giovedì 28 gennaio 2010

SANT'ANDREA-PRESENTAZIONE DEL DIZIONARIO ANDREOLESE-ITALIANO DI ENRICO ARMOGIDA

Domenica 28 dicembre 2008


Signor Sindaco, gentili signore e signori,

sono veramente lieto di presentarvi il Dizionario Andreolese-Italiano del caro amico Enrico Armogida. I latini avrebbero detto: Hanc diem numera meliore lapillo. Cioè, segna questo giorno tra quelli fortunati, perché oggi vede la luce quest’opera durata trenta anni, iniziata con un foglio di carta e penna e terminata al computer con ben 1.302 pagine. Enrico l’ha chiamato Dizionario ma, secondo me, sarebbe più giusto chiamarlo Dizionario Enciclopedico. Difatti, non ci sono solo le parole con la loro etimologia greca, latina, araba, ma anche le biografie di personaggi andreolesi come, per esempio, Saverio Mattei, la Monachella di San Bruno e l’architetto Armogida. E poi le cronache di alluvioni e terremoti, i nomi dei fondi: Pajhò, Pastaticò, Bassariaci, Cuccumìaddhu, Santu Lìa, Fimmana schjetta. I modi di dire, i proverbi: Su tri cuasi si funda a casa, spaddha pilusa, petra bucata e chjrica rasa. Le favole, i racconti, gli usi e i costumi, le arti e i mestieri, le cronologie dei sindaci, dei parroci, dei maestri di scuola e molto, molto altro. Per esempio, se guardiamo alla parola vombacaru, vediamo che era lo scardassatore del cotone, cioè quello che toglieva i semi, i vambacùaspura dalla bambagia prima della filatura. Ho ancora nelle orecchie il rumore che faceva l’ultimo vombacaru, il padre di Italo e Delina, che emigrarono in Argentina.

Io non conosco in tutta Italia un’opera così completa e ampia che confronti la lingua parlata di un paese con l’italiano. Questo miracolo si compie per l’andreolese, lingua nostra e del nostro popolo, sparso per l’Italia e le Americhe.

Non sapete come si chiamavano le parti di un carro tirato dai buoi? Aprite il Dizionario e vedrete cosa erano lettèra, tramenzuni e stamigni. Volete conoscere i termini di ogni cosa che i vasai, i famosi argagnari di Sant’Andrea, usavano? Per ogni termine troverete significato e corrispondente in italiano.

L’italiano, appunto. A me piace immaginare che questo Dizionario sia la rivolta di Enrico, concepita negli anni intorno al 1945, quando lui iniziava a frequentare le scuole elementari nell’Edificio Scolastico qui vicino. Non si dice pitta, ma focaccia! Non si deve dire currijùazzu, ma cinghia! Cosa è questo faddala, si deve dire grembiule, ci sgridavano i maestri. Con questa opera è come se Enrico, e noi tutti assieme a lui, ci fossimo riappropriati dei nostri territori linguistici dentro i quali siamo stati allevati dai genitori e dalla ruga. Dirò di più. Enrico ha risolto quello che Freud definì il primo problema di ogni persona, quello dell’identificazione: chi sono io? Enrico risponde senza dubbi: io sono e sempre sarò andreolese.

I filologi e i linguisti si occuperanno della parte scientifica di questo Dizionario, che è sostanziosa. A me preme piuttosto dare una risposta a una domanda che questo Dizionario mi ha posto. Cosa spinge una persona a spendere energie enormi per trenta anni nel compilare una tale opera? Il desiderio di gloria? Non mi sembra il caso di Enrico, anche se alla gloria siamo tutti sensibili. Il desiderio di salvare il salvabile di una cultura in estinzione per consegnarla ai posteri? E’ quello che comunemente si pensa, e che anche Enrico pensa. A me sembra però che salvare la conoscenza per i posteri sia solo la ragione apparente. La ragione vera, profonda non viene detta per pudore e si chiama semplicemente amore. L’origine di questo Dizionario è l’amore del suo autore per le persone, le piante, i cieli, le campagne, gli alberi, le piante, le botteghe artigiane, i contadini con le zappe, i canali dell’acqua, gli orti e le vigne in mezzo ai quali Enrico si è cresciuto. Enrico ama disperatamente tutte le cose che hanno fatto parte della sua esistenza e li riporta a nuova vita, anche se erano pumiceddha e maju o garici o curgejjha. A ognuna di queste cose Enrico consegna il passaporto per l’eternità perché non si rassegna all’idea che possano scomparire. E’ incondizionato il suo amore per quel mondo che fu semplice in apparenza. In realtà fu terribilmente difficile, e nel breve spazio che va dallo Ionio alla Lacina, dal fiume Alaca a Saluro, fece da scena di rappresentazione della storia del mondo con il suo carico di bene e di male: U mundu, ca’ cui u cangia u mundu! U mundu è mpamu, dicìa Caramanti.

Enrico vorrebbe conservare per sempre anche l’elemento più inafferrabile, il vento, sia che soffi come vucchjata, rispiru, rijhatu da menzajornaqta, spiffaru, refulata, o quando rinforza e diventa fischiu, ngusciu, jhujjhalora. Cerco di immaginare cosa diranno fra cento anni gli specialisti di filologia di qualche università del mondo consultando questo Dizionario. E penso che potranno trovare una risposta a qualche termine, ma sarà come una luce rarefatta, lontana. Non sarà u vambacaru che io ho visto, con la bottega piena di fiocchi di bambagia come se nevicasse, e il rumore dell’attrezzo per scardassare: mba mba mba… Per noi presenti, per me oggi, da questo Dizionario viene invece una lezione di vita. E cioè che senza finzioni e senza vergogna si possono amare le cose minime, u fusu, a lampa, a chiccareddha’e l’ùajjhu. Ogni elemento della natura, ogni persona che ci è stata compagna di viaggio, anche se erano i reietti o gli scemi. E’ quindi una lezione di aderenza alla realtà che fu contadina e povera, ma anche buona e generosa. La lezione di Enrico è quella di una persona che mai si è mossa dal suolo natio, pur affrontando studi, famiglia e tutti i cambiamenti che negli ultimi decenni sono arrivati a valanga uno dopo l’altro.

Nella grande confusione del mondo attuale che si globalizza in tutto, anche nella crisi e nella paura del domani, Enrico ci presenta in quest’opera un mondo che seppe vivere con poco e sicuramente visse con meno angoscia, felice se c’era un pezzo di pane e un bicchiere di vino.

E’ per questo che a nome mio personale, di tutti gli andreolesi sparsi per il mondo, di voi tutti presenti, ringrazio Enrico e mi felicito con lui per aver raggiunto questo grande traguardo. E termino con un augurio in andreolese: Avanti mìagghu!

Salvatore Mongiardo

mercoledì 27 gennaio 2010

ITALIA ITALIA Atto unico

RAPPRESENTAZIONE DELLA SCUOLA PITAGORICA E DEL SISSIZIO COL BUE DI PANE
2009







L’autore acconsente che questa opera sia diffusa e rappresentata liberamente e gratuitamente




Nota

Detti, fatti, nomi, situazioni e contenuti, liberamente adattati dall’autore, sono tratti dai seguenti autori antichi:
Aristotele, La Politica
Giambico, Vita Pitagorica
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi
Porfirio, Vita di Pitagora





Scena prima


La scena si svolge intorno al 500 a. C. nella scuola di Pitagora, che aveva sede a Crotone, sul mare, accanto al tempio di Hera Lacinia. Si intravede il tempio con la colonna dorica superstite. Pitagora è seduto su uno sgabello; davanti a lui ci sono gli allievi, vestiti con tunica alla greca, accovacciati su coperte piegate, una quindicina tra ragazzi e ragazze. Pitagora porta la barba a punta e veste alla persiana con ampi pantaloni bianchi e il turbante bianco in testa.
Gli alunni si esprimono con l’accento e il modo di parlare della loro città di origine, cosa sulla quale Pitagora insisteva perché riteneva importante il rispetto della lingua della propria patria. Nella rappresentazione si usa l’accento attuale di Crotone, Reggio, Agrigento ecc…

Pitagora interroga un allievo:
-Empèdocles di Agrigento, dimmi, quali numeri compongono la sacra tètrade?-

Empèdocles si alza e risponde con chiaro accento siciliano:
-Sono l’1, il 2, il 3 e il 4 che sommati formano il 10, il numero perfetto che comprende tutto l’esistente, Dio e l’universo. Dieci o decade infatti significa ricettacolo.

Pitagora:
-Zalèucos della fiorente Locri, perché il filosofo è l’uomo più puro?

Zalèucos, un altro allievo, con accento di Locri:
- Perché ha scelto la contemplazione delle cose più nobili: bello è contemplare l’intera volta celeste ed è bello riconoscere l’ordine degli astri che si muovono. Ma, o divino, se ho risposto bene, dimmi, perché dall’isola di Samo, tua patria, sei venuto a vivere a Crotone? Si dicono tante cose sulla tua venuta, ma nessuno, eccetto te, lo sa veramente.

Pitagora:
-Io non sono venuto, io sono tornato a Crotone. La prima volta venni a Crotone da bambino, all’età di 6 anni, quando mio padre Mnesarco mi condusse con sé in nave. Lui era un bravissimo incisore di pietre preziose. Si montavano come sigilli sugli anelli ed erano molto richiesti dagli uomini ricchi di Crotone e Sibari. Ricordo la grande impressione che provai quando sul mare si profilò la costa e brillarono le tegole di bronzo dorato del tempio di Hera Lacinia: Italia! Italia! gridarono i marinai.

Gli allievi balzano in piedi e gridano ripetutamente insieme, accompagnati da fortissimo strepito di piatti e tamburi: Italia! Italia! Poi si siedono.

Pitagora continua:
-Eravamo giunti a Crotone d’Italia! Mio padre fece buoni affari vendendo i sigilli e tornammo a Samo, ma, quando vidi scomparire all’orizzonte le montagne selvose d’Italia, fui molto triste.

Pitagora si rivolge a un’allieva:
-Tirsenìs di Sibari, bando ai ricordi, parlami ora dell’amicizia.

