sabato 11 gennaio 2025
sabato 14 dicembre 2024
Cade la sera di don Ciccio Laugelli
Cade la sera
Cade la sera, un velo di
tristezza
cade nel cuore, come fatto
fosse
di queste foglie penzolanti
rosse
all’invernale brezza.
Il tuo paese è là, sotto una
lieve
coltre di fumo azzurro,
presso i monti
che ancora bianche levano le
fronti
di cumuli di neve.
Valica la distanza sconfinata
l’occhio che di te sola ama
saziarsi,
e ti ritrova coi capelli
sparsi
sulla fronte, chinata
al sogno, nel silenzio. Un
sol sentiero
forse nell’ombra noi
battiamo, inverso:
e si congiunge nel buio
universo
il tuo col mio pensiero.
Sublime poesia composta da
don Ciccio Laugelli (intorno al 1960?) e indirizzato a una donna sconosciuta.
Salvatore Mongiardo, dicembre
2024
sabato 7 dicembre 2024
A Maria, di don Ciccio Laugelli
A Maria
O Maria Immacolata,
che eccelsa levi al cielo
la tua fronte stellata
ed il candido velo,
s’alzi il grido profondo
del tuo amore materno
in quest’ore d’inferno
scatenato nel mondo.
Dacci giorni di pace:
Dio giammai si dinega
al tuo cuore che prega,
al tuo labbro che tace.
Nella gelida sfoglia
dell’inverno che torna
sii la rosa che foglia
e l’aurora che aggiorna.
Stupenda poesia del mio
indimenticabile maestro don Ciccio Laugelli, scritta l’8 dicembre 1975.
Salvatore Mongiardo
8 dicembre 2024
lunedì 14 ottobre 2024
S: Mongiardo- Lettera ai Calabresi per la pace nel mondo
S. Mongiardo-Lettera ai Calabresi per la pace nel mondo
Care Amiche e cari Amici,
io sono nato nel
1941 in Calabria da genitori e progenitori calabresi. Ho passato l’infanzia e
la gioventù sulla costa jonica catanzarese; poi cinquanta anni tra studi e
incarichi manageriali in Sicilia, Roma, Germania, Francia, Sardegna e un
periodo di trenta anni a Milano. Nel 2013 ho lasciato per mia libera scelta Milano
per tornare in Calabria, a Soverato, città vicina al mio paese natale,
Sant’Andrea Jonio. Quel ritorno era preannunciato nel mio primo libro Ritorno
in Calabria (1994), del quale il Prof. Antonio Piromalli ha
scritto ne La Letteratura Calabrese (L. Pellegrini Editore) alle pagine
341 e 342:
La natura di Mongiardo è seriamente utopistica (ripresa della grande tradizione culturale naturalistica della Calabria e religiosità umana e universale) …
Il romanzo di Mongiardo è molto importante anche perché assegna
alla Calabria una funzione storica nel futuro… L’opera di Mongiardo è
ideologicamente geniale. L’autore, dopo un viaggio in America per ritrovare
parenti emigrati da molto tempo e custodi dell’immagine di una Calabria aspra e
difficile, comprende lo sforzo da lui fatto per sfuggire la Calabria, quella
del ‘’buco nero che aveva spento’’ il lui la gioia di vivere e decide di
scrivere.
Riporto lo scritto del Prof. Piromalli non per orgoglio o vanagloria, che non fanno parte del mio carattere, ma perché quel giudizio mi ha aiutato a capire me stesso e a farmi ritornare in Calabria, una decisione che lasciò sgomenti i miei amici, i quali mi vedevano come uno sconsiderato che ritorna in un posto carico di problemi. In effetti, gli ultimi dieci anni passati in Calabria sono stati faticosi per lo studio, la ricerca e la scrittura di quella storia della Calabria sconosciuta a tutti, anche agli stessi Calabresi, ignorata dalla storiografia tradizionale. Le mie ricerche hanno portato alla luce una visione completamente nuova della Calabria, che vi voglio brevemente raccontare.
La storia sconosciuta della Calabria
Normalmente si
ritiene che la storia della Calabria sia cominciata con la colonizzazione
greca, ma non è così, perché l’Homo Sapiens abitava in Calabria da diecine di
migliaia di anni prima dell’arrivo dei Greci. Per fare un esempio, l’Università
di Firenze ha rinvenuto sepolture risalenti al 22.500 a.C. dentro la Grotta
del Romito a Papasidero (CS).
Intorno al 10.000
a. C., quando si sviluppò l’agricoltura, la Calabria era abitata da popolazioni
che non avevano armi e vivevano in pace in vari villaggi. Facevano parte di
quell’Antica Europa, come l’ha chiamata la famosa antropologa
lituana-americana Marija Gimbutas, i cui abitanti furono
chiamati gilanici dall’altra grande antropologa austriaca-americana, Riane
Eisler. Col termine gilanico lei intendeva un popolo libero e pacifico, guidato dalle donne e
dedito all’agricoltura. Quel periodo fu cantato dai poeti come Età
dell’Oro, quando i popoli vivevano felici, non c’era bisogno di leggi e
la comunità provvedeva a tutti i bisogni.
Oggi possiamo affermare che quella non fu un’epoca mitica immaginata
dai poeti, ma era semplicemente il ricordo di un lontano tempo felice. Gli
archeologi hanno stabilito che le popolazioni gilaniche vivevano in pace, analizzando i
resti dei villaggi, dove non c’erano fortificazioni né sono state trovate armi
nelle tombe o scheletri con ferite riconducibili a battaglie. Non vi erano nemmeno
grandi differenze tra le classi sociali e le sepolture a inumazione erano molto
simili, come se non ci fossero ricchi e poveri.
L’invasione indoeuropea
Intorno al 4.000
a. C., dalle steppe dell’attuale Russia meridionale mossero alla conquista
dell’Europa e dell’India - motivo per cui sono chiamati Indeuropei - popoli delle
steppe che avevano addomesticato i cavalli selvaggi che cavalcavano, e avevano fatto
armi col rame che affiorava in pepite lungo i fiumi. Quegli Indoeuropei
sottomisero l’Antica Europa, l’India e una vasta area intorno al Medio Oriente,
con invasioni a varie ondate cui nessuno poteva resistere. Il loro dilagare è
ricordato dal mito greco dei centauri, esseri violenti per metà guerrieri e per
metà cavalli. Anche dal cavallo di Troia in fondo afferma che senza cavallo non
si può vincere una guerra. Quelle invasioni durarono un paio di millenni e
sottomisero tutto il Nord Europa, salvo una parte dell’Italia Meridionale, tra
cui la Calabria. La Gimbutas chiamò quegli invasori Kurgan, dal nome della città russa della Siberia sudoccidentale,
a circa duemila km a est di
Mosca. Attorno a quella città lei
trovò molte tombe a cumulo, nelle quali venivano sotterrati i capi morti
assieme ad alcuni giovani scelti e servi che dovevano accompagnarlo
nell’aldilà. Le torture, i sacrifici umani, la schiavitù delle donne praticati
dai popoli Kurgan raggiunsero livelli di ferocia e crudeltà inaudite.
L’etica gilanica sopravvisse in Calabria, mentre tutta
l’Europa incluso Centro e Nord Italia furono sottomesse dagli Indoeuropei. Le differenze
tra Nord e Sud Italia si fanno risalire all’annessione del Sud al Piemonte, ma
in realtà esse sono vecchie di migliaia di anni e sono profonde perché derivano
da etiche diverse. La Calabria resistette più a lungo all’espansione
indoeuropea perché difficile da raggiungere via terra a causa delle foreste
della Sila, popolate da orsi e lupi. Poi, intorno al 1700 a. C., la Calabria fu
colonizzata da greci venuti dal mare, tra cui gli Enotri, dalla cui stirpe nacque
Italo, il fondatore dell’Italia, come vedremo più avanti. Tanto afferma lo
storico greco Dionigi di Alicarnasso (60-7 a. C.), che scrisse di una
colonizzazione arcaica, avvenuta diciassette generazioni (circa 500 anni)
prima della guerra di Troia (1200 a. C.).
I Greci della colonizzazione classica, invece, quella da
tutti conosciuta, arrivarono circa mille anni dopo, intorno al 700 a. C., e fondarono
varie poleis tra cui Taranto, Sibari, Kroton, Locri e Reggio. I fondatori greci
delle varie colonie sparse nel Mediterraneo discendevano da quegli Indoeuropei
che avevano conquistato la Grecia con armi e cavalli: ciò e confermato dal
fatto che alcuni Greci del ceto dominante come Achille, Menelao ed Elena era
biondi, come riporta Omero.
