolito il regime borbonico che lo sosteneva, ma nei fatti esso sopravvisse in
parte fino a circa il 1950. Per otto secoli le popolazioni meridionali furono servi
della gleba, legati alla
terra dei signori che dovevano coltivare senza poterla abbandonare. Dovettero
allora scendere a sotterfugi, furbizie, inganni e menzogne per non morir di
fame. Era una vita da schiavi, l’unica possibile, che avrebbe spinto il Sud a
una grave decadenza e alle varie forme di criminalità che l’affliggono.
Cos’è la calabritudine?
Si dice che è
possibile togliere un Calabrese dalla Calabria, ma è impossibile togliere la Calabria
dal cuore di un Calabrese. Sembra solo una bella frase, ed invece tutti i
Calabresi, me incluso, sentiamo un legame profondo e indistruttibile con la
nostra terra: è la calabritudine. Ho conosciuto diversi emigrati meridionali che
rimpiangevano la loro terra, ma non in maniera così forte e con nostalgia così
pungente come i Calabresi, anche quelli che hanno messo su famiglia e vivono
economicamente bene. Perché, mi chiedevo, rimpiangere una terra che hanno
dovuto lasciare, piena di problemi ancora oggi, dove la vita quotidiana è
faticosa e problematica e non offre prospettive valide ai giovani che devono
emigrare a migliaia?
Questa domanda
merita una risposta alla quale ho lungamente riflettuto e che ora espongo. La
Calabria ha subito una decadenza inarrestabile che dallo splendore della Magna
Grecia l’ha portata alla miseria del presente. Io penso che il principale dovere di ogni persona sia
quello di vivere bene e, se ciò non è possibile, bisogna allora cercare di capire
e superare le cause del viver male.
La Calabria mi sembra
un secchio, dentro cui i passanti buttano rifiuti, e poi tutti si sdegnano che
quel secchio è pieno di immondizie. Venti invasioni straniere possono essere
considerate un accanimento del destino, ma possono anche essere viste come un
fenomeno necessario per aprirci gli occhi e farci capire i meccanismi
dell’evoluzione umana. Sembra un’ipotesi bizzarra, ma i fatti confermano come
la decadenza possa essere un fatto provvidenziale. Goti e Visigoti, qui
arrivati dai paesi scandinavi, erano barbari tra i più feroci e violenti: come
mai ora la Scandinavia è abitata da popoli tra i più civili al mondo? Questo è
successo perché alla fine essi hanno adottato un modello di vita comunitario
che aiuta tutti e non esclude nessuno, il modello etico che qui era praticato.
La calabritudine è
il richiamo di un lontano passato, esistito ma dimenticato,
che ci mette in comunicazione con lo
spirito dei nostri antenati, il loro modo di pensare, di sentire e sperimentare
la vita e il mondo, gli uomini e gli dei: quello che Jung chiamò inconscio collettivo.
I Calabresi
Custodi del Sogno
Per sogno intendo il bel sogno di un mondo felice, come fu la
Calabria prima dell’arrivo dei Greci. Un mondo ben diverso da quello di oggi,
nel quale viviamo sotto l’incubo che tutto possa finire con una guerra
nucleare. Religioni e politica non sono riuscite a pacificare il mondo, anzi lo
hanno spinto verso la violenza: negli ultimi sei mila anni i maschi di stampo
indoeuropeo hanno sempre comandato, facendo proliferare la violenza con guerre,
uccisioni, genocidi e distruzioni. Ma hanno fatto di più, hanno ucciso la
speranza di un mondo pacificato e, senza speranza, si vive e si muore
disperati.
Cambiare questa realtà sembra impossibile, ma è proprio qui che
la Calabria appare come àncora di salvezza per l’umanità. Quest’affermazione audace
è supportata dalla cultura calabrese, che nei millenni è stata sempre utopica,
cioè ha immaginato e prospettato un mondo migliore: Cassiodoro, Gioacchino da
Fiore, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio, sono grandi autori calabresi che
scrissero di un mondo migliore che doveva realizzarsi. Questa cultura sistematicamente
ottimista emerge più chiara se la paragoniamo a quella della vicinissima
Sicilia, dove i grandi autori come Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello e
Tomasi di Lampedusa sono irrimediabilmente pessimisti.
Di conseguenza, il problema non è di adeguare la Calabria al
mondo moderno, ma, al contrario, adeguare la Calabria e il mondo moderno all’etica
universale che qui si era formata e che ora da qui risorge per pacificare le
persone, la società e i popoli. Dalla Calabria nasce un sommovimento mondiale delle
coscienze per portare ai posti di comando le donne, le madri e gli
uomini che la pensano come le donne, donne che non hanno mai fatto guerre, ma hanno
sempre aiutato e protetto la vita in ogni situazione. Senza il sogno di una
vita felice e di un mondo in pace non si attiva il desiderio di realizzarlo:
l’evoluzione umana rimane bloccata e tende pericolosamente verso l’involuzione,
come sta succedendo sotto i nostri occhi.
Questa lettera è iniziata rivolta ai Calabresi, non solo ai
due milioni di residenti in Calabria e al mezzo milione di nati in Calabria e residenti
altrove, ma anche ad alcuni milioni di figli e discendenti di Calabresi
emigrati, quella che io chiamo la Grande Calabria. La disseminazione dei Calabresi nei continenti non fu voluta da
un avverso destino, ma faceva parte di un ampio disegno, voluto da quella che i
pitagorici chiamavano Theia Prònoia
(Divina Preveggenza), affinché essi fossero il lievito della nuova Civiltà
Sissiziale, che verrà da dove uno meno se l’aspetta: dalla Calabria.
Questa lettera è rivolta in realtà all’umanità
intera, alla quale
abbiamo il dovere di dire un’amara verità. I maschi hanno
fatto e fanno le guerre per il piacere di distruggere e uccidere: un bisogno irrefrenabile,
per soddisfare il quale trovano sempre soldi senza limiti. I conflitti di Medio
Oriente e Ucraina-Russia confermano che ammazzare o farsi ammazzare è bello, degno
e glorioso, anche se esige la propria morte.
Il sommovimento pacifico che noi proponiamo
è il più grande e affascinante della storia, e mira a portare la pace nel mondo
col solo mezzo che può realmente realizzarla: la distruzione di tutte le armi, senza le quali le guerre non si
possono fare.
A questo fine la
Nuova Scuola Pitagorica propone un raduno a Capo Lacinio, dove Pitagora parlò
di pace e vita felice. Al raduno, che si terrà nella primavera del 2025 in data
che indicheremo, sono invitati tutti, nessuno escluso.
Intorno al 1990 Padre
Paisios, un monaco greco-ortodosso
del Monte Atos, disse:
Apò tin Kalavrìa
to fos:
dalla Calabria verrà la luce.
Quel monaco non mise
mai piede in Calabria, ma era probabilmente dotato di quell’intelligenza spirituale, come la definì Gioacchino da Fiore, quell’intelligenza sovrana, capace di illuminare
gli abissi della storia per aiutare l’umanità ad allontanarsi dall’inferno
presente e andare verso orizzonti di felicità e di pace.
Riaccendere la speranza e adoperarsi per un
mondo migliore è il compito essenziale di tutti, soprattutto dei Calabresi, i
quali hanno grande bisogno di recuperare la fiducia in sé stessi: gli ultimi saranno i primi.
Evoè, evviva.
Salvatore Mongiardo
Scolarca della Nuova Scuola Pitagorica
Ottobre 2024
348 7820 212
mongiardosalvatore@gmail.com