Tirsenìs:
-Amicizia è benevolenza nei confronti di tutti, degli dèi verso gli uomini e degli esseri umani tra di loro, cittadini e stranieri. Dell’uomo per la moglie, per i fratelli, i congiunti e anche per gli animali. Amicizia anche del corpo con se stesso attraverso la pacificazione delle forze che contrastano dentro di noi. Ma, o divino, perché non continui il racconto della tua vita, da quando bambino lasciasti Crotone fino al tuo ritorno? Noi ardiamo dal desiderio di sapere dove hai viaggiato e cosa hai visto per il mondo. E’ vero che sei stato fino a Babilonia e che hai conosciuto Zaratustra?

Pitagora:
-E’ vero. Tornato a Samo, mi accolse mia madre Partènide, la donna più bella dell’isola. Poi, da giovane, visitai le isole greche e fui iniziato a tutti i misteri. Partii per la Fenicia, soggiornai in Israele, visitai anche la Siria e andai poi in Egitto. Lì rimasi per 21 anni e appresi dai sacerdoti la geometria, l’astronomia e la scrittura dei geroglifici. Oh, che meraviglia la sfinge misteriosa e le tre grandi piramidi, il Nilo che scorre maestoso fecondando i campi! Quando poi il re persiano Cambise conquistò l’Egitto, fui portato con lui a Babilonia. Lì appresi le dottrine dei magi che mi insegnarono musica e scienza e conobbi Zaratustra, che mi spiegò la sua dottrina del dio del bene e del dio del male. Rimasi a Babilonia 12 anni, ammirando i giardini pensili e le folle multicolori che riempivano le strade. Ora tu, Kàlais di Reggio, dimmi, in poche parole, qual è la nostra dottrina?

Kàlais, un allievo con accento reggino:
-Occorre estirpare con ogni mezzo la malattia del corpo, l’ignoranza dell’anima, la smoderatezza del ventre, la ribellione della città, la discordia della casa e l’abuso di qualunque cosa. Tutti i nostri beni devono essere in comune. Onora l’amico che è come un altro te stesso. Dobbiamo andare in soccorso della legge ed essere ostili all’illegalità. Ma, o divino, non ci tenere con il fiato sospeso, continua il racconto della tua vita!

Pitagora:
-Vi racconterò tutto, ma ora è tempo di onorare il Dio con la danza e la musica!

Le allieve danzano alla maniera antica. Entrano in scena suonatori di zampogna, flauto, sistro e lira, e accompagnano le danze con motivi lenti e dolci.

Alla fine della danza tutti si siedono e Pitagora continua:
-Quando tornai a Samo avevo 56 anni, e dopo aver tanto viaggiato, mi sentivo straniero in patria. Il tiranno di Samo, Policrate, mi volle con sé per governare l’isola. Dopo tutti gli sforzi per apprendere il sapere, mi ritrovai in mezzo alla politica. Quanti imbrogli, quante menzogne, quanta gente ho visto cambiare opinione per avere un utile immediato. Tradimenti, inganni, soprusi. Non era quello il mondo che avevo sognato. Mia madre Partènide mi guardava, vedeva la mia scontentezza e un giorno mi disse che mi avrebbe seguito dovunque volessi andare. Allora capii che era giunta l’ora di tornare a Crotone, la città che mi era rimasta sempre nel cuore. Ci imbarcammo su una nave, ma, nel golfo di Taranto, fummo sorpresi da una furiosa tempesta. Venne la notte e i venti aumentarono, strapparono le vele e la nave rimase in balìa delle onde: i rematori ritirarono i remi inutili invocando pietà dagli dèi. Mia madre si strinse a me aspettando la fine e allora capii, sentendo il suo cuore battere, che nessuna tempesta può vincere il cuore di una mamma, e la mia anima si aprì alla speranza. Okkelò di Lucania, dimmi ora, perché la speranza mi salvò nella tempesta?

Okkelò, un’allieva, risponde:
-Perché bisogna sperare in Dio. Per Dio non ci sono cose possibili e cose impossibili. Tutto Dio può compiere e non c’è nulla che non possa compiere.

Pitagora:
-Hai detto bene! E Dio, che pregavo ardentemente, mi fece intravedere, al bagliore di un lampo nella notte, le tegole dorate del tempio di Hera, che avevo visto brillare da bambino. Allora gridai: Italia! Italia! I rematori ripresero coraggio e gridarono: Italia! Italia!

Anche gli allievi balzano e gridano al suono di piatti e tamburi, ripetutamente: Italia, Italia!

Poi tutti cantano con accompagnamento di musica:

Italia, Italia, salvezza al navigante
Italia, Italia, speranza all’emigrante
Italia, Italia, un sogno di bellezza.
Italia, Italia, destino di grandezza.


Scena seconda


Siamo sempre alla scuola di Pitagora, che passeggia tra gli allievi e poi si siede sullo sgabello. Un allievo di Caulonia, Kallìmbrotos, gli rivolge la parola:

Kallìmbrotos:
-O divino, nella mia città, Caulonia, si racconta che, quando io ero bambino, tu sei venuto per rendere mansueta l’orsa bianca che uccideva gli abitanti. Ti supplico, raccontami come sono andate le cose!


Pitagora:
-E sia, o Kallìmbrotos! Gli abitanti di Caulonia mi mandarono messaggeri pregandomi di liberarli da una feroce orsa bianca che uccideva gli abitanti. Tutti conoscevano la mia pietà per gli animali: non si può uccidere né mangiare quanto contiene la vita, né carne né pesce. Come è possibile condurre animali al macello, farli cuocere per soddisfare il piacere e la ghiottoneria? E’ un terribile misfatto, un crimine orrendo! Allora mi misi in cammino da Crotone con alcuni amici. Arrivati a Squillace dovemmo salire sul grande scoglio e ridiscendere per poter continuare, passammo la Daulia boscosa e finalmente arrivammo a Caulonia. Di sera l’orsa bianca arrivò, io mi avvicinai e le parlai a lungo, molto a lungo nell’orecchio. L’orsa capì che io la volevo aiutare, diventò mansueta e finché visse si recò sulla piazza senza fare alcun male a nessuno. Era diventata umana. Tu, mia diletta Teano, ripeti, adesso, perché bisogna rispettare gli animali.

Teano è la bellissima moglie di Pitagora, di 40 anni più giovane di lui, e anche sua allieva.

Teano:
-Mio caro sposo, è la dottrina che più amo e che ho trasmesso ai nostri figli, Telàuge e Maia. Con gli animali abbiamo in comune la vita. Gli animali sono a noi familiari e amici, non bisogna far loro alcun male, mai ucciderli e cibarsene, ma considerarli fratelli minori ed aiutarli. Ho notato che tu stai lontano perfino dai cacciatori e dai macellai, tanto hai in orrore il sangue!

Pitagora:
-Diletta Teano, quando giunsi a Crotone ero già sessantenne, filosofo vecchio e deluso. Avevo girato il mondo, imparato tutti i misteri, ma il mio cuore non era contento. Poi il tuo sguardo sereno, l’amore sbocciato tra noi, ha portato il caldo nella mia vita. La filosofia vi aveva portato luce, ma non calore. L’amore di donna è la cosa più delicata ed elevata dell’universo. Per amore, o Teano, hai capito che l’essenza della mia dottrina è la fine della violenza: questo avverrà quando non si uccideranno più gli animali. Se non osi uccidere l’animale, mai oserai uccidere un uomo e ancor meno fare la guerra!

Tutti gli allievi si alzano e recitano, scandendo lentamente, alla maniera di un coro greco:

L’amore di donna è nobile e delicato,
l’amore di donna è il fiore dell’universo.
Se non uccidi l’animale, non ucciderai l’uomo:
Sacro è il vivente perché ha in sé la vita!

Leòkritos, un allievo di Cartagine, si alza e parla nella sua lingua incomprensibile:
-Gli ma ro ne Italia ta nov ta torest quat noc ib nafuz obram…

Pitagora lo interrompe:
-Amico Leòkritos, è vero che io insisto perché ognuno parli nella propria lingua, ma la lingua di Cartagine è incomprensibile. Per te facciamo un’eccezione, ripeti nella nostra lingua quello che hai appena detto in cartaginese.

Leòkritos:
-Volevo chiedere se è vero che questa terra che si chiama Italia prima si chiamava Enotria e che un certo re Italo le diede il nome e fondò i sissizi…

Pitagora si rivolge a un allievo, Ippòstratos:
-Ippòstratos di Crotone d’Italia, rispondi tu alla domanda del nostro amico di Cartagine!

Ippòstratos:
-Questa terra prima si chiamava Enotria finché re Italo convertì quel popolo dalla pastorizia all’agricoltura e diede il suo nome agli abitanti che si chiamarono Itali e la terra si chiamò Italia. Italo stabilì che la base della civiltà era l’amicizia, perché solo nello spirito di amicizia si può vivere bene. Per favorire l’amicizia egli fondò il sissizio, il banchetto comune, dove ognuno portava cibo che divideva con gli altri.

Pitagora:
-E sarebbe il caso che tutti ripetessero il rito nobile del sissizio! Adesso, o Archìtas di Taranto, tu che sei il più acuto nella geometria, spiega quali sono le proprietà di un triangolo rettangolo.

Archìtas, un allievo:
-Il quadrato costruito sull’ipotenusa di qualunque triangolo rettangolo è sempre uguale alla somma dei due quadrati costruiti sui cateti! Non riesco, o divino, a capire come tu abbia scoperto una legge così importante!

Pitagora:
-Sappi, o Archita, che il teorema del triangolo rettangolo è solo la parte dimostrativa di una legge più importante che è la seguente: se uccidi l’animale, la violenza entrerà nell’uomo e restituirà all’uomo la violenza data all’animale. Questo sarà sempre vero come sempre sarà vero il teorema del triangolo rettangolo! Non dimenticatelo mai!