Si direbbe di sì, ma, se guardiamo a
quanto emerge dalle mie ricerche, la risposta cambia a seconda di cosa
intendiamo per civiltà. Se la intendiamo come arte, templi, colonne,
navigazione, commercio e lingua, la risposta è sì, anche perché la stessa lingua
italiana proviene dal latino, il quale è di origine indoeuropea come il greco,
il tedesco, l’inglese e altre lingue ora in uso.
Se invece definiamo la civiltà come benessere sociale e gioia
di vivere derivanti dall’assenza di competizione, guerre, schiavitù e violenze,
la risposta è che la colonizzazione greca segnò l’inizio di una decadenza
inarrestabile per la Calabria.
I coloni non
portavano con sé le donne, che non potevano remare, e sposarono donne del
posto, che da sempre erano libere e continuarono a vivere libere anche da sposate
con i coloni. Nello stesso periodo, le donne in Grecia vivevano chiuse nel
gineceo, che non era un lussuoso quartiere loro riservato, ma il sottotetto
della casa, nel quale esse partorivano, tessevano, cucinavano, conducendo una
vita così misera che spesso per disperazione si impiccavano a una trave del
tetto. A Crotone non c’erano schiavi e a Locri, nelle Tavole di Zaleuco del VI secolo
a. C., la prima legge scritta in greco di tutto l’Occidente, Grecia inclusa,
diceva:
Ai Locresi non è consentito
possedere né schiavi né schiave.
Le Tavole di Zaleuco sono di fondamentale importanza perché
testimoniano che la libertà italica fu riconosciuta come norma da una polis
greca. Si può dire allora che la libertà delle persone e dei popoli è arrivata dalla
Calabria ai confini della Terra dopo un lungo travaglio di venticinque secoli.
I Greci si riempivano la bocca e morivano anche per la libertà, ma lo facevano
per la libertà loro e delle loro famiglie, non certo per gli schiavi e le
schiave che c’erano in Grecia. Questa ambiguità dell’etica greca è testimoniata
da due filosofi ritenuti i più grandi dell’umanità: Platone e Aristotele. Platone conosceva benissimo la Magna Grecia,
dove vigeva la libertà di tutti, perché egli aveva frequentato per sette anni
la Scuola Pitagorica di Crotone, riaperta nel 444 a. C. per volere di Pericle:
in quella Scuola la libertà era il fondamento dell’etica. Platone tuttavia
affermò che… gli schiavi erano necessari,
altrimenti chi avrebbe fatto i lavori? Aristotele andò oltre, sostenendo
che l’etica doveva essere stabilita dai politici!
L’etica di quei due cattivi maestri, ricchi e di buona famiglia, era
esattamente contraria a quella praticata dai pitagorici.
Nelle opere degli antichi autori greci e romani, come anche
negli usi e nei costumi dei popoli preitalici e italici, ci sono riferimenti
chiari a questo popolo. In sintesi possiamo dire che i Lacini abitavano tutto
il Golfo di Squillace e l’entroterra, da Locri a Capo Lacinio vicino a Crotone,
e soprattutto l’altipiano fertile della Lacina, così chiamata ancora oggi, sito
tra Serra San Bruno e la costa jonica. Per maggiori dettagli di questa mia
ricerca, guardate il documento allegato:
https://drive.google.com/file/d/16pkubx65S0eP0FHP1vAG4eWevBaL7Laa/view?usp=sharing
I Lacini erano un popolo gilanico che da millenni abitava la Calabria, la quale, a partire dai Greci, ha subito venti occupazioni e dominazioni straniere: 1 - i Greci; 2 - Alessandro il Molosso, re dell'Epiro; 3 - suo nipote Pirro con gli elefanti; 4 - i Bruzi; 5 - i Siracusani con Dionisio; 6 - i Cartaginesi con Annibale, acquartierato a Capo Lacinio per otto anni; 7 - Spartaco con gli schiavi; 8 - i Romani; 9 - Alarico con i Goti; 10 - i Longobardi; 11 - gli Arabi; 12 - i Bizantini; 13 - i Normanni; 14 - gli Svevi; 15 - gli Angioini; 16 - gli Aragonesi; 17 - gli Spagnoli; 18 - i Borboni; 19 - i Francesi; 20 - i Piemontesi.
La Calabria,
però, non ha mai fatto guerra a nessuno, una particolarità che Fra
Salimbene da Parma (1221-1288), seguace di San Francesco d’Assisi
nell’abito ma non nel cuore, attribuì a viltà, perché non erano insorti in armi
contro i Normanni. In realtà i Calabresi non avevano e non hanno la guerra
nell’anima, a differenza degli altri abitanti dell’Italia di origine indoeuropea,
come i Latini, gli Etruschi e i Galli.
La nascita dell’Italia
Lo storico
Antioco di Siracusa nel V sec. a. C. scrisse della Prima Italia (Prote Italìa),
nata nell’istmo Squillace-Lamezia intorno al 1500 a. C. Non dobbiamo pensare
che l’Italia sia nata confinata dentro l’Istmo, ma in un territorio più ampio
di cui l’Istmo costituiva l’asse mediano. Ciò è avvenuto a causa del clima più
piovoso per lo scambio termico dei venti che attraversano e temperano l’Istmo
attraverso la Gola di Marcellinara: il ponente da ovest e lo scirocco da sud,
per cui si potrebbe dire che l’Italia è
figlia del buon vento. Ciò ha generato il fenomeno raro della
fruttificazione perenne: ancora oggi non c’è in quella zona un solo mese senza
frutti.
D’altra parte, le
minuziose ricerche condotte dal tedesco Prof. Armin Wolf nel suo
importante libro Ulisse in Italia (2021),
dimostrano che la Terra dei Feaci, narrata da Omero nell’Odissea, è quella vicino
al fiume Làmetos, che sbocca nel Tirreno all’altezza dell’odierna Lamezia. Lì
vicino viveva un popolo di Enotri, arroccati nell’odierna cittadina di Tiriolo
(CZ), da dove si vedono i due Mari Jonio e Tirreno, come espressamente riporta
lo stesso Omero.
Chi era Italo
Tutti gli storici
antichi concordano che Italo era uno degli Enotri della
colonizzazione arcaica, il quale doveva essere figlio di un greco enotrio e di
una donna del posto. Italo apparteneva dunque a due parentele e a due culture,
la greca e la locale, e non gli fu difficile capire che le armi non creavano
benessere, mentre i locali vivevano nell’abbondanza con i raccolti
dell’agricoltura. Perciò egli decise di unire i suoi Enotri ai preitalici, che
io ritengo soprattutto Lacini, creando i sissizi (da syn-sitein, mangiare insieme), banchetti comunitari ai quali gli
Enotri portavano il vino e i Lacini il pane. I sissizi erano dunque banchetti
per unire due popoli, sissizi che poi Italo allargò, unendo con la persuasione,
e a volte con la forza, i popoli circonvicini, ai quali diede il suo nome: Italìa, Italia.
Il termine italo
si trova sia in latino: vitulus, che in greco: ìtalos.
In ambedue le lingue, il termine significa giovane toro, torello, animale totemico
dei Lacini. Quel nome era anche dato a maschi greci e a maschi romani come
Vitellio, nome che fu anche di un imperatore. Ai tempi della colonizzazione classica
poi, furono chiamati Italioti i nati da coloni greci e da
donne italiche, che a loro volta erano nate dall’unione degli Enotri e altri
coloni con i Lacini e altri popoli autoctoni.
Ovviamente la
grande maggioranza della popolazione attorno all’Istmo era di origine lacina o
comunque locale, per cui il modo di vivere, l’etica, rimase sostanzialmente
quella neolitica. I coloni greci dovettero adattarsi a quell’etica, ma non
rinunciarono alle loro armi e alle guerre che tanto amavano, e combatterono
molte guerre tra le poleis, come fece Crotone contro Locri e Sibari, che
distrusse nel 510 a. C.
In quello
scenario complicato sbarcò a Crotone un ragazzino di forse dodici anni di nome
Pitagora, venuto dall’isola greca di Samo con suo padre Mnesarco, che produceva
e vendeva sigilli per anelli incisi su pietre dure o preziose, molto richiesti
dai ricchi coloni. Pitagora rimase colpito dal clima di libertà di Crotone e,
tornato in patria, si dedicò per cinquanta anni allo studio e ai viaggi in
Grecia, Siria, Libano, Israele, Egitto e Mesopotamia. Alla fine, però, decise
di voler vivere in un posto dove la dottrina da lui elaborata fosse ben
accolta, e nel 530 a. C., all’età di circa sessanta anni, ritornò a
Crotone.