Si alza un altro allievo, Parmìskos, che chiede:
-O divino, ieri sera ho offerto una corona di fiori per mio padre che è morto. Questa notte mi è venuto in sogno e mi ha parlato! Mi ha abbracciato tutto contento! Mi ha anche detto di non preoccuparmi di niente… Mi sono svegliato tutto agitato e felice, era così viva la sua immagine, così chiara la sua voce! Dimmi, che significato ha quel sogno?

Pitagora.
-Caro Parmìskos di Metaponto, non è un significato, è una realtà. Tu hai parlato a tuo padre esattamente come ora stai parlando a me. La realtà è vasta ed abbraccia le cose visibili e quelle invisibili, la veglia e il sonno. Ho imparato la dottrina dei sogni dagli ebrei di Israele, dove pure ho vissuto studiando i loro usi e costumi.

Tutti gli allievi esprimono stupore parlottando tra di loro.

Pitagora continua:
-Voi vi meravigliate per quello che ho detto? Allora io vi dico che c’è una provvidenza, un ordine che governa tutte le cose. Il Dio ha voluto che io venissi in Italia perché questa terra è a lui cara e perché io vi seminassi la sapienza appresa da tutte le genti. In questa terra la filosofia vivrà perenne e passeranno millenni, ma, quando al Dio piacerà, rifiorirà per aiutare le umane sorti: dall’Italia verrà la nuova civiltà del mondo! Già adesso alcuni chiamano questa terra Megàle Ellàs, Magna Grecia, non per la ricchezza delle città e la floridità dei commerci, ma per la grandezza e la diffusione della nostra dottrina. E tu, mia diletta Teano, assieme alle altre donne, va a impastare un pane a forma di bue. Quando sarà cotto lo offriremo al Dio per ringraziarlo e faremo un sissizio con musica e danze!


Scena terza e ultima

Si vede una madia di legno dentro la quale le allieve impastano la farina con acqua. Parlano tra di loro e si consigliano:

Una dice:
-Metti un po’ più di acqua di mare, se no il pane viene scipito.

L’allieva alza un’anfora e versa acqua nella madia:
-Ho attinto quest’acqua dal Jonio stamane, quando il sole si levava all’orizzonte.

Gli allievi stanno attorno a guardare e scherzano.

Uno dice:
-Se fate il bue troppo grande non entrerà nel forno!

Un’allieva gli risponde:
-Vuoi che proviamo a mettere te nel forno per vedere se entri?

Finito l’impasto danno forma al bue.

Una dice:
-Non fargli la coda troppo sottile, sembra quella di una capra!

L’altra risponde:
-Allora la faccio grande quanto la tua gamba!?

Un’altra ancora:
-Queste corna sono grandi come quelle di un bue lucano!

Un’altra ancora risponde:
-Meglio, a chi toccheranno le corna avrà di che mangiare!

Finiscono di dargli la forma e lo coprono per farlo lievitare.

Teano, moglie di Pitagora, incoraggia le allieve:
-Amiche mie care, aspettando che il bue lieviti, danziamo in onore delle Muse, simbolo della concordia: un solo nome ne indica sette!

Le allieve danzano lentamente sulla scena e a lato appaiono gli allievi che a turno recitano, a voce alta, le massime pitagoriche.

Primo:
-Onora i genitori e i parenti prossimi e fatti amico degli uomini virtuosi.

Secondo:
-Domina il ventre, il sonno, la lussuria e l’ira, pratica la giustizia nelle opere e nelle parole.

Terzo:
- Ogni uomo è a se stesso causa del proprio bene e del proprio male.

Quarto:
-La vittoria non è buona perché genera invidia. E’ bello gareggiare con gli amici senza vincitori né vinti perché la vittoria sporca il vincitore.

Quinto:
-Molti dolori devono sopportare i mortali: la parte che ti tocca, sopporta serenamente e non lamentarti.

Sesto:
-Sii fiducioso, o uomo, perché divina è la stirpe dei mortali. Non odiare il tuo amico per un piccolo sbaglio! La famiglia è tutto, conservala nell’armonia!

Settimo:
-Non cercare gloria né ricchezze, non accumulare sostanze. Dona ogni tuo avere alla comunità e non trattenere nulla per te!

Finite le danze e la recitazione, un’allieva accende il forno con le fascine. Tutti si danno da fare per mettere il bue a cuocere nel forno. Poi le allieve, una alla volta, avanzano al centro della scena e recitano a voce alta i precetti pitagorici. Nel sottofondo si sente una musica arcaica.

Prima:
-Non passare oltre la bilancia, cioè non prevaricare.

Seconda:
-Non attizzare il fuoco col coltello, cioè non eccitare con parole taglienti chi è in collera.

Terza:
-Non sfrondare la corona, cioè non violare le leggi.

Quarta:
-Non mangiare il cuore, cioè non tormentarti con l’ansia del domani.

Quinta:
-Non accogliere rondini in casa, cioè non vivere insieme a persone ciarliere.

Sesta:
-Non stare seduto sul moggio, cioè non vivere ozioso.

Settima:
-Non camminare per le vie frequentate dal popolo, cioè segui solo le opinioni dei pochi e colti.

Entra in scena Pitagora e tutti fanno silenzio al suo ingresso.

Teano, la moglie, dice:
-Mio diletto sposo, fra poco il bue sarà cotto. Vuoi disporre per l’offerta?

Pitagora:
-Oggi è giorno memorabile, abbiamo risparmiato la vita all’animale e offriremo al Dio un bue di pane. Mai i nostri altari si macchieranno di sangue!

Teano apre il forno e toglie il bue che viene mostrato al pubblico. Le allieve lo adornano di fiori e lo adagiano sull’altare di marmo che sta a lato della scena. Pitagora stende le mani sul bue, tutti stendono le mani, palme in su in segno di offerta, e cantano:

Signore Dio altissimo,
Il bue noi ti offriamo
Fatto di spighe d’oro
D’Italia il biondo grano,

Da noi allontana i mali
Dacci concordia e pace
Proteggi la tua Italia
Di cuore Ti preghiamo.

Dio grandioso e ineffabile
Che sei nostra dimora
L’Italia tua ti adora
E spera solo in te,
E spera solo in te!

Poi Pitagora e Teano spezzano il bue, lo danno agli allievi e allieve che lo distribuiscono ai presenti.

Fine

Salvatore Mongiardo

PERCHE' LA VIOLENZA

https://drive.google.com/file/d/1yGOCM-0IudUa1q4RWcqTQCTWU8ICACZC/view?usp=sharing

martedì 26 gennaio 2010

CONCERTINO ALLA PORTA

STRUGGENTI RICORDI DI ARCANA BELLEZZA NEL MONDO DELL'INFANZIA CALABRESE



Nonna Marianna avanzava con la lunga sottana nera: vestiva a lutto da quando suo marito, mio nonno Salvatore, era morto trent' anni prima nel 1922. La sottana terminava con un ampio riccio, nero anche quello; mio nonno era maestro fabbro, non un comune contadino, e perciò lei aveva diritto a quella distinzione. Zia Antonia, sua figlia e sorella di mio padre, la seguiva portando una sporta vuota sulla testa, fatta di canne e vimini intrecciati. Passarono la curva della caserma accanto a casa mia e arrivarono alla forgia di mio padre, che stava ferrando un asino. Il padrone dell'asino teneva sollevato il piede dell' animale con tutte e due le mani. Mio padre gli pareggiava e puliva l'unghia con un attrezzo simile a una palettina dai bordi taglienti come un rasoio, in andreolese chiamato "rùajina" parola misteriosa che in italiano, con termine non meno misterioso si chiama incastro.
Si fermarono davanti alla forgia e uno degli apprendisti di mio padre alzò la falce che aveva appena terminato, la incrociò con un martello come il simbolo del partito comunista e:
"Una falce così bella non ce l' ha nemmeno Stalin!" esclamò consegnandola a zia Antonia che la mise dentro la sporta, mi prese per mano e mi condusse con loro appena fuori paese, alla Porta, dove avevano un piccolo fondo con alberi di fichi. Per arrivare alla Porta dovemmo passare davanti alle prime Madonnelle, una minuscola cappella votiva con quattro riquadri raffiguranti santi e la Madonna del Carmine, ancora bucherellata da quando un cacciatore, adirato perché non aveva colpito nessuna quaglia, le aveva sparato urlando:
"Almeno a te ti becco!"
La Madonna del Carmine non gradì l'oltraggio e ripagò all'istante il cacciatore con una paralisi facciale che gli storse il viso per il resto dei suoi giorni.
Noi tre scendemmo ancora per un centinaio di metri lungo l'impietrata, la ripida strada selciata fatta con i sassi levigati del fiume Alaca, bagnata per secoli dal sudore dei contadini e delle donne che la risalivano, carichi come bestie da soma fino al paese.

Passammo davanti alle seconde Madonnelle, altri cinque riquadri con altri santi, e girammo a sinistra lasciando l'impietrata e le rovine del lazzaretto, dove passavano la quarantena i forestieri che arrivavano in paese. Io diedi un'occhiata attenta agli olmi che crescevano accanto alle rovine del lazzaretto: erano carichi di bacche ancora verdi. Fra qualche mese avrei fatto man bassa di bacche dolciastre e saporite. Superammo il dosso e scendemmo nella valletta ombreggiata da querce, ulivi e fichi. Zia Antonia non perse tempo. Con la falce tagliò l'erba secca attorno agli alberi, poi montò su un grande fico carico di frutti maturi e si mise a riempire il paniere.
Erano le cinque del pomeriggio e cominciò a rintoccare la campana della chiesa matrice che chiamava per la recita del rosario e la benedizione serale. Nonna Marianna sedette ai piedi di un ulivo al tronco del quale era stato legato, con un filo di raffia, un rametto di ulivo benedetto nel giorno delle Palme, che serviva a propiziare un buon raccolto. Prese dalla tasca la corona e cominciò a pregare. Io feci un cappio con un lungo stelo d'erba e cercai qualche lucertola da acchiappare. Forse inseguendo una lucertola, o forse perché era l'ora che gli animali si affrettavano alle loro tane, un grande serpente nero avanzò verso di me frusciando tra le foglie. Al mio urlo di spavento nonna Marianna si alzò e agitò il rosario contro la mala bestia; zia Antonia scese dall'albero e avanzò verso il serpente schermandomi dietro di sé:
"Vieni qua, vieni, se hai coraggio: ti schiaccio la testa come la Vergine Immacolata!"
Il serpente non accettò la sfida e piegando flessuosamente si allontanò di lato. Zia Antonia continuò a raccog1iere fichi e nonna Marianna a pregare. Quando terminò il rosario implorò a voce alta:
"Madonna mia, perdonami se non vengo stasera alla novena in chiesa!"
Difatti era cominciata la novena della Madonna Assunta e zia Antonia intonò una canzone, che si cantava la sera dai balconi e ballatoi:

"Và nel cielo a godere, o mia Signora,
un giorno appresso a te, tirami ancora!"

Con lo stesso motivo e parole le rispose nonna Marianna, ma con voce più stanca e sbiadita, più antica insomma. Intanto la luce del giorno si era attenuata nella valletta, dove arrivava chiaro il martellare di mio padre sull'incudine, seguito velocemente dal martellare di altri due apprendisti che usavano due grandi mazze per battere il ferro caldo e dargli la forma voluta. Questa lavorazione, che si chiamava "dallare", richiedeva grande perizia e forza: mio padre teneva il ferro con la tenaglia e lo batteva per primo con il maglio detto anche mezza mazza. Poi lo colpiva con la mazza grande l'apprendista che gli stava di fronte a sinistra e dopo l'altro apprendista che stava a destra con un'altra mazza. Le due mazze erano di peso uguale, ma terminavano con le punte una a forma di cuneo, detta di pinna e l'altra arrotondata, detta di bolla, che stendevano il ferro in maniera uniforme.
Il rimbombo delle mazze, dolce e poderoso, accompagnava il canto della nonna e della zia. Un'ultima cicala e il primo grillo della serata si misero a fare il contrappunto. E una rana non lontana si inserì nel concerto con un gracidare lento e discreto. Mbi mbo mba le mazze, fri fri la cicala, cri cri il grillo, gre gre la rana. E con suono che veniva da
più lontano: nda, ndi ndo attaccarono le tre campane della chiesa matrice, perché il sacerdote stava benedicendo il popolo con l'ostensorio. Un barbagianni, che iniziava la caccia notturna, unì a quei suoni un fruscio d'ali più tenero e carnale volando da un ramo all' altro per prepararsi alla caccia notturna.

Zia Antonia iniziò una canzone che la sera si eseguiva in chiesa al termine della funzione:

"L' orizzonte già s'imbruna
ed in alto la stella appare
quando spunta in ciel la luna
un pensiero al buon Gesù!"

Come se il firmamento fosse ai suoi ordini, sul mare si levò la luna e a occidente spuntarono le prime stelle. Nonna Marianna si asciugò una lacrima e disse:
"Così bello deve essere il paradiso dove mi ha preceduto mio marito e mio figlio e dove fra non molto anch'io andrò."
Zia Antonia protestò:
"Questi non sono discorsi da fare adesso che con il buio della sera mi scura il cuore! E non c'è nessuna fretta di andare in paradiso dove non ci sono fichi così buoni."
Ne sbucciò uno che gocciolava nettare e lo mangiò mentre rideva con i suoi occhi chiari.

3 settembre 1994

Salvatore Mongiardo

SINDACO DI SANT'ANDREA

UNA STORIA VERA E AMARA SUL DECLINO DELLA CALABRIA


La visita a mia madre era stata brevissima come spesso succedeva. Lei stava facendo una delle tre cose che le occupavano la giornata e mi aveva licenziato:
'Va, va, che adesso devo mangiare'.
O doveva recitare il rosario, o doveva riposare. Dopo una di queste mini-visite mi venne incontro per strada Michele che mi salutò cordialmente e senza tanti fronzoli mi chiese:
"Perché non fai tu il sindaco di Sant'Andrea?".
All'inizio pensai che fosse una battuta scherzosa tra conoscenti che non si vedevano da tempo, ma Michele insisteva: fra un anno ci sarebbero state le elezioni comunali, il paese aveva bisogno di un rilancio, mancava il lavoro e non c'era un programma di interventi per creare occupazione... Se il paese veniva sempre abbandonato dalle forze migliori, nessuno avrebbe mai potuto risollevare quel lembo meraviglioso di Calabria. Era giunta l'ora per me di tornare ad occuparmi in maniera forte e audace dei problemi dei miei concittadini. Ero conosciuto e amato da tutti, avevo girato il mondo, chi meglio di me poteva sbrogliare quell'arruffatissima matassa della politica andreolese? Mentre Michele parlava, nella mia mente apparve il volto affettuoso di Peppe Ciuffo che mi disse:
'Alla gebbia del Sundrì!'.
Avevo visto la foto del Ciuffo qualche giorno prima quando gli avevo portato un fiore al cimitero ai piedi del suo altissimo loculo. Ahimè, erano finite le feste e l'allegria nella sua Casetta degli Amici ! Però dalla Casetta e dal loculo la vista era la stessa: il mare di sogno del golfo di Squillace. L'aria no, l'aria era diversa e aveva l'odore balsamico dei cipressi. Michele continuava:
'Sant'Andrea non ha avuto un grande sindaco dopo l'architetto Armogida, tu forse lo ricordi...'.
Eccome lo ricordavo, con i suoi capelli ispidi, quell'uomo buono come il pane, ingenuo, sognatore, generosissimo. Teneva i comizi dai ballatoi del paese arringando il popolo a votare per i comunisti nelle elezioni del 1948, ed evocava Tommaso Campanella con la sua sete di giustizia che finalmente il partito comunista avrebbe dato all'Italia. Gli attivisti della sinistra andavano di casa in casa cercando di convincere le vecchie analfabete a fare il segno di croce sul simbolo del partito comunista che in quelle elezioni era il volto di Garibaldi:
'Lo vedi, è San Giuseppe con la barba, lui devi votare!'.
E qualche vecchietta c'era cascata, anche se i preti stavano in guardia per smascherare l'inganno. I padri liguorini poi erano i più zelanti nel recuperare voti per la DC. Antonio il meccanico, non fidandosi delle promesse di sua moglie, le aveva fatto giurare sul crocifisso che avrebbe votato comunista. Lei era andata dai padri liguorini stretta tra la paura della scomunica se votava comunista e il timore di rompere un giuramento sacro. Il padre liguorino l'aveva accolta benevolo e aveva dissipato ogni dubbio:
'Il giuramento é nullo, perché era sì fatto in nome di Gesù ma contro Gesù stesso... i comunisti distruggevano le chiese e gli altari come avevano fatto i turchi e peggio ancora negavano l'esistenza di Dio!'.
La vigilia delle elezioni le donne rimasero a pregare nella cappella del Santissimo Sacramento della chiesa Matrice quando già erano chiusi i comizi elettorali. Pregavano a voce alta chiedendo a Dio la vittoria sui comunisti e a un certo punto Concetta invocò:
'Signore, non ne possiamo più di questa attesa! Dacci un segno! Se vinciamo noi, fa che le luci rimangano accese! Se devono vincere i comunisti, che la luce vada via!'.
Non l'avesse mai detto! La luce se ne andò all'improvviso, le donne strillarono forte e scoppiarono a piangere. Era stata la mano di Dio o quella del sagrestano? Comunque le elezioni confermarono la vittoria dei comunisti.

Ah, dunque, la gebbia del Sundrì. Ne aveva parlato il Ciuffo in uno degli innumerevoli conviti e l'aveva descritta come un posto di delizie dove andare a fare una scialata con gli amici. Gli avevo chiesto dove si trovasse e lui mi aveva indicato un luogo ai piedi delle colline. La Pasqua seguente mi avventurai alla ricerca. La campagna era incolta e a una svolta del viottolo mi trovai all'improvviso davanti alla vasca d'acqua, è questo il significato di gebbia con parola probabilmente di origine araba. I ranocchi sguazzavano felici e il capelvenere ingentiliva il punto di raccolta dell'acqua che veniva poi usata per innaffiare l'orto, curato e piantato in mezzo all'abbandono circostante. Chi curava quell'orto? Forse Cristo risorto? Non era egli apparso da ortolano a Maria Maddalena? Era venuto a cercare rifugio in quella campagna serena dopo tanto soffrire in terra di Palestina?
Ma Sundrì cosa voleva dire? Mi sforzavo di capire l'origine di quella parola e alla fine mi apparve chiara guardando la campagna attorno: era il posto dove convergevano i viottoli della contrada. Sundrì veniva dal greco sinedrìa che significa convegno, la stessa parola del sinedrio dei sacerdoti ebraici. Alla gebbia del Sundrì si radunavano gli antichi, quando ancora il paese non esisteva, per mangiare insieme nei giorni di festa e passare una giornata in allegria.