Nascita della Magna Grecia
La mente di
Pitagora aveva grande capacità di analisi e sintesi e nei suoi lunghi soggiorni
tra i popoli stranieri egli cercò di capire quale fosse il miglior modo di
vivere. Era così arrivato a delle conclusioni originali e coniò il termine di filosofia,
amore per la sapienza, che per lui non era un insieme di nozioni astratte, ma qualcosa
che dava
sapore alla vita, aiutava a vivere bene. Perciò diceva: L’uomo
è a sé stesso causa del proprio bene e del proprio male: tutto
dipendeva dall’agire umano.
Io ho chiamato la sintesi della sua dottrina Il Pentalogo di Pitagora, costituito da cinque principi, immutabili come le regole della matematica e della geometria, che ho sintetizzato così:
Felicità + Pace =
Libertà + Amicizia + Comunità di vita e di beni + Dignità della
donna + Vegetarismo.
Al suo arrivo a Crotone, Pitagora fu accolto con grandi onori ed ebbe molti seguaci, ma la comunità di vita e di beni che egli voleva attuare, esigeva che i ricchi si spogliassero delle loro ricchezze, cosa che non piaceva affatto alla classe abbiente di Crotone. Porfirio, il filosofo molto apprezzato del III sec. d. C., lo stesso che scrisse le Enneadi del suo maestro Plotino, scrisse una Vita di Pitagora fortunatamente giunta fino a noi, nella quale egli scrisse di duemila barbari che con i loro capi, donne e bambini vennero dai villaggi circonvicini per ascoltare Pitagora a Crotone. La parola barbaro indicava uno che parlava una lingua sconosciuta, balbetta.
Con loro meraviglia, quei barbari Lacini, forse aiutati da nipoti o parenti italioti che facevano da traduttori, si sentirono dire dal più famoso sapiente dei Greci che il modo di vivere giusto era quello che loro stessi praticavano. Elessero allora Pitagora loro legislatore e decisero di non fare nulla al di fuori di quanto egli comandava. Costruirono un nuovo villaggio sulla collinetta di Laureta che arriva al mare, sita tra Crotone e Capo Lacinio, dove ebbe sede la sua Scuola e dove Pitagora visse tra i Lacini assieme ai suoi allievi, giovani uomini e donne, venuti da Crotone e anche da lontano. Scrisse Porfirio che il nome di Magna Grecia dato a quell’Italia non derivava dallo splendore delle poleis né dall’abbondanza dei raccolti, ma era dato unicamente per due motivi: l’ammirazione della vita irreprensibile dei pitagorici e l’altezza della loro speculazione filosofica. Il prestigio dell’Italia diventò così alto che tutti volevano farne parte, e così il nome di Italia si espanse dalla Calabria a tutta la penisola.
Ricapitolando: il
popolo autoctono dei Lacini, unendosi ai Greci, generò la Prima Italia, la
quale per opera dell’etica predicata e praticata dai pitagorici, fu chiamata
Magna Grecia, che diffuse nel mondo l’etica universale di rigore matematico,
sempre valida per le persone, la società, le religioni, la politica e la
finanza. È la stessa etica che abbiamo ripreso con la fondazione nel 2015a
Crotone della Nuova Scuola Pitagorica, etica che cerchiamo di diffondere per il
bene dell’umanità.
I sommovimenti antipitagorici
I giovani
pitagorici di Crotone cercarono di influenzare le scelte politiche della loro
polis, ma ciò portò a una insurrezione capeggiata da Cilone, un ricco avversario
dei pitagorici. Molti di essi furono uccisi e la loro sede fu data alle fiamme,
Pitagora si salvò a stento con la sua famiglia, cercando asilo a Caulonia e
Locri, che glielo negarono per paura di Crotone. Riparò a Taranto, ma anche lì
ci furono sommovimenti contro i pitagorici ed egli se ne andò a Metaponto, dove
tenne scuola per alcuni anni. Anche lì ci fu un sollevamento contro di lui che si
rifugiò nel Tempio delle Muse, dove come supplice non poteva essere catturato.
Pose allora fine alla sua vita nel 500 a. C. all’età di novanta anni, perfettamente
lucido dopo quaranta giorni di volontario digiuno.
Sembrava la fine,
ed era invece l’inizio di un ciclo che diffuse la dottrina pitagorica nel mondo
antico, arrivando fino a noi. Questa mia lettera si è forse allargata troppo,
ma per capire la Calabria di oggi è indispensabile conoscere la sua storia
passata, almeno per sommi capi. Per i dettagli sul pitagorismo e sui legami tra
mondo ebraico e Gesù, la cui etica è identica a quella di Pitagora, guardate il
mio libro Il Pentalogo di Pitagora,
disponibile in rete:
https://drive.google.com/file/d/1C1Yaeh7y233RenHQJDKhvM4xfIwSh7-B/view?usp=sharing
Queste notizie servono a darvi un’idea di quante vicende fondamentali dell’evoluzione umana si siano svolte in Calabria, la terra che oggi tutte le statistiche classificano come l’ultima d’Europa per la qualità di vita.
Il fatale arrivo dei Normanni
L’arrivo del
cristianesimo in Calabria migliorò le attese degli abitanti, perché aggiunse la
prospettiva della vita eterna al pitagorismo, che insegnava invece il ciclo
incessante delle reincarnazioni, la metempsicosi. Poi, intorno all’anno
Mille i Normanni, originari della
Scandinavia ma da secoli stanziati in Normandia, conquistarono facilmente il
Sud e la Calabria, dove stabilirono la loro capitale a Mileto (RC), che poi trasferirono
a Palermo nel 1101 alla morte del Granduca Ruggero d’Altavilla.
I Normanni erano
cristiani discendenti da popoli nordici feroci come i Goti, gli Ostrogoti e i Longobardi.
Invece i Calabresi erano cristiani di origine magnogreca, cioè pitagorica, la
cui etica vietava perfino la detenzione e l’uso delle armi e vietava l’uccisione
degli animali. Pitagora, difatti, stava lontano da macellai e cacciatori e
ammoniva:
La pace nasce dal rispetto della vita degli animali. Se non osi
uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo.
I Normanni instaurarono nel Sud Italia il regime feudale con la servitù della gleba, l’esser legati come schiavi alla zolla di terra: in Calabria fu ridotto in schiavitù il popolo che aveva creato e diffusa la libertà di tutti.
I Calabresi e tutto il Sud furono gravemente tassati
dai Normanni per edificare fastose cattedrali e per preparare armi e flotte per
la Prima Crociata, per la quale il papa francese Urbano II nel 1192 venne a
Mileto per concordare i termini della spedizione col Gran Conte Ruggero. Questi
prese parte alla conquista di Gerusalemme nel 1099, e tornò con una reliquia
preziosa: un dito del Protomartire Santo Stefano.
Questi intrecci complicati
mettono in luce un dissidio tuttora irrisolto tra etica e legalità. Dal punto
di vista pitagorico, una legge è legale solo se non contraddice i
cinque principi del Pentalogo.
Le Costituzioni di Melfi, promulgate
nel 1231 dall’imperatore Federico II, nipote del Barbarossa e
figlio della normanna Costanza d’Altavilla, erano pitagoricamente
illegali, perché affermavano il regime feudale, secondo il quale l’imperatore
era padrone assoluto di tutto, mentre duchi, principi, conti e visconti di sua
nomina erano signori dei territori loro assegnati e dei popoli che li abitavano.
Federico II fu chiamato stupor mundi per la sua vasta
cultura, ma andrebbe considerato nella sua duplice formazione: quella pitagorica
della matematica, nella quale eccelleva, e quella barbarico-feudale, ereditata
dal nonno Barbarossa.
Le invasioni
barbariche che disintegrarono l’impero romano non furono solo un fatto del
passato: la barbarie da allora è avanzata a dismisura sul principio che uno domina
sugli altri, principio da cui derivano tutte le forme di competizione, finanza e
le stesse guerre, che esigono sempre vincitori e vinti.
Nella battaglia
di Legnano del 1176, la Lega Lombarda vinse contro Federico Barbarossa che
voleva imporre il suo dominio sui comuni dell’Italia settentrionale. Quella
vittoria fu possibile perché i Lombardi, discendenti dai Longobardi, erano
gente d’armi e facevano continue guerre tra di loro: Milano contro Como, Lodi,
Pavia, Cremona e altri comuni. Lo stesso vale per le guerre del centro Italia,
durate fino a tutto il Rinascimento, che videro infinite lotte tra Perugia e
Assisi, Firenze e Arezzo, Lucca, Pisa e Siena.