Michele premeva:
" Faremo un grande sissizio alla pineta e vinceremo le elezioni!"
E già, il sissizio. La prima volta ne avevo sentito parlare da un archeologo che tenne una conferenza a Copanello nell'estate del 1967. Egli descriveva il convito al quale partecipavano tutti gli Itali senza distinzione, in segno di amicizia e serena convivenza. Non ritrovavo però la fonte storica e mi disperavo finché un giorno Enrico mi telefonò annunciandomi:
"E' Aristotile nella Repubblica!"
Inserii il sissizio nel Ritorno in Calabria e i commenti appassionati al libro mi spinsero a fare qualcosa per dare alla mia terra un segnale di risveglio e di cammino verso la riscossa. Non fu facile organizzare il sissizio. Dove farlo, e come? Sarebbero venuti gli andreolesi? i forestieri? Andai perlustrando con Giovanni Amoruso la Lacina in cerca di un posto che avesse una sorgente, ma trovammo solo rovi e cespugli secchi. Allora decisi di farlo nella pineta di Sant'Andrea: non c'era posto più bello al mondo, con il rumoreggiare dell'Alaca, la vista azzurra del mare e quella verde della montagna sullo sfondo. E così fu. Nel 1995, 96, 97 tenni tre sissizi nella pineta dove presero parte circa due-trecento persone. Le ciaramelle suonavano, i tamburi e la grancassa pure, il vino scorreva abbondante, e Colino cantava la storia di quando suo padre…
Suo padre, Colino il vecchio con la barba lunga, era un taglialegna che lavorava in montagna e una sera fece tardi nel tornare a casa. In montagna il buio arriva presto a causa degli alberi che diventano cupi e minacciosi. Colino affrettò il passo, ma all'improvviso, alle Scalette di Foculìa, sentì un bambino piangere. Colino trasalì e stette ad ascoltare: andò in direzione del pianto e arrivò ai piedi di un albero dove c'era un neonato. Quale madre snaturata aveva potuto abbandonare un bambino così bello? Lo prese in braccio e affrettò il passo verso il paese, lì si sarebbe visto cosa fare del bimbo dopo averlo vestito e nutrito.
Colino era uomo forte, ma dopo un poco il bambino cominciò a pesargli molto più di un neonato, tanto che se lo mise a cavalcioni sulle spalle. Era già vicino al paese, a Faballino, quando il peso diventò insopportabile. Non solo. Ma si accorse che le gambette del neonato che teneva con le mani erano cresciute e diventate pelose: avevano anche il piede con l'unghia di capra. Allora Colino girò la testa per vedere cosa succedeva e vide con orrore che il bambino si era trasformato nella Brutta Bestia: le corna sulla testa, gli occhi e la bocca che sputavano fuoco non lasciavano dubbi. Il maledetto cominciò a stringere la gola a Colino per strozzarlo, ma egli invocò a gran voce la Madre Maria e buttò nel precipizio il demonio che scomparve tra fuoco e fiamme.

Che allegria c'era stata al primo sissizio, con Pampinedda che suonava la ciaramella e bevve tanto vino finché stramazzò a terra e temetti che fosse morto. E poi il secondo sissizio e il terzo. Mi rendevo conto però che il mio messaggio per una nuova civiltà si perdeva tra la musica, il vino, il mangiare. Rischiava di diventare, anzi era già diventato un appuntamento annuale per divertirsi, un supplemento di Ferragosto. E poi perché lo organizzavo? Cosa andavo cercando? Certamente non il successo personale o la carriera politica. La verità è che andavo cercando molto di più: vivere meglio. Ma il discorso era molto complicato. E allora tanto valeva fare una pausa per riflettere e con l'uscita del mio prossimo libro tenere un altro sissizio: un'altra parola greca che significa convito, mangiare insieme.

E veniva dal greco anche sindaco che significava la giustizia comune, cioè fare le cose giuste per tutti. Sissizio, Sundrì, Sindaco: tre parole con il prefisso sin, che significa con, insieme, uniti. La storia, i luoghi di Sant'Andrea parlavano di concordia, di amicizia, di rispetto che però nel mio paese erano diventati merce rara. Me ne resi subito conto nei pochi incontri che ebbi in vista di una mia possibile candidatura. Gli andreolesi, miei amati concittadini, mi davano l'impressione di un paese vecchio e malato che invece di riunire le ultime forze per cambiare in meglio, le raccoglieva per un'ultima rissa. Certo, c'era molto da fare e le possibilità di rilancio del paese in grande stile esistevano: la montagna vergine come al tempo di Ulisse, le colline più leggiadre della Magna Grecia, il litorale ancora intatto per chilometri, quanti paesi avevano in Italia le stesse possibilità? Eppure non vedevo una via di uscita alla paralisi che le opposte fazioni avevano provocato. Gli andreolesi avevano inteso che democrazia significava libertà di bisticciare senza fine per il solo piacere di rovinare se stessi e gli altri. Tutto, ma proprio tutto, finiva in un alterco senza senso.
Quale maledizione aveva colpito il mio paese? Fino ai tempi della mia infanzia, quando non c'erano telefoni, né gas, né televisori e c'era povertà, il paese era vivo e scoppiava di gente. Ora, con tutti i confort della vita moderna, il posto si era svuotato e padrone incontrastato era il vento. E' vero, d'estate, come per incanto, il paese si ripopola e torna a vivere. Come continua a vivere nel ricordo di migliaia di andreolesi sparsi per il mondo, specie a Roma, Milano, America. Ma poi le iniziative per rivitalizzare l'ambiente e dare un futuro con più possibilità a chi è rimasto o a chi vorrebbe tornare muoiono tutte: i vecchi si disperano per la solitudine e i giovani per la mancanza di prospettive. La terra che aveva conosciuto il più grande splendore dei tempi antichi è condannata a sopravvivere di stenti.

Quando successe il fattaccio, a fine agosto del 1999, fui molto addolorato ma non sorpreso più di tanto. La notizia mi raggiunse per telefono nell'isola di Spargi, accanto a La Maddalena: avevano bruciato la pineta! La pineta, dove l'aria di mare si mescolava all'essenza dei pini, mi aveva guarito dai miei spaventosi mal di testa in giovinezza, quando ero stato cacciato dal seminario. Passavo allora intere giornate disteso sotto gli alberi a respirare cercando di non pensare a nulla. Senza rendermene conto, alla pineta ero tornato per tenere il primo sissizio della storia moderna, come per ringraziarla di avermi liberato dalla feroce emicrania. Ora la pineta non c'era più: "E' un deserto di cenere!" mi disse Gina che nei sissizi era la prima a ballare la tarantella.
Passarono mesi prima che avessi il coraggio di andare a rivedere quel posto. I pini erano ancora in piedi anche se morti e attraverso i rami scheletrici filtrava una luce livida e sinistra: nessun brusìo di insetti, nemmeno un filo di verde. Mi appoggiai alla balconata e stetti a guardare il mare, l'Eterno Azzurro più forte del fuoco, perché l'acqua spegne il fuoco, ma l'acqua chi la spegne? Fu proprio questo pensiero che mi risollevò il morale. L'ignoranza e la violenza erano grandi, ma il mare e la natura erano più grandi di loro e un giorno, forse nemmeno tanto lontano, la grande luce del tempo antico sarebbe tornata a risplendere su quelle terre. La pineta morta mi guariva ancora una volta dal peggiore dei mali, la disperazione. E quindi, mi chiedevo, cosa mi conveniva fare, quale decisione prendere? Entrare o no in lizza nelle prossime elezioni? No, decisi alla fine, il mio tempo era necessario per scrivere il secondo libro che mi premeva dentro, il libro sull'origine della violenza nell'uomo e nella sua storia: un compito immane. Poi si sarebbe visto. Era quasi buio e un grillo fuori stagione attaccò con il suo canto..
Sembrava chiedere:
"Crì-crì, dov'è il sindaco del Sundrì?".

Milano 1 febbraio 2000

Salvatore Mongiardo

giovedì 21 gennaio 2010

MILANO-PRESENTAZIONE DEL DIZIONARIO ANDREOLESE-ITALIANO DI ENRICO ARMOGIDA

Circolo Filologico, Via Clerici 10, Milano, 3 dicembre 2009


Cari Amici,
Ho il piacere di parlare a voi, per una parte milanesi doc e per una parte andreolesi trapiantati a Milano, dove io stesso vivo, mentre il nostro autore, Enrico, è rimasto abbarbicato come l’edera alle vie, alle campagne e alle case del nostro paese natio.
Questa sera mi trovo nella scomoda posizione manzoniana del vaso di terracotta stretto tra vasi di ferro: da una parte, due professori come Trumper e Banfi, massime autorità accademiche; dall’altra parte, l’autore del Dizionario, Enrico Armogida, al quale sono legato fin dalla nascita da amicizia e dalle origini nello stesso paese della Calabria, Sant’Andrea Jonio.
Ho avuto la rara opportunità di revisionare questo Dizionario nella sua prima stesura, un impegno che non mi è pesato perché, mentre andavo avanti nella lettura, dalle pagine balzavano vive le immagini di tante donne e uomini della mia infanzia, che rivedevo nell’atto di pronunciare la parola o la frase riportata nelle bozze. Dopo seguivano lunghe telefonate tra me ed Enrico per commentare, spiegare, chiarire. Componevo allora il numero di Enrico: “Pronto, Enri’, ch’è ’su scrùsciu? Cosa è questo rumore?”
Risposta di Enrico: “S’arzàu ’a levantìna e u mara palumbìja…” Si è alzato il vento di levante e il mare colombeggia, potremmo tradurre letteralmente in italiano, come se, da lontane praterie, stormi di colombi bianchi andassero a posarsi sul Jonio, quell’enormità di azzurro che Enrico vede dalla finestra di casa sua.
Enrico mi racconta che è appena tornato dalla campagna che il padre gli ha lasciato e che lui continua religiosamente a coltivare. Rivedo suo padre Luigi, chino a rifundìra la vigna: rifundìra, riporta il Dizionario, significa zappare in superficie per eliminare le erbacce e rivoltare la terra, un lavoro che si faceva a maggio, quando la campagna andreolese era un tripudio di fiori e un effluvio di odori.
Il ricordo va poi liberamente a mio padre, mastro Vincenzino, che rivedo nella sua forgia, e pongo un quesito ad Enrico: Da dove viene la parola dallare?Dallare in andreolese significa battere il ferro caldo sull’incudine: mio padre lo teneva con la tenaglia e lo batteva con la mezza mazza. Due discepoli, cioè apprendisti, lo stendevano e allungavano battendolo a turno con due grandi mazze, standogli di fronte: mbi, mbo, mba. Il rimbombo dolce e poderoso arrivava fino alla marina.
Passa del tempo prima che Enrico riesca a risolvere il mistero del dallare, ma un giorno mi telefona: “Guarda che viene dal greco antico daidàllein, che vuol dire forgiare abilmente, modellare artisticamente. È come la parola Dàidalos, il padre di Icaro, cioè Dedalo, che modellò le ali per il figlio. Per aferesi è caduto il prefisso dai, è rimasto dallein che ha cambiato la desinenza greca -ein in quella latina -are: è un caso di omerismo. Domandavo: Cosa è un omerismo? Risposta: E’ una parola che si trova in Omero, cioè nell’Iliade o nell’Odissea, quindi risale almeno all’Ottavo Secolo avanti Cristo, in pratica alle prime colonie greche. Ma non so se metterlo nel Dizionario, soggiungeva Enrico. Il mio imperativo categorico percorreva la penisola dalla Lombardia alla Calabria: Mettilo, metti, metti tutto, se no si perde!
Ed è con vero piacere che saluto in mezzo a noi un formidabile dallatore della forgia di mio padre, Tito Carioti, ora pensionato delle Ferrovie. Caro Tito, eri appena un ragazzino e già facevi scendere la mazza sull’incudine e Peppe Ruggero di fianco con l’altra mazza. Io guardavo voi due e mio padre e mi sembravate il gruppo della fucina del dio Vulcano che avevo visto in un libro.
Enrico ha intitolato quest’opera Dizionario ma, secondo me, sarebbe stato più giusto aggiungere Enciclopedico, perché nelle sue 1.314 di questa prima edizione sono riportati avvenimenti, personaggi, catastrofi, incendi, alluvioni, terremoti. E poi le arti e i mestieri con tutta la terminologia relativa, dal vasaio alla produzione e tessitura della seta, i nomi dei fondi, i soprannomi con i quali venivano caratterizzate, a volte in maniera rude, persone e famiglie.
C’è per esempio la vicenda della Monachella di San Bruno, nata nel 1875, ritenuta indemoniata all’età di 11 anni, guarita nella Certosa di Serra San Bruno e sempre vissuta a Sant’Andrea fino al 1953. Mariantonia Samà, così si chiamava, visse immobile su un pagliericcio di foglie di mais, sempre sulla schiena e sempre con le gambe rattrappite, per 60 anni (ripeto: sessanta). Era analfabeta e illetterata, orfana di padre prima ancora di nascere, poverissima, e non si mosse mai dal tugurio di 10 metri quadri che era la sua casa. Una vicenda che va oltre il credibile e che testimonia come anche la vita più sfortunata può essere fonte di consolazione e conforto per gli altri.
Un altro personaggio andreolese riportato è Saverio Mattei, nato nel 1742 e morto nel 1795, ministro della Real Casa Borbonica, del quale osservavo lo stemma con leone rampante sul portale della sua casa baronale adiacente a quella di mia nonna paterna, Marianna. Mattei ha impegnato Enrico molto più del previsto, tanto che ha dovuto scrivere un saggio a parte, eccolo, sulle concordanze tra tanta fraseologia della lirica del Manzoni e quella dei Salmi tradotti da Saverio Mattei. In ben 40 pagine, dense di note e raffronti, il nostro autore dimostra che Mattei, cito letteralmente, fu un mediatore insostituibile nella più matura e felice produzione lirica del milanese Alessandro Manzoni. Mattei, giureconsulto e poeta del Millesettecento, dedicò e indirizzò uno dei suoi Paradossi in versi sciolti anche a Cesare Beccaria, nonno del Manzoni, e, per le sue idee illuministiche, fu chiamato il Beccaria del Regno di Napoli. Ma tutto questo non gli giovò. Il figlio primogenito di Mattei, Gregorio, fu impiccato dal Borbone dopo il fallimento della Repubblica Partenopea. E l’altro suo figlio, Luigi, morì bruciato vivo dall’esercito napoleonico al quale Sant’Andrea aveva osato opporre resistenza nel 1806, come il Dizionario riporta narrando il saccheggio e l’incendio del paese con decine di morti.
E non è tutto. Leggendo la traduzione in italiano dei Salmi del Mattei, Enrico notò una rassomiglianza tra alcuni versi dello stesso e altri di Leopardi. Nella prima sala della biblioteca paterna del Leopardi, a Recanati, ci sono i Salmi tradotti in versi italiani di Mattei, che Leopardi aveva studiato. Ne approfitto allora per fare un pubblico incoraggiamento ad Enrico: Dai, dai, scrivi anche il saggio su Mattei e Leopardi! Hai scritto saggi su Catullo, su Saffo, fa’ anche quello su Leopardi!…
A me personalmente sembra che qualcosa dei cieli, delle campagne e dei colori di Sant’Andrea, uno smalto raro e indefinibile, un polline prezioso, è passato nella grande poesia di Manzoni e di Leopardi. Invito perciò i linguisti a esaminare questi scritti che ampliano la visione degli intrecci culturali tra Sud, Centro e Nord Italia, intrecci continuati nel tempo, non limitati alla nascita della poesia stilnovista presso la corte di Federico II in Sicilia.
L’Associazione Milanese degli Andreolesi, (AMA), ha appena celebrato la diciottesima festa di Sant’Andrea, portato in processione sul Naviglio Grande, unica processione che si svolge con statua in Milano. È stato un trapianto culturale avvenuto nel 1992 e voluto da tutta la comunità andreolese che conta circa 600 persone. Ed è stata l’AMA, che ringrazio nella persona del suo Presidente Andrea Corapi, ad organizzare questa presentazione, mentre l’ARA, Associazione Romana Andreolesi, con il suo Presidente Mario Codispoti, ha organizzato a Roma, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, un’altra presentazione il 30 marzo scorso.
Io sono convinto che quest’opera è destinata a durare nel tempo perché riflette la coralità del popolo andreolese: le donne che risalivano cariche di frutta dalla marina, il lavoro dei campi dei contadini, le botteghe artigiane, le stradine dove si aggiravano personaggi strani e un po’ matti, un mondo di gente vera, che adesso è nel gran sonno, ma che è stata la ricchezza autentica della nostra vita.
C’è anche da aggiungere però che mai come adesso Sant’Andrea ha avuto tanta produzione di opere letterarie o scientifiche. E non solo a Sant’Andrea, ma in tutta la Calabria si assiste a un fiorire di riviste, giornali, libri di narrativa, storia, ricerche linguistiche. Questo Dizionario si capisce appieno in questa presa di coscienza di fine di un ciclo storico e di inizio di uno nuovo. Ed è questa presa di coscienza l’unica soluzione possibile ai problemi che da decenni affliggono il Meridione. La soluzione di quei problemi non può essere politica, e tutti gli inutili sforzi fatti dai vari governi lo dimostrano. La rinascita del Sud avverrà attraverso un’autentica rivoluzione culturale, ormai indilazionabile, che coinvolgerà tutta l’Italia, e non solo. Lo andiamo scrivendo e ripetendo da tempo: la nuova civiltà verrà dal Sud perché da lì è già venuta. Rispunterà dalle antiche radici così come dopo l’incendio rinasce la macchia mediterranea.
Quest’opera è nata in quella terra del Golfo di Squillace dove nacque l’Italia. Ricordi, Enrico, quante telefonate ti ho fatto perché trovassi, tra gli autori antichi, il passo che parlava della fondazione dell’Italia? Avevo sentito degli accenni al riguardo in una conferenza all’Università di Heidelberg, e volevo riportarlo nel mio primo libro che stavo scrivendo, Ritorno in Calabria. Finalmente un giorno mi hai telefonato tutto eccitato: L’ho trovato! È nella Politica di Aristotele, libro settimo, capitolo dieci. Re Italo convertì dalla pastorizia all’agricoltura la popolazione della terra compresa tra il Golfo di Squillace e quello di Lamezia e fondò l’Italia con il sissizio, il banchetto al quale tutti partecipavano in segno di amicizia e uguaglianza…

Dall’Italia i sissizi si diffusero in tutto il Mediterraneo, come riporta Aristotele, che per ben sette volte ripete come il valore fondante dell’Italia era l’amicizia, non la politica e nemmeno la religione. Da popoli che si chiamavano morgeti, siculi, mamertini, enotri, bruzi, nacque l’Italia, la Prima Italia, come giustamente la chiama Domenico Lanciano, una nazione che avrebbe guidato il mondo verso un sogno di bellezza e un destino di grandezza. Lo testimoniano due italiani di eccezione quali Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, che a pochi passi da qui vissero e operarono.
Questo Dizionario, a parte il contenuto linguistico e filologico, del quale ci parleranno gli esimi professori, ci riporta con nostalgia e rimpianto a una civiltà contadina avviata irrimediabilmente al tramonto. Quel ricordo appassionato e struggente ha un valore essenzialmente morale ed etico: ci dice, in sostanza che l’umanità, per sopravvivere, ha ancora bisogno di vera amicizia e forte solidarietà che il piccolo grande mondo andreolese seppe così bene elaborare.
Per questo messaggio e per la fatica della compilazione, durata più di trent’anni, ringrazio Enrico a nome di tutte le migliaia di andreolesi sparsi in Italia, nelle Americhe e nel mondo.

Salvatore Mongiardo

ROMA-PRESENTAZIONE DEL DIZIONARIO ANDREOLESE-ITALIANO DI ENRICO ARMOGIDA

Sala della Protomoteca, Campidoglio di Roma, 30 marzo 2009


Gentilissime Signore e Signori,


questo Dizionario è un’opera nata pochi mesi fa, ma è cresciuta così rapidamente che oggi ho il piacere e l’onore di presentarla a voi nel Campidoglio di Roma. Quest’opera è stata concepita e iniziata dall’autore intorno al 1970 con carta e penna e la sua compilazione è terminata al computer nel 2008 dopo circa trenta anni di pazienti ricerche. Nelle 1.300 pagine del Dizionario, ogni parola della lingua andreolese è registrata così come veniva parlata, e in parte ancora viene parlata, a Sant’Andrea Ionio; è tradotta poi in italiano e inoltre spiegata nella sua etimologia greca, latina, araba, o francese, inglese, spagnola. Ci sono poi proverbi, modi di dire, racconti, aneddoti, personaggi famosi o singolari che si muovono tra una folla di contadini, artigiani, preti, monache. C’è anche la descrizione dettagliata dell’arte dei vasai, dei sarti, dei carrettieri, delle tessitrici, dei contadini, con i termini usati per indicare l’arte, gli attrezzi e i processi lavorativi. E rivivono le feste religiose, il culto dei morti, i canti della mietitura, il suono delle zampogne a Natale. Dalle sue pagine balza un mondo variegato che si muoveva secondo le vicende politiche e militari, o secondo le buone e cattive annate dei raccolti.