Al Sud il regime
feudale sarebbe durato fino all’annessione al Regno d’Italia nel 1861, quando fu
abolito il regime borbonico che lo sosteneva, ma nei fatti esso sopravvisse in
parte fino a circa il 1950. Per otto secoli le popolazioni meridionali furono servi
della gleba, legati alla
terra dei signori che dovevano coltivare senza poterla abbandonare. Dovettero
allora scendere a sotterfugi, furbizie, inganni e menzogne per non morir di
fame. Era una vita da schiavi, l’unica possibile, che avrebbe spinto il Sud a
una grave decadenza e alle varie forme di criminalità che l’affliggono.
Cos’è la calabritudine?
Si dice che è
possibile togliere un Calabrese dalla Calabria, ma è impossibile togliere la Calabria
dal cuore di un Calabrese. Sembra solo una bella frase, ed invece tutti i
Calabresi, me incluso, sentiamo un legame profondo e indistruttibile con la
nostra terra: è la calabritudine. Ho conosciuto diversi emigrati meridionali che
rimpiangevano la loro terra, ma non in maniera così forte e con nostalgia così
pungente come i Calabresi, anche quelli che hanno messo su famiglia e vivono
economicamente bene. Perché, mi chiedevo, rimpiangere una terra che hanno
dovuto lasciare, piena di problemi ancora oggi, dove la vita quotidiana è
faticosa e problematica e non offre prospettive valide ai giovani che devono
emigrare a migliaia?
Questa domanda
merita una risposta alla quale ho lungamente riflettuto e che ora espongo. La
Calabria ha subito una decadenza inarrestabile che dallo splendore della Magna
Grecia l’ha portata alla miseria del presente. Io penso che il principale dovere di ogni persona sia
quello di vivere bene e, se ciò non è possibile, bisogna allora cercare di capire
e superare le cause del viver male.
La Calabria mi sembra
un secchio, dentro cui i passanti buttano rifiuti, e poi tutti si sdegnano che
quel secchio è pieno di immondizie. Venti invasioni straniere possono essere
considerate un accanimento del destino, ma possono anche essere viste come un
fenomeno necessario per aprirci gli occhi e farci capire i meccanismi
dell’evoluzione umana. Sembra un’ipotesi bizzarra, ma i fatti confermano come
la decadenza possa essere un fatto provvidenziale. Goti e Visigoti, qui
arrivati dai paesi scandinavi, erano barbari tra i più feroci e violenti: come
mai ora la Scandinavia è abitata da popoli tra i più civili al mondo? Questo è
successo perché alla fine essi hanno adottato un modello di vita comunitario
che aiuta tutti e non esclude nessuno, il modello etico che qui era praticato.
La calabritudine è
il richiamo di un lontano passato, esistito ma dimenticato,
che ci mette in comunicazione con lo
spirito dei nostri antenati, il loro modo di pensare, di sentire e sperimentare
la vita e il mondo, gli uomini e gli dei: quello che Jung chiamò inconscio collettivo.
I Calabresi
Custodi del Sogno
Per sogno intendo il bel sogno di un mondo felice, come fu la
Calabria prima dell’arrivo dei Greci. Un mondo ben diverso da quello di oggi,
nel quale viviamo sotto l’incubo che tutto possa finire con una guerra
nucleare. Religioni e politica non sono riuscite a pacificare il mondo, anzi lo
hanno spinto verso la violenza: negli ultimi sei mila anni i maschi di stampo
indoeuropeo hanno sempre comandato, facendo proliferare la violenza con guerre,
uccisioni, genocidi e distruzioni. Ma hanno fatto di più, hanno ucciso la
speranza di un mondo pacificato e, senza speranza, si vive e si muore
disperati.
Cambiare questa realtà sembra impossibile, ma è proprio qui che
la Calabria appare come àncora di salvezza per l’umanità. Quest’affermazione audace
è supportata dalla cultura calabrese, che nei millenni è stata sempre utopica,
cioè ha immaginato e prospettato un mondo migliore: Cassiodoro, Gioacchino da
Fiore, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio, sono grandi autori calabresi che
scrissero di un mondo migliore che doveva realizzarsi. Questa cultura sistematicamente
ottimista emerge più chiara se la paragoniamo a quella della vicinissima
Sicilia, dove i grandi autori come Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello e
Tomasi di Lampedusa sono irrimediabilmente pessimisti.
Di conseguenza, il problema non è di adeguare la Calabria al
mondo moderno, ma, al contrario, adeguare la Calabria e il mondo moderno all’etica
universale che qui si era formata e che ora da qui risorge per pacificare le
persone, la società e i popoli. Dalla Calabria nasce un sommovimento mondiale delle
coscienze per portare ai posti di comando le donne, le madri e gli
uomini che la pensano come le donne, donne che non hanno mai fatto guerre, ma hanno
sempre aiutato e protetto la vita in ogni situazione. Senza il sogno di una
vita felice e di un mondo in pace non si attiva il desiderio di realizzarlo:
l’evoluzione umana rimane bloccata e tende pericolosamente verso l’involuzione,
come sta succedendo sotto i nostri occhi.
Questa lettera è iniziata rivolta ai Calabresi, non solo ai
due milioni di residenti in Calabria e al mezzo milione di nati in Calabria e residenti
altrove, ma anche ad alcuni milioni di figli e discendenti di Calabresi
emigrati, quella che io chiamo la Grande Calabria. La disseminazione dei Calabresi nei continenti non fu voluta da
un avverso destino, ma faceva parte di un ampio disegno, voluto da quella che i
pitagorici chiamavano Theia Prònoia
(Divina Preveggenza), affinché essi fossero il lievito della nuova Civiltà
Sissiziale, che verrà da dove uno meno se l’aspetta: dalla Calabria.
Questa lettera è rivolta in realtà all’umanità
intera, alla quale
abbiamo il dovere di dire un’amara verità. I maschi hanno
fatto e fanno le guerre per il piacere di distruggere e uccidere: un bisogno irrefrenabile,
per soddisfare il quale trovano sempre soldi senza limiti. I conflitti di Medio
Oriente e Ucraina-Russia confermano che ammazzare o farsi ammazzare è bello, degno
e glorioso, anche se esige la propria morte.
Il sommovimento pacifico che noi proponiamo
è il più grande e affascinante della storia, e mira a portare la pace nel mondo
col solo mezzo che può realmente realizzarla: la distruzione di tutte le armi, senza le quali le guerre non si
possono fare.
A questo fine la
Nuova Scuola Pitagorica propone un raduno a Capo Lacinio, dove Pitagora parlò
di pace e vita felice. Al raduno, che si terrà nella primavera del 2025 in data
che indicheremo, sono invitati tutti, nessuno escluso.
Intorno al 1990 Padre
Paisios, un monaco greco-ortodosso
del Monte Atos, disse:
Apò tin Kalavrìa
to fos:
dalla Calabria verrà la luce.
Quel monaco non mise
mai piede in Calabria, ma era probabilmente dotato di quell’intelligenza spirituale, come la definì Gioacchino da Fiore, quell’intelligenza sovrana, capace di illuminare
gli abissi della storia per aiutare l’umanità ad allontanarsi dall’inferno
presente e andare verso orizzonti di felicità e di pace.
Riaccendere la speranza e adoperarsi per un
mondo migliore è il compito essenziale di tutti, soprattutto dei Calabresi, i
quali hanno grande bisogno di recuperare la fiducia in sé stessi: gli ultimi saranno i primi.
Evoè, evviva.
Salvatore Mongiardo
Scolarca della Nuova Scuola Pitagorica
Ottobre 2024
348 7820 212
mongiardosalvatore@gmail.com
domenica 8 settembre 2024
VOGLIAMO VIVERE
Care Amiche e cari Amici,
vi comunico che il 2
settembre 2024 è uscito il mio ultimo libro che vi farà sognare:
VOGLIAMO VIVERE – BASTA ARMI,
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librerie virtuali.
A Soverato presso la Libreria
Incontro.
sabato 10 agosto 2024
'A CUMPRUNTA di E. ARMOGIDA
'A Cumprunta
(brano tratto dalla lirica “C’era ‘na vota\ …’a rota d’o vrascìari”)
di Enrico Armogida
…Cc'era
na vota\ 'a "rota" d'o vrasċìari ...
ed
ogn'annu - sempa guala! -
fin'a
Pasqua duràva...: 'A
dominica 'e Pasqua:
quand'ancòra,
ogni tantu,
na
cucuḍḍijàta ciciarìgna
'a
vigna 'e Tralò e dde Niforìu
'e jancu pinneḍḍàva
e,
prima d'a Cumprùnta,
supa
i casi d'o Castìaḍḍu ntinnàva.