Andreolese, l’avrete intuito, è l’aggettivo che indica gli abitanti e la lingua di Sant’Andrea Ionio, un paese affacciato sul golfo di Squillace, che fu di circa 5.000 abitanti intorno al 1950 ed è oggi ridotto a circa 2.500 con una predominanza di anziani. Un paese che ha visto più di 500 suoi giovani partecipare alla prima guerra mondiale e altrettanti nella seconda, pagando un grave tributo di sangue. Nel secondo dopoguerra il paese si è svenato con una massiccia emigrazione di migliaia di andreolesi verso gli Stati Uniti, il Canada, Milano e soprattutto qui a Roma, dove vive il nucleo più importante di circa cinquemila persone tra andreolesi originari, figli e nipoti. Tutti i vostri cognomi e soprannomi, carissimi concittadini andreolesi, sono riportati e spiegati nella loro origine, spesso magnogreca, come Betrò, Carioti, Codispoti, Lijoi, Samà.

Per brevità di tempo non posso dilungarmi sull’opera dal punto di vista letterario o filologico, anche perché a me preme indagare le motivazioni profonde che sono all’origine del Dizionario. L’Autore stesso, l’amico Enrico Armogida, ha detto che avvertiva chiaramente la fine di quel mondo andreolese e voleva salvarlo per le generazioni future. E non c’è dubbio che l’Autore abbia compiuto questo spettacolare salvataggio in extremis per l’amore che porta a persone, luoghi, cieli e campagne della sua infanzia e della sua vita: in ogni pagina dell’opera è vivo il rimpianto per quel mondo definitivamente avviato sul viale del tramonto. L’autore ne è lucidamente cosciente e sembra rassegnato in alcune pagine, ma poi in altre pagine il rimpianto sale di intensità fino a diventare inconsolabile.

Ho voluto allora riflettere sul fenomeno del rimpianto, cosa che tutti temono tanto che si dice comunemente: meglio rimorsi che rimpianti, mai avere rimpianti! Invece, stimolato da quest’opera, sono arrivato alla conclusione che il rimpianto è una delle grandi risorse dell’uomo perché richiama verso una situazione del passato per indicare fenomeni non ancora compresi. Il rimpianto che emana da questo Dizionario è come il segnale di un contatore Geiger che indica un tesoro nascosto nel mondo andreolese. Ma è possibile che un paese della Calabria possa nascondere un tesoro? Cercando una risposta a questa domanda, ho sfogliato il Dizionario alla parola mara, il glauco Mare Ionio sul quale si affaccia il paese. Il Dizionario, a proposito di mare, racconta di pagliai rivestiti di canne, rami di pioppo o ginestre profumate, dove gli andreolesi passavano l’estate per godere i bagni e l’aria di mare in serenità e amicizia. E parla anche di piccoli capanni di frasche per le galline, per il focolare, per far svestire le donne sulla battigia: u pojjharìaddhu ’e l’unda, si chiamava in andreolese. U mara non era nemmeno lontanamente il mare pieno di navi da guerra che Pompeo e Cesare, Augusto e Marco Antonio armarono per lottare gli uni contro gli altri seminando rovina.

Continuando nella mia indagine, ho visto che il Dizionario contiene la biografia di personaggi di Sant’Andrea come lo scrittore e poeta Saverio Mattei nel Millesettecento, e la Monachella di San Bruno, per la quale il 2 marzo 2009 è stata chiusa l’istruttoria del processo per la beatificazione. Il suo nome era Mariantonia Samà, nata nel 1875 a Sant’Andrea, dove è sempre vissuta ed è morta a 80 anni circa nel 1953. Il Dizionario racconta la straordinaria vicenda, all’apparenza minuscola, che si intreccia con Papa Leone XIII, presso il quale la baronessa Enrichetta Scoppa venne da Sant’Andrea per ottenere il privilegio di visitare la Certosa di Serra, sempre vietata alle donne. La baronessa maturò così il progetto di portare con la sua lettiga la piccola Mariantonia a Serra, dove fu guarita.

Se ho decifrato correttamente il segnale del rimpianto del mondo andreolese, il Dizionario sembra voler dire che la grande storia, quella del potere, delle guerre, della politica, non aiutano più di tanto l’uomo a vivere, anzi spesso lo danneggiano con il loro carico di violenza e sangue. Al contrario, la storia minuscola dei contadini e dei pagliai andreolesi riusciva a dare più qualità alla vita perché quel popolo viveva con una forte tensione etica, come testualmente riporta l’Autore. C’era insomma un orizzonte alto che aiutava gli andreolesi a non rimanere schiacciati dal peso della vita, che spesso fu difficile e al limite dell’impossibile, con gravi ingiustizie sociali, analfabetismo, povertà e fame che portarono all’emigrazione di massa.

Quel mondo andreolese ci permette di capire che la decadenza di Sant’Andrea, della Calabria e del Meridione è un problema di natura etica, non un problema di natura politica, e ciò spiegherebbe perché i tentativi della politica non l’hanno potuto risolvere. I greci chiamarono il Meridione Magna Grecia, come scrivono Giamblico e Porfirio, non per la ricchezza delle città e dei commerci, ma per l’altezza del pensiero e l’onestà di vita che Pitagora diffuse nelle nostre contrade calabresi. E parliamo della stessa terra dove Italo fondò l’Italia non su base politica, ma sullo spirito di amicizia, come riporta testualmente e ripetutamente Aristotele nella sua Politica.

Al mondo odierno, carico di paure e angosce per il domani, il mondo andreolese manda a dire da questo dizionario che la vita è difficile oggi come fu difficile a Sant’Andrea. Che però un orizzonte alto dentro l’anima andreolese, aiutava a vivere meglio e a morire serenamente. Quell’orizzonte però non si apriva per caso, ma era frutto di una forte passione per la vita, che era vissuta secondo regole ben precise, come spesso l’Autore ricorda. Quell’orizzonte cioè si apriva con la fedeltà incondizionata tra sposi, parenti e amici, con l’onestà e l’onore di vita e con la fiducia in Dio, che sovrastava e guidava tutti gli avvenimenti grandi e piccoli.

Concludo con una riflessione. Le prime pagine di questo Dizionario furono scritte all’incirca quando vennero scoperti i Bronzi di Riace. A me sembra che ci sia una specie di legame tra i due avvenimenti. Allora l’archeologia sottomarina restituì dalla Calabria statue di sublime bellezza. Ora, questo Dizionario, con una esplorazione dell’anima andreolese, porta alla luce le regole d’oro che aiutarono i calabresi a vivere. Quelle regole, a mio modo di vedere, possono essere ancora oggi un riferimento valido per chi è alla ricerca di nuovi assetti e stili di vita.


Salvatore Mongiardo

mercoledì 20 gennaio 2010

BUE DI PANE PITAGORICO


BUE DI PANE PITAGORICO
Simbolo della fine di ogni uccisione
offerto nel Sissizio di Badolato il 23 agosto 2009

Salvatore Mongiardo
VIAGGIO A GERUSALEMME
LA FINE DELLA VIOLENZA

LEGGETE QUESTO MIO LIBRO DISPONIBILE GRATUITAMENTE NEL MIO BLOG E ANCHE IN RETE
La versione inglese è: JOURNEY TO JERUSALEM

Edizioni Città del Sole
mongiardosalvatore@gmail.com - Cell.+39 348 78 20 212

lunedì 18 gennaio 2010

IL FORGIARO E LA SIBILLA

A Sant’Andrea si dice ancora oggi: O nterra catta o rina misa, o è caduto per terra o ha messo sabbia. L’espressione indica che una certa situazione si spiega con una tra due possibili alternative: o è l’una o è l’altra. Questo modo di dire deriva dalla saldatura del ferro, che da bambino guardavo fare nella forgia di mio padre. All’epoca, tra il 1945 e il 1950, doveva ancora arrivare la placca, un prodotto industriale che facilitava la saldatura. La saldatrice a ossigeno e quella elettrica sarebbero poi venute nel corso degli anni Cinquanta.
Prima dell’arrivo della placca, per saldare un pezzo di ferro a un altro, per esempio allungare una zappa consumata con l’uso, bisognava procedere così. Si scaldavano alla fucina la zappa e il pezzo da aggiungere fino a farli diventare rossi, si sovrapponevano i lembi dei due pezzi e si battevano con la mezza mazza, il maglio, fino a farli incollare. Questo procedimento in metallurgia si chiama estrusione, ma aveva un nemico, l’aria, che poteva rimanere tra i due pezzi e rendeva difettosa la saldatura. Chissà come e chissà quando, si era capito che la sabbia messa tra i due ferri caldi migliorava la saldatura. La sabbia difatti si scioglieva al calore schiumando e impediva all’aria di rimanervi. Ricordo che nel 1945 -avevo quattro anni- durante le vacanze di mare mio padre raccoglieva sulla spiaggia la sabbia più fine, la metteva in cartocci lunghi e poi la usava nella forgia per la saldatura.
In verità mio padre aveva cercato un sistema più moderno della sabbia e lo aveva trovato nel paese di San Vito, dove era andato a suonare con la banda musicale. Aveva letto che per una buona saldatura era opportuno usare la prussiata di potassio. Si fece coraggio e chiese il prodotto al farmacista che lo ascoltò incredulo. Poi però consultò un gran libro e disse: Un ragazzino forestiero doveva insegnarmi la chimica! E gli confezionò una scatoletta di preparato che mio padre usò al posto della sabbia.
Nei tempi antichi non si era capito bene il ruolo della sabbia e si pensava che, per una buona saldatura, bastava buttare a terra il ferro come alternativa alla sabbia, quasi un rito di unione alla Madre Terra. Mio padre, per non deludere gli spettatori che stavano davanti alla sua incudine, buttava a terra il ferro appena saldato e tutti ripetevano: O nterra catta o rina misa! La dolcissima nonna Marianna, madre di mio padre, raccontava questa storia che spiegava la conquista della saldatura:

…una volta i forgiari - così si chiamano i fabbri in Calabria - erano messi male perché non sapevano come saldare il ferro. La Sibilla conosceva il segreto, ma non lo voleva rivelare a nessuno. C’era però un fabbro che un giorno pensò: Adesso so io come appurare il segreto! E mandò un suo discepolo per le vie del paese a gridare: Il mastro mio ha saldato il ferro, il mastro mio ha saldato il ferro! La Sibilla udì la nuova, aprì la finestra ed esclamò arrabbiata: O nterra catta o rina misa! E così svelò il segreto.