E
ll'aggìanti, tutti a ffesta attillàti, l'aggìanti attillati
de' mugnani
a
mmurràta si ricojjìanu,
e
dde' strati o de' mugnàni
guardàvanu
a Vvitu Varànu, Vitu
Varanu e ll'angialìadri
chi,
cu i mazzùali ar’i mani,
sonava
‘e prèscia u tambùrru,
e,
currìandu davanti
ar’u
standàrdu d'o Rosàriu,
nzema
all'angialìaḍḍi scarzi
(chi
seguìanu cull'ali janchi ampràti
e,
sup'a testa,
na
curùna 'e curgìajji jhurùti),
portava
ar'a Madònna a lluttu
l’annunziu
d'o Cristu risurcitàtu
chi
a Ggalilèa l’aspettàva.
E
a mmenzijùarnu, - quandu
i
Cungregànti chi i “vari” portàvanu,
(dùappu
l'ùrtimu 'nchinu)
p'o
Castìaddru sbiḍḍàvanu -
i
fùrgula appicciàvanu u cìalu;
e
Ccialamìda u sagrastànu
mani
e ppeda i battàjji pistàva,
er'u
campanàru d'a Chjìasi,
(p'o
prìaju d'a festa)
quasi
quasi scoppiàva...
“'A Cumprunta” a S. Andrea Apostolo dello Jonio:
frutto di
sincretismo religioso fra una remota
liturgia pagana
e una più recente tradizione cristiana.
Con l'ingresso della
primavera, nella ridente collina di S.Andrea sullo Ionio, la prima importante
manifestazione di religiosità popolare è quella della tradizionale
"Cumprunta" (quella cioè della "gara per l'incontro
gioioso" tra la Madonna in lutto e il Figlio risorto), che puntualmente
viene disputata ogni anno - tra due gruppi di Confratelli della Congrega del
SS. Rosario - a mezzogiorno della Domenica di Pasqua e che - a distanza di 12
ore - segue alla "rappresentazione" della Resurrezione di Cristo, la
quale avviene, invece, a mezzanotte del Sabato santo - al momento del “Gloria in excelsis Deo” - durante la
solenne Messa “cantata” che il Parroco celebra con la partecipazione di tanta
gente.
Tale
manifestazione conclude il ciclo dei vari riti liturgici che riempiono la
Settimana santa. Tuttavia, prima della Riforma liturgica post-conciliare, -
quando la processione del Cristo morto per le strade principali del Paese si
faceva una prima volta la sera di Giovedì santo, con una suggestiva fiaccolata
di torce e “maravàschji”[i]
accesi, ed era ripetuta poi una seconda volta la mattina del Venerdì di
Passione, con l’accompagnamento della statua della Madre (“addolorata”
per l’ultima - e la più atroce - delle spade profetizzate da Simeone) -
l'evento della Resurrezione (“‘a Glùaria”) si celebrava il Sabato
mattina, durante la Messa "cantata" delle ore 8,00, mentre "'a
Cumprùnta" si svolgeva a mezzo-giorno della Domenica di Pasqua, anche
se era da tutti e da sempre chiamata “’a cum-prunta ‘e Galilea” - come quella
di Soverato - per richiamare alla memoria collettiva l'incontro avvenuto tra la
Madonna e il Figlio qualche giorno dopo la sua Resurrezione nella regione settentrionale
della Palestina chiamata Galilea.
Il
termine “cumpruntàra” si ritrova nel proverbio dialettale ancora in uso:
“munti cu munti ‘on si cumprùnta\, ma frunti cu frunti sì”, il quale
significa che “gli oggetti inanimati
non hanno motivi di discordia, invece gli esseri animati sì, e possono
risolverli discutendo insieme”.
Tale
vocabolo inizialmente indicava “la volontà e l’atto – che si verifica tra due
persone o gruppi di persone - di sedersi insieme di fronte per
esternare le proprie rimostranze e ragioni, nella convinzione, anzi certezza,
che il confronto delle idee ed il metodo della discussione siano utili a
tutti”. Ma successivamente, così come il termine italiano “confronto” - nel
mondo sportivo – è venuto a significare “incontro e gara” insieme[ii],
il dialettale “cumprùnta” ha assunto anch’esso un valore polisemico,
alluden-do sia – chiaramente - all’ “incontro gioioso che avviene (correndo,
quasi gareggiando a chi arrivi per primo)”, tra la Madonna (trafitta dal
dolore per la recente crocifissione del Figlio) e il Cristo (già risorto, il
quale - prima del suo ritorno definitivo alla Casa celeste - rimane ancora
sulla terra altri 40 giorni, fino al giorno dell’Ascensione), sia - velatamente
- ai vari "dissapori, rivalità o rancori” che per motivi sociali o
personali si accendevano spesso tra le famiglie andreolesi e si trasmettevano
poi di padre in figlio, in forma quasi ereditaria, anche a livello di Congreghe
religiose, che si ritrovano schierate alcune (Rosa-rio e Immacolata) dietro la
statua della Madonna, altre (SS.Sacramento e S.Andrea) dietro quella del Cristo[iii].
Benchè tale manifestazione si svolga in
vari altri paesi circonvicini del litorale ionico, “’a Cumprunta” di S.Andrea
rimane uno spettacolo unico, tanto per la particolare bellezza della statua del
Cristo, (scolpita con taglio michelangiolesco, con lo sguardo fulminante e il
braccio destro vittoriosamente proteso in avanti, nell'atteggiamento trionfante e glorioso di chi - col sigillo
della Croce, impresso nello stendardo rosso che saldamente impugna nella
sinistra - ha vinto da poco il peccato
e la morte ed ha redento così il mondo) e la leggiadra imponenza della Madonna
del Rosario (rivestita per l’occasione con la veste bianca in broccato d’oro[iv]
e con l’abituale manto azzurro stellato), quanto per la trepida apprensione con
cui tutti gli astanti partecipano alla "rappresentazione", la quale,
(oltre ad esprimere il bisogno di perpetuare una tradizione religiosa molto
cara e molto antica), si trasforma per taluni in una piccola occasione di
mondanità, in cui primaria preoccu-pazione è quella di trovare la postazione
più adatta per assistere nel modo migliore.
La
manifestazione è organizzata dalla Confraternita del SS. Rosario e si svolge
nello splendido Corso Umberto I, chiamato abitualmente dalla gente del luogo
Pian Castello, una lunga e larga Piazza, acquistata dal Comune verso i primi
anni del Novecento e tutta lastricata dagli scalpellini locali in “pietra
granitica abilmente spaccata e spianata” (“u basulàtu ‘e petrelli”).
Essa si apre verso le 11:00 del mattino,
immediatamente dopo la conclusione della Santa Messa delle ore 10 ("’a
Missa cantata"), quando la statua trionfante del Cristo, e quella
della Madonna del Rosario, tutta chiusa ancora in un lungo manto “nero”, escono
dalla Chiesa sui loro baldacchini (“i vari”), dirigendosi per zone
opposte del paese, la prima verso Sud-Est e l'altra verso Nord-Ovest.
Ad
uscire per prima - in forma solenne - è la statua del Cristo, ch’è preceduta
dagli uomini che portano gli stendardi e le croci delle Congreghe, dai
rispettivi “confratelli”[v]
(tutti vestiti di camice bianco e mantellina colorata [“mozzetta”], i quali
cantano Salmi ed Inni dell’Ufficio) e dal corpo ecclesiastico (formato dal
parroco, da un sacerdote “a latere” e da vari chierichetti), ed è seguita dal
complesso musicale e dalla folla dei fedeli riuniti in processione. Ma il
percorso seguito dal corteo è diverso da quello di tutte le altre proces-sioni
religiose dell’anno, perchè - invece di salire - scende dal Palazzo dei
Parise e, attraverso la lunga via Regina Margherita, giunge alla piazzetta
della casa del defunto Sesto Bevivino e da lì prosegue verso l'Orfanotrofio
delle Suore Riparatrici, per arrivare infine - nel suo punto più basso - al
piazzale antistante il sagrato della Chiesa del patrono S.Andrea. Da qui,
attraverso via Vittorio Emanuele il corteo sale e, deviando a sinistra verso
l’ex-negozio di tessuti dei Carioti, arriva a Piazza Marconi (a Mmalajìra,
davanti l’ex Municipio comunale), e poi, procedendo sempre verso l’alto - lungo
via Regina Elena – si ferma davanti all’ex-negozio di suola e pellame di Nicola
Samà “u briganti”, ove sosta per qualche tempo prima d’imboccare la
vicina Piazza per l’incontro finale.