Salvatore Mongiardo

ORIGINE DEI BRONZI DI RIACE

Ho letto con attenzione il bell’articolo di Gaetano Errigo sul N° 18-19 di Lettere Meridiane, pubblicazione dell’amico Franco Arcidiaco, che mi piace sempre di più. Vorrei al riguardo far notare un aspetto che non è stato finora preso in considerazione, e che invece può far calare decisamente la bilancia dell’originarietà dei Bronzi a favore di Caulonia.
Questa prova, viva ancora oggi, è il culto a Riace dei santi cristiani Cosma e Damiano, i due fratelli medici. A Riace in loro onore si tiene una grande festa dove convergono molti zingari e che Vittorio De Seta ha magistralmente rappresentato nel lungometraggio del 1993 In Calabria. Detto tra parentesi, la chiesa dei due Santi è meravigliosamente affrescata da Zimatore e Grillo, pittori calabresi degli anni Trenta, un gioiello da non perdere!
Il culto di due santi assieme, come Cosma e Damiano, è un fenomeno conosciuto nella storia delle religioni e viene definito “paredrismo”. Non cercate la parola nei vocabolari perché non la troverete: viene usata solo dagli storici delle religioni. Potete però vederne la spiegazione cercandola su Wikipedia, che la illustra abbastanza bene:
Paredro: Dal greco pàredros da parà, a fianco e èdra, seggio. Il Rocci riporta: “che sta vicino, appresso; che sta in secondo posto, inferiore, assistente, compagno, associato, collega, ausiliare, assessore”. In questo termine è contemplato anche il significato di affiancamento e sussistenza. Paredro si dice di una divinità associata nel culto ad un'altra di maggiore importanza e solitamente di sesso differente.

In questo senso si può guardare anche al culto a Roma dei Santi Pietro e Paolo, che rappresentano la successione cristiana dei fondatori Romolo e Remo. Cioè, i cristiani convertiti non volevano essere da meno dei pagani che avevano due protettori. Allora i Bronzi potrebbero essere Castore e Polluce o due eroi eponimi di Caulonia.
L’ipotesi che siano opera di Pitagora di Reggio, tanto famoso che fu chiamato a fondere bronzi in Grecia, è corroborata dall’Enciclopedia TRECCANI nella prima edizione del 1935, ben prima che i Bronzi fossero scoperti. Basta aprirla e guardare la statua di bronzo riportata accanto alla voce Pitagora di Reggio. Sembra la foto di uno dei due Bronzi. Guardare per credere.
Inoltre, la scoperta nei fondali di Riace potrebbe indicare che le due statue furono mal caricate, o il carico sabotato dagli abitanti di Caulonia, nel tentativo dei Romani di portarle via per punire gli abitanti del loro schieramento a favore di Annibale, o più semplicemente perché erano troppo belli.

Cordiali saluti paredrici.
Salvatore Mongiardo

domenica 17 gennaio 2010

RISPOSTA A EUGENIO SANGREGORIO SUL PROCLAMA DI ROSARNO

Risposta all’amico Eugenio Sangregorio sul PROCLAMA DI ROSARNO

Carissimo Eugenio,
dove sei, in Italia o Argentina? Mi fa enorme piacere sentirti e sapere che mi hai divulgato su www.italiachiamaitalia.net che ho guardato e apprezzato. Caro Eugenio, tu sai che sono venuto in Argentina a parlare ai circoli calabresi predicando, di fronte a uditori allibiti, che la nuova civiltà del mondo verrà dalla Calabria. I fatti di Rosarno mi hanno confermato in questa mia convinzione, se c'era bisogno. Il tuo rimprovero di essermi vergognato di essere calabrese lo accetto come un segno di affetto e anche di preoccupazione che io non ami più la Calabria. La verità è che l'amore per la nostra terra è stata la bussola della mia vita, come scriveva il Professor Piromalli riportandomi nella sua STORIA DELLA LETTERATURA CALABRESE. Io non amo, ma ardo e brucio d'amore per la mia terra. Anche l'amico andreolese Aldo Dominijanni mi muove lo stesso rimprovero, e Aldo è stato presente a più di un sissizio. Forse non mi sono impegnato abbastanza per la Calabria, questo rimprovero l'accetto, anche se i sissizi, i miei libri, e le conferenze che tengo in giro parlano sempre di Calabria. Certo, quando ho visto in TV le scene di Rosarno mi sono vergognato, e quella vergogna ho espresso nel mio PROCLAMA. Caro Eugenio, caro Aldo, so bene che la stragrande maggioranza dei calabresi sono persone oneste che non solo devono sopportare la criminalità, ma vengono pure rappresentati come se fossero delinquenti! Sono loro i veri eroi della resistenza, disconosciuti e criminalizzati. La politica non è mai intervenuta e ha abbandonato la Calabria e il Meridione allo sbando. Ma io ho una visione molto precisa del nostro destino. Il Meridione sta pagando il tradimento degli antichi dèi greci da quando è passato al cristianesimo. Questo è una delle tre religioni mediorientali, con ebraismo e islam, che dicono la stessa cosa: l'innocente muore perché il colpevole si salvi. Sono religioni nate in terre aride dove era possibile solo la pastorizia con il conseguente sgozzamento dell'agnello. Da quella violenza sanguinaria è stato risucchiato lo stesso Gesù, del quale tutti vogliono bere il sangue pur di salvarsi. L'innocente viene ucciso e il colpevole si salva: è nata la mafia! Viene ripetuto ogni giorno in ogni chiesa nella messa, ma nessuno se ne è accorto! Io sono stato il primo a predicare nei boschi della Calabria che non dobbiamo accettare il sangue dell'innocente, che dobbiamo togliere Cristo dalla croce e invitarlo con noi a sedere a tavola nel sissizio. Questa nuova visione è nata dalla Calabria e dal mio smisurato amore per mio padre, mia madre, tutta la nostra gente criminali inclusi, disperati che hanno bisogno di essere liberati dalle loro tremende catene. Un destino grandioso aspetta tutti i calabresi sparsi nel mondo e li chiama a raccolta per dare umanità a un mondo che ha perso mente e cuore. La loro emigrazione dolorosissima sarà sanata, le ferite guarite, i sacrifici largamente ricompensati. Non saranno preti e politici a ridare dignità al Meridione: saremo noi a creare la nuova frontiera dello spirito. Invito tutti a leggere il mio Ritorno in Calabria e il Viaggio a Gerusalemme, gratuiti in rete. Il Ritorno anche in tedesco e il Viaggio anche in inglese. Come pegno di questa stupenda profezia vi mando in allegato il mio breve PERCHÉ' LA VIOLENZA. Re Italo, Pitagora, Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, San Francesco di Paola, Campanella, Telesio, Io e Voi siamo i veri ricchi, depositari delle più grandi energie morali e mentali della storia. E' giunta l'ora di prendere coscienza del nostro alto destino, armarsi di coraggio e costruire la nuova CIVILTÀ SISSIZIALE. Il Bue di Pane Pitagorico vincerà e lascerà vivo l'Agnello di Dio: toglieremo Gesù, l'umanità e noi stesi dalla croce. Avanti Calabria!
16 gennaio 2010 Salvatore Mongiardo

giovedì 14 gennaio 2010

PROCLAMA DI ROSARNO

IN DIFESA DEGLI AFRICANI

Figli della Gran Madre Africa,

ho visto in TV le immagini dei posti dove siete stati costretti a vivere a Rosarno e, per la prima volta in vita mia, mi sono vergognato di essere calabrese. Non pensavo che la mia terra, di grande ospitalità e dignità, potesse cadere così in basso! La Calabria nei millenni ha accolto tutte le popolazioni che sono arrivate alle sue sponde: fenici, greci, ebrei, longobardi, bizantini, normanni, aragonesi, spagnoli, occitani, valdesi, albanesi e più recentemente curdi, cinesi, ucraini…

Nel mio libro Ritorno in Calabria, uscito nel 1994 e ora gratuito in rete, avevo scritto alla fine del capitolo 28:

…vidi al lato della strada litoranea due giovani africani che avanzavano a piedi, alti e scuri. Mi sembrò di aver già visto quella scena e cercai di ricordare dove… Ma certo! Somigliavano ai due Bronzi di Riace, anche loro alti e scuri. Mi venne uno strano presentimento, misto a emozione e speranza. Bronzi millenari emergevano dal nostro mare e popoli d’Africa arrivavano nei nostri paesi in cerca di un futuro migliore. Cose grandi ed arcane stavano succedendo! Forse gli antichi dèi, ai quali il Sud fu tanto caro, si erano ricordati della Calabria e stavano tornando tra noi?

Voi siete venuti in Italia per cercare una vita migliore, e avete trovato disprezzo e sfruttamento. Eppure la scienza insegna che l’umanità ha avuto origine in Africa: lì è nato l’uomo e da lì ha iniziato a migrare per il nostro pianeta!

In tutti i miei scritti ho sostenuto che la nuova civiltà del mondo, la Civiltà Sissiziale, verrà dalla Calabria dove l’Italia è nata, e la vostra rivolta mi dice che è giunto il grande momento! Non crediate di essere soli. Io sono l’onore e la grande anima filosofica della Calabria e vi ringrazio di essere venuti da lontano per portarci il fiore dei vostri giovani anni!

Vi chiedo perdono per come siete stati trattati e, più che fratello, mi considero vostro padre per i miei bianchi capelli: perciò mi unisco a voi per dare umanità al mondo che diventa disumano ogni giorno di più.

Il mio cuore, la mia penna, la mia mente, sono e saranno sempre con voi per il vostro pane, la vostra dignità, il vostro e nostro onore!

Evviva l’Africa libera, evviva l’Italia libera!
Milano, 13 gennaio 2010
Salvatore Mongiardo