Una
decina di minuti dopo esce dalla Chiesa anche la statua della Madonna, che,
ancora tutta sconsolata e rivestita a lutto, procede per le strette viuzze del
paese in forma privata, sola e disadorna (priva cioè degli abituali gioielli
d’oro, quali orecchini e collana), preceduta solo da un ragazzo che porta la
croce, da un sacerdote e da pochi fedeli. Essa, immettendosi nell’attuale
via Mario Pagano, procede a destra lungo la via arc. Antonio Mongiardo, arriva
a Largo Alfonso Cosentino e da lì imbocca la salita del II° tratto di via arc.
Ant. Mongiardo, e si ferma alla confluenza con via Trento (davanti alla casa di
Peppe Dominijanni “u ciuffu”), in attesa che i 3 “angeletti” (i quali, tutti
ricoperti di bianco - camice, ali, corona e calze - seguono di corsa il passo e
il rullo sempre più concitato del tamburinaio) portino alla Madonna l’avviso
che il Cristo è ormai pronto davanti alla Torre dell’Orologio.
Intanto il Pian Castello,
luogo dell’incontro finale, pullula di gente tutta elegantemente vestita a
festa: ragazzi e ragazze, bambini[vi] e
anziani, emigrati e forestieri si affollano “a mmurràta” nelle case di parenti
o conoscenti per assistere alla “Cumprunta”; e, per avere una buona visuale, si
sporgono dai balconi e dai "mugnàni" delle case che
costeggiano la Piazza; oppure si assiepano lungo i due lati del Corso e tra
loro fanno ressa a spintoni, sicchè la Guardia comunale e i Carabinieri del
luogo faticano a mantenere l'ordine e a lasciar libera la strada per la
"corsa" imminente.
Il momento più emozionante
si avvicina con l’avvicinarsi del mezzogiorno: alle ore 11:55, le statue si
trovano già alle due estremità della Piazza, situate - il Cristo - all’al-tezza
del portone della Chiesa Matrice e - la Madonna – all’imbocco superiore della
Piazza; il Parroco e i chierichetti si sistemano verso il centro di essa, là
dove si presume debba avvenire l'incontro; e gli stendardi e i confratelli
delle Congreghe si pongono ai due lati del Pian Castello, mentre i 3
“angioletti” corrono frettolosamente nei due sensi, lungo la Piazza gremita di
folla, e - mediante successivi “messaggi” che con le loro “visite”[vii]
recano a ciascuna delle due statue (alla Madre e al Figlio) - favoriscono il
loro “incontro”, che diventa alla fine una “celere corsa”, dettata dalla piena
dei sentimenti che pulsa all’unisono nel loro cuore.
Infatti, i reggitori delle statue[viii], i
quali un tempo portavano ai piedi solo calze di “àsili”[ix] per
evitare che durante la corsa scivolassero sulla pavimentazione di “petrèlli”
– hanno già posizionato la Madonna e il Cristo in modo tale che i rispettivi
“centri d’avanti” – come son chiamati i reggitori centrali – possano comunicare
tra loro mediante un opportuno cenno del capo, e coordinare così i tre inchini[x] delle
statue, che fanno susseguire a breve distanza di tempo. “Pronti?… Calàmu!”[xi] è il
grido scandito ogni volta dal “centro d’avanti” della statua del Rosario, il
quale, piegando e rialzando sincronicamente il capo, manda al “centro d’avanti”
della statua del Cristo il segnale previsto, e – ad inchino simultaneo
effettuato (“calàta”) - fa avvicinare ogni volta la propria statua di
due o tre passi avanti.
A mezzogiorno in punto, quando la
Madonna è ormai all'altezza dell'Olmo secolare delle Tre Fontane e il Cristo
più o meno a quella dell’ex-farmacia Samà, il centro d’avanti della Madonna,
appena riceve il “Pronto!” dalla persona addetta a sfilare il velo “nero” della
statua, quasi automaticamente compie l’incurvatura del capo e, fatto in fretta
- insieme agli altri compagni - il terzo inchino, scatta in avanti e inizia la
“gara” finale verso il centro della Piazza: "‘A Madonna u rèscia!",
(cioè "La Madonna provveda al buon esito"), è l'augurio segreto
comune, per un percorso che – pur essendo relativamente breve - ai reggitori e
agli astanti sembra durare un’eternità, per le difficoltà oggettive che il basolato
della piazza presenta e per i gravi imprevisti che il trasporto affrettato
delle statue può comportare[xii].
Al
punto d'incontro, che risulta all’incirca all’altezza del Tabacchino Lijoi, le
due statue si arrestano, con un ultimo inchino frontale si salutano, e poi sono
adagiate a terra, affian-cate e rivolte entrambe verso la Chiesa.
Contemporaneamente, dal Palazzo Jannoni son librate a volo due bianche colombe,
simbolo di quella giornata di pace ed amore che la Festa vuol significare; e,
mentre la gente, che ha assistito con apprensione alla scena, piange commossa e
batte le mani per l'incontro felicemente avvenuto, il complesso ban-distico
intona una marcia trionfale, le campane della Chiesa squillano a distesa e lo
scoppio dei fuochi d'artificio dà l'annuzio della conclusione delle festività
pasquali.
In
questo clima di generale letizia gli addetti della Congrega rimettono alla
Madonna gli abituali gioielli, mentre le persone si scambiano (o si rinnovano)
gli Auguri di Buona Pasqua con i parenti, amici e conoscenti che incontrano,
scattano delle foto o fanno riprese cinematografiche, e pongono la loro
generosa offerta nella guantiera della Con-grega, o direttamente attaccano alle
fasce di seta celeste delle due statue la moneta cartacea più pesante.
La cerimonia termina col
rientro delle statue in Chiesa (anche questa volta prima quella del Cristo e
poi quella della Madonna, introdotte col viso rivolto verso l’esterno e
accompagnate dalla banda musicale e dai fedeli), e poi col rapido diradamento
della gente, che abbandona la Piazza e rientra a casa per assidersi a mensa e
consumare nell’intimità della famiglia il tradizionale pranzo pasquale.
Certo,
la "Cumprunta" è una festa le cui origini nessuno più ricorda né
riesce a rintrac-ciare in documenti storici, ma che certamente sono molto
remote.
Infatti,
prima della statua del Cristo attuale, sappiamo che c'era quella "d'o
Cristu “vìacchju"; statua che - secondo l’asserzione del
prof. Bruno Voci[xiii] -
fu portata a S.An-drea tra il 1848 e il 1868 dall'arciprete Raffaele Spasari,
nativo del vicino paese di Bado-lato, e che, caduta in disuso dopo l’acquisto
del Cristo “nuovo” (1928), rimase per lungo tempo accantonata
nella Chiesetta di S.Rocco e alla fine fu fatta bruciare dal defunto arciprete
don Francesco Cosentino (1908-89) nella villetta su cui sorge la Chiesa del
patrono S.Andrea.
Ed
anche Saverio Mattei, nella II° metà del Settecento, ricorda nella sua
Opera che “duravano…a’ giorni suoi – a dispetto di tanti savi
provvedimenti de’ Vescovi e de’ Pontefici – alcune teatrali processioni della
Passione,…e le feste liete Pasquali, in cui facevan correre le
statue qua e là della Vergine, di S.Giovanni, della Maddalena, e
di Gesù Cristo, con mille comparse, che destano il riso nella genta culta e
la divozione nel popolo rozzo e ignorante”[xiv].
Il
prof. De Stefano, più che il
problema cronologico, si è posto quello della genesi religiosa della Confronta
e, dopo aver un po’ affrettatamente asserito che "nei vangeli canonici
non troviamo l'incontro di Cristo risorto con la Madre", ha pensato di
dare una risposta facendo riferimento al Vangelo apocrifo di Gamaliele,
ov'è attestato "il lamento della Madonna presso il
sepolcro vuoto del Figlio, che riconosce solo in un secondo momento"[xv].
In
realtà, però, la nostra “Cumprunta” non è espressione di
lutto per la morte già avvenuta di Gesù, ma
manifestazione di gioia per la resurrezione insperata di Cristo,
alla quale neppure alcuni discepoli in un primo tempo credettero (v.
Mc. 16, 10-13);
tant'è vero che "la gara per l’incontro" delle due statue inizia solo
dopo che una persona della Congrega sfila dalle spalle della Madonna il
manto nero ch'ella ancora porta in
segno di dolore e di lutto.
D'altra
parte, la nostra "Confronta" fa esplicito
riferimento a ben 3 passi del Vangelo
di Matteo: per la precisione
- al cap. 26,32,
in cui Gesù, subito dopo la cena serotina di Giovedì santo,
predice ai discepoli: "dopo
la mia resurrezione, vi precederò in Galilea";
- al cap. 28,7
in cui l'angelo - alle donne ch'erano andate a visitare il
sepolcro la mattina di Domenica - dice:"E' risuscitato dai morti, e
ora vi precede in Galilea; là lo vedrete";
- e al cap. 28,8 in cui Gesù in persona, dopo la sua
Resurrezione, appare alle donne e le ricuora, ripetendo la stessa cosa:"Non
temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e
là mi vedranno".
Questa
funzione liturgica, comunque, - come ha acutamente intuito il nostro caro Sal-vatore
Mongiardo - s'innesta – (dilatandone ed elevandone il significato e il
valore, come in tanti altri fatti religiosi: vedi le varie basiliche cristiane
ricavate da antichi templi pagani o le feste natalizie legate a quelle dei
Saturnali romani) - in un remoto mito greco, quello di Demetra e Persefone[xvi]
(in latino = Prosèrpina), ed è l'effetto - nel tempo -
della cristianizzazione sincretistica di una antichissima vicenda mitologica
pagana che si ritrova nell'Inno a
Demetra[xvii]
(impropriamente attribuito ad Omero), e che certamente era ben
conosciuta – e perciò era stata introdotta e poi tramandata anche nelle nostre
zone - dai numerosi coloni greci stanziatisi qui nel corso dei secoli.
Tale
Inno mira a dare una specie di storia "eziologica" del
santuario della città di Eleusi e dei relativi misteri (celebrati in autunno e
in primavera, in relazione con la morte e la rinascita del “grano”), ed
è incentrato sulla figura della dolente Demetra, "signora
delle stagioni e del ricco raccolto" (v. 55 e 492),
la quale, "consunta dalla nostalgia della figlia Persefone"
(v.
200 e 304), - ["fanciulla fiorente"
(v.8)
"dalle caviglie sottili" e “dalla vita snella”, che era
stata "rapita dal dio Ade" (v.
2)] - e avvolta da un "peplo nero" (182-83),
"si lancia come un uccello" a ricercare la figlia "per
mare e per terra" (vv. 43-44).
Perciò,
Demetra, “l’archetìpica mater dolorosa”[xviii],
tutta assorbita e chiusa nel suo dolore, abbandona il grande Olimpo, e "la
terra non fa più crescere il seme" (v. 306-07) e
i raccolti ingialliscono e
appassiscono. Allora, Zeus, giustamente preoccupato, dapprima le manda “Iride
dalle ali d'oro" (v. 314),
ma "non persuade il suo cuore" (v. 324);
poi manda a turno “tutti gli dei beati immortali" (v.
325), ma la dea risponde che "non tornerà all'Olimpo
fragrante\ e non farà più crescere i frutti della terra\, prima di rivedere con
i suoi occhi la bella figlia" (vv. 331-33);
alla fine, invia "Ermes, il
messagger veloce (¥ggeloj çkÝj)"
(v.407),
"perchè convinca Ade con parole cortesi\ a rimandar Persefone dal mondo
oscuro" (vv. 336-37). Ade a questo punto
acconsente e per due terzi dell’anno restituisce Persefone alla madre, la quale
"a quella vista balza come una menade" (v.
385-86), ma per il restante periodo la lascia nel
caliginoso mondo sotterraneo come sua consorte e regina degl’Inferi.
Tale
mito è ancora adombrato nel nostro termine dialettale "Reserpìna",
che tante persone ancora usano per indicare una "donna malvagia, destinata
all'inferno"; termine che risulta – a mio parere – dall’ibrida
contaminazione popolare di Prosèrpina (che nel senso di “donna cattiva”
si usa ancora nel linguaggio parlato a Stalettì) con serpe ed è
collegato certo al fatto ch’ella era “regina degl’Inferi”, - nell’arte greca
rappresentata spes-so con due serpenti, uno per ciascuna mano (serpenti
che dai cristiani furon sempre visti come il simbolo del demonio: v. la
statua e il quadro dell’Immacolata!), - ma forse anche al suo fisico
"seducente" di "ragazza fiorente”
(v.8), “dalla vita
sottile” (v.201), che “giocava
gioiosamente con le Oceanine dall'ampio petto” (v.5).
Ma
tale mito, oltre che artisticamente avvincente, è molto interessante, perchè ha
una stretta connessione col ciclo naturale delle stagioni, in quanto
simboleggia il risveglio e ritorno della primavera dopo il letargo
dell'inverno, e dà una dimensione nuova ai culti agrari, perchè proietta nell'aldilà
- ove regna Persefone - la speranza – (propria di tanti disperati[xix]
contadini, in perenne balìa della siccità climatica e delle calamità naturali)
- di una vita diversa, beata e imperitura[xx];
e ancor più interessante perché, collegato com’è alla leggenda di un eroe
che scende nell’aldilà per rapire la kòre (cioè la fanciulla), “ha a che
fare con le idee della morte e della resurrezione, o meglio della salvazione”[xxi].
E il fatto che la rappresentazione
si svolga solo qui nel nostro Meridione, nell'antica Magna Grecia, è
significativo del fatto che anche noi in gran parte deriviamo dalla stessa civiltà pagana – quella
agricolo-marinara dei Greci -, la quale nel tempo è stata profon-damente
cristianizzata (basti pensare all’opera di san Basilio e di Cassiodoro -
tanto per ricordare qualche grande nome -, i quali in tale direzione ed in
forma indelebile hanno operato nella nostra Calabria).
Da un punto di vista
artistico, la nostra “Confronta” costituisce
un vero “dramma”, che si svolge in un Atto unico e in poche scene
significative; scene, certo, non dialogate come nelle “sacre rappresentazioni”
del Quattro e Cinquecento, ma simbolicamente e mimeticamente rappresentate, le
quali (come le tante pitture sacre che animavano le Chiese del Medioevo) altro
non sono che un esplicito ed efficace mezzo mediatico di un particolare
messaggio edificante.
Da
un punto di vista culturale, invece, è interessante che in questo “dramma” pagane-simo
e cristianesimo s'incontrino e si fondino. Ciò risulta senza ombra di
dubbio dal fatto che in entrambe le vicende si ritrovano sostanzialmente 3
personaggi uguali (la madre, il figlio\-a, e l’angelo messaggero), e 3
sentimenti umani basilari, susseguentisi con lo stesso ordine (il dolore
straziante di una donna a lutto per la perdita di un familiare, la sua
affannosa ricerca in uno stato di profonda afflizione e la gioia finale del
ritro-vamento). Sentimenti che, però, nella nostra “Cumprunta” assurgono a
qualcosa di più alto, in quanto - impregnati come sono di un sublime valore soprannaturale
- vogliono attestare che il Figlio di Dio non è “morto”, ma è vivo e “risorto per
noi”, e a confermare - con questo incontro in Galilea – ch’Egli rimane
fedele garante di quella promessa di gioiosa speranza che chiude il vangelo di
Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del
mondo” (cap. 28,20).
In tal modo appare chiaro anche il senso della
storia terrena, la quale non procede né per caso né per salti, ma mostra la sua
naturale continuità nella sintesi lenta ma perenne di essere e divenire, di
tradizione e innovazione, ed è storia “di sofferenza e di speranza, nella
storia di Dio”[xxii], il quale, “umiliandosi
nella morte del Crocefisso ed elevando l’uomo nella resurrezione operata in
Cristo, crea le condizioni per la comunione con Dio”, e “que-sta assume i
tratti di una comunione misericordiosa, incondizionata e universale tra Dio e
tutti gli uomini che versano nella comune miseria”[xxiii].
NB).
Un
cordiale ringraziamento, a conclusione, sento di dover rivolgere all’alunna Tiziana
Mannello e al cugino Maurizio Lijoi, i quali con la loro generosa
disponibilità mi hanno fornito una preziosa mole d’in-formazioni; e un altro
all’amico Salvatore Mongiardo, che – con le sue lucide reminiscenze e i
suoi repentini sprazzi intuitivi – mi ha offerto lo sprone (anche se mi ha
lasciato l’onere!) per la ricerca successiva.
Bibliografia
- Barbero,
Luigi: Civiltà della
Grecia antica - Storia letteraria e testi - Mursia - Milano,
1990.
- Beye,
Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia,
in “La civiltà greca - Storia e cultura” - Laterza - Bari, 1990 - vol.
II.
- De Stefano, Antonio: “Le
Confraternite religiose fra passato e presente in S.Andrea dello Jonio” - Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002.
- Enciclopedia
Europea - Garzanti - Milano,
1977 - vol. IV., s.v. Demetra -
- Inno a Demetra: testo greco e
traduzione italiana in
“Paduano, Guido: Antologia della lette-ratura greca
“ - Zanichelli - Bologna, 1990 - vol. I, pp. 298-323.
- Mattei, Saverio: “Del
rapporto fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” -
Porcelli - Napoli, 1779 - T. VIII.
- Moltmann,
J.: Il Dio crocifisso
- Queriniana - Brescia, 1973.
(25-02-2003)
12 E’
il verbasco (o tasso barbasso),
un’erba formata da un lungo racemo lanuginoso, che, ben bene seccato al sole e
poi impregnato di olio, fungeva da torcia; e poiché, una volta acceso, si
consumava molto lenta-mente, durava per tutto l’arco della processione.
14 Il
prof. De Stefano, recentemente, (nella sua tesi di Laurea "Le Confraternite religiose fra passato e
pre-sente in S.Andrea dello Jonio”
- Ediz. Vivarium - Catanzaro, 2002) ha
cercato di mostrare che la Congrega aveva una particolare funzione di "paciere"
tra le “discordie” esistenti nelle varie classi sociali, forse per il fatto che
nello Statuto del SS. Sacramento (art. I - r.117) c’è l’esplicita prescrizione
che i Congregati “s'inter-pongano à comporre le discordie, specialmente tra
Confratelli”.
Ora, io ricordo ancora (perché
mio padre fu anche lui – nel periodo della mia infanzia - Priore della
Confraternita del Santissimo) la “gara” che si faceva un tempo tra le Congreghe
- durante il periodo della Candelora – per la raccolta dell’olio domestico
“nuovo”, e - durante le varie Festività – per l’addobbo dei “parati”, per la
ricerca dei migliori “predicatùri” e per la ricchezza e bellezza dei “fùachi
articiali”, e – durante le processioni religiose – per la raccolta delle
“offerte” in denaro; così come ricordo anche la “gioia compiaciuta” di noi
ragazzi quando fra i nostri amici potevamo dire con un certo vanto: “Chist’annu
vincìu u Cristu” oppure “vincìu ‘a Madonna”, a seconda della Congrega cui
ciascuno apparteneva.
E so anche che agl’inizi del
secolo scorso, nel nostro paese, membri della stessa famiglia, - i quali per tradizione appartenevano ad una stessa
Confraternita -, per rancori personali
son passati volutamente ad una Congrega diversa.
Tuttavia, la mia opinione è che
non c'erano - come non ci sono - tra i Congregati discordie o dissensi così
profondi quali l'autore vuol far credere; ma - soprattutto - che la Congrega
non ha mai svolto una funzione "pacificatrice" all'interno della
Comunità. Infatti, come dice il “saggio” Orazio in una delle sue Epistole (l.
I, X, 24), “la natura, anche se la scacci col forcone, torna sempre indietro”,
a significare quasi che ci sono in ciascun individuo atti e contegni
insopprimibili, più forti di noi, in quanto a noi connaturati, che
necessariamente si riflettevano e si riflettono anche a livello di Congreghe
religiose.
D’altra
parte, le discordie, se non mancavano, erano un fatto normale, scontato, dovuto
alla struttura agricolo-pastorale della passata civiltà e cultura e alle
profonde disparità economico-sociali che esistevano fra gli abitanti, e che si
ritrovavano non solo nell’ambito delle numerose Congreghe che c'erano (ben 6,
come rileva l'autore!), ma anche all'interno delle singole Congreghe (v. - per
la festa del Corpus Domini - le 3 processioni del
Santissimo, nelle quali l'ombrello e le aste del palio erano riservati prima
"ar'i galantòmini", poi "ar'i mastri" e infine "ar'i
zzappatùri").
16 L’ordine
di processione delle Congreghe (la cui importanza si può logicamente dedurre
dalla maggiore o minore vicinanza ai Sacerdoti) è il seguente: prima quella di
S.Andrea, poi quella del SS.Rosario, quindi quella dell’Immacolata e, infine,
quella del SS. Sacramento, che precede immediatamente il Parroco e il clero che
l’accompagna.
I confratelli indossano un camice bianco
cinto di corda e – sulle spalle – portano una "muzzetta", rispetti-vamente di color rosso bordato di
oro, nero bordato di giallo, celeste bordato di bianco, e rosso bordato di
bianco.
17 Un
tempo i bambini, per assistere alla Confronta, uscivano tenendo in mano la
tradizionale "cozzùpa cull’ ùavu", di forma varia (“o panarìaddru
opp. cìarvu”).
19 I
reggitori delle statue sono 12 (6 per ciascuna statua: 4 alle stanghe laterali
e 2 nella parte centrale!); e la tradizione vuole che siano tutti “rosarianti”.
Comunque, il I° anno di ogni nuova gestione (abitualmente biennale),
possono partecipare anche i 4 del Comitato uscente (cioè, il precedente
Procuratore come “centro d’avanti” della Madonna; il precedente Priore
come “centro d’avanti” del Cristo e i rispettivi Vice come “centri
d’arrìadi”). E qualora - per qualche motivo particolare (come, per esempio,
quello di dover ot-temperare a un “voto” fatto) - sia accettato come reggitore
anche qualche cittadino appartenente a Congre-ga diversa, costui può reggere
solo una stanga laterale.
20 àsili
o àsali = filato grosso di fibbra di ginestra, ch'era usata per tessuti rustici, sacchi,
imbottiture.
21 I
tre “inchini” delle statue sono una cosa molto delicata e devono
avvenire simultaneamente in entrambe le
squadre. Perciò sono meticolosamente preparati - dai reggitori delle due
statue - durante il percorso che fanno per le vie del paese, negli spiazzi che
consentono loro di operare tale manovra: quelli del Cristo “provano” in via
Regina Margherita (davanti alla casa di Sesto Bevivino e davanti alla Chiesa di
S.Andrea) e poi a Piazza Marconi (Malajìra); quelli della Madonna in via Mario
Pagano (dietro l’ex negozio di tessuti di Nicola Greco) e in via arc. Antonio
Mongiardo (davanti alla casa Dominijanni), prima dell’imbocco per via Trento.
23 E’
successo, infatti, talora che dalle mani di qualcuno dei “reggitori” sfuggisse
l’impugnatura della stanga, con grave pericolo per le persone e per la statua,
e con grave apprensione della gente, la quale facilmente attribuisce al fatto
il carattere di evento foriero di prossime disgrazie.
25
Mattei, Saverio: “Del rapporto
fra la Chiesa e il Teatro presso i moderni”, in “Opere” - Porcelli
- Napoli, 1779 - T. VIII, pgg. 159-60.
27 Le
due dee, più che come persone distinte, appaiono – nel mito e nel culto – come
due aspetti di un’unica divinità, ch’è insieme madre e figlia - v. Enciclopedia
Europea – Garzanti – Milano, 1977 - vol. IV, pg. 36 - s.v. Demetra -
28 Inno a Demetra: testo greco e traduzione
italiana in “Paduano, Guido: Antologia della letteratura greca “
– Zanichelli – Bologna, 1990 - vol. I, pgg. 298-323.
29 Beye,
Rowan Charles: Letteratura e pubblico nell’antica Grecia, in “La
civiltà greca – Storia e cultura” – Laterza - Bari, 1990 - vol. II, pg.
110.
30 Il
Beye (op. cit., vol. II, pg. 110) osserva giustamente che per i
popoli delle odierne civiltà industriali è assai difficile rendersi
conto delle angosce connesse con l’agricoltura e con la
sopravvivenza umana.
Ma è utile pensare che un tempo le vie
di comunicazioni erano rarissime e i mezzi adoperati erano spesso rudimentali e
lenti; sicchè le scorte alimentari prodotte localmente non potevano venire
integrate dalle importazioni. Inoltre, la refrigerazione non esisteva e perciò
gli alimenti coltivati e immagazzinati dovevano durare fino al raccolto
successivo. Non c’era altra alternativa, se non la morte per fame. Nulla era
allora più fondamentale, eppure nulla era più aleatorio del raccolto annuale;
chè la siccità, i freddi precoci, le improv-vise grandinate erano sempre in
agguato e potevano significare la repentina estinzione di alcuni membri della
comunità o della famiglia.