sabato 18 ottobre 2014

LA MADONNA DELLA STRADA

LA MADONNA DELLA STRADA

Il viandante di una volta e l’automobilista di oggi che da Sant’Andrea Marina sale verso il centro storico, dopo circa un chilometro vede alla sua sinistra un’edicola, raffigurante una Madonna con Bambino in braccio. Su un marmo sotto l’effigie c’è scritto:

MADONNA DELLA STRADA
GUIDA IL MIO CAMMINO
A DIVOZIONE DEL
DOTT. GIUSEPPE D’AMICA
1951

Il dottor D’Amica è stato medico a Sant’Andrea ed è morto ultranovantenne pochi anni fa, a me ben noto per essere stato medico della mia famiglia, per la storia che sto per raccontare e per una reciproca simpatia che ci legava.

Nel 1951 il dottor D’amica si motorizzò, tra i primi in paese, comprando una macchina con la quale andava in giro per le visite fuori paese. La Calabria di allora non conosceva ancora il fenomeno criminale che è dilagato dagli anni Settanta in poi, anche se vicino alla stazione ferroviaria di San Sostene era successo un fatto orribile. Un giovane forestiero, che aveva una macchina ed era ben fornito di soldi per avere venduto delle vacche a una fiera, offrì un passaggio a due sconosciuti durante una tempesta. I due malviventi lo uccisero, gli rubarono i soldi e la macchina e buttarono il suo corpo a lato della strada. I familiari vi posero una lapide, ora rimossa, che implorava:

PORGI O VIANDANTE UN FIORE UNA PREGHIERA
A LUI CHE GIOVIN PER BONTA’ FU UCCISO
DA LADRA E IGNOTA MAN TRA LA BUFERA

Il dottor D’amica, da uomo accorto qual era, pensò bene di munirsi di una pistola, piccola e piatta, che portava in tasca e che faceva vedere in modo che si sapesse che andava armato. Ma, dubitando delle forze umane e da credente qual anche era, pensò di ricorrere alla potente protezione della Madonna. E così, sotto il titolo di Madonna della Strada, eresse un’icona per la benedizione della quale molti scesero dal paese assieme all’arciprete don Andrea Samà, u mbraghatu, il rauco cioè. C’era ovviamente anche il dottore D’Amica e io, che avevo dieci anni, facevo da chierichetto. Era probabilmente il maggio 1951.
Al momento della benedizione, ci si accorse che mancava l’aspersorio per attingere dal secchiello l’acqua benedetta, e l’arciprete mi disse:
-Prendi un cespuglietto, pijja ’na strofficeddha…
Strappai da terra una piantina secca e la porsi all’arciprete che commentò:
-L’hai scelta bene, a scijjisti bona, questo è l’issòpo, quello che usavano i sacerdoti ebrei e che noi ricordiamo in chiesa quando diciamo: Asperges me, Domine, hyssopo et mundabor….

L’estate seguente, in agosto, avevo servito all’arciprete la messa domenicale delle 11, celebrata ogni domenica nella cappella dell’Immacolata della veneranda Chiesa Matrice, demolita nel 1965 per una vicenda, ancora non abbastanza chiarita, di tangenti e altro. La messa delle 11 era molto frequentata, con i confratelli che cantavano l’ufficio dell’Immacolata in latino, una lunghissima predica dell’arciprete che, anche se rauco, non la smetteva di blaterare contro le donne che osavano mettere il costume da bagno sulla spiaggia mostrando i corpi seminudi: Carne da macello, carne da macello…
La funzione terminava poi con il canto del De Profundis, straziante di bellezza e dolore, che Andrea, l’organista cieco, intonava per le anime dei confratelli defunti. Terminata la funzione, andavamo in sacrestia dove l’arciprete si toglieva i paramenti sacri. Poi io avevo l’obbligo, impostomi da mia madre, di accompagnarlo fino a casa:
-Mi raccomando, cammina tenendolo alla tua destra e poi vieni subito per il pranzo…
Difatti, a quell’ora io boccheggiavo per la fame, anche perché non avevo mangiato dalla mezzanotte precedente per poter fare la comunione e dovevo osservare il digiuno eucaristico che allora vigeva.

Una domenica di agosto, mentre stavamo per uscire dalla sacrestia per andare verso casa, entrò il dottor D’Amica che salutò complimentoso:
            -Arciprete reverendissimo…
Il dottore, con linguaggio forbito come sempre, raccontò all’arciprete i tre miracoli che l’icona della Madonna aveva operato. Il primo consisteva nella piantina secca usata per la benedizione, che era rifiorita fuori stagione. Il secondo miracolo era avvenuto quando la vacca del bovaro Volante aveva mangiato molte piante di avena, ajìna, e stava morendo. La moglie del Volante pregò con fervore quella Madonna e la vacca si alzò e riprese forze. Il terzo miracolo, il più spettacolare, accadde quando il bovaro soprannominato Ndriello, avanzando di notte col carro verso il paese, vide sull’icona un grande globo di luce e pensò che avessero allacciato la corrente elettrica. Il mattino dopo, il globo luminoso non c’era più e non c’era traccia di rete elettrica.
Il dottore raccontò ripetutamente i tre miracoli citando nomi e cognomi dei testimoni pronti a confermare tutto davanti all’arciprete, che ascoltava con sufficienza e senza commenti. Alla fine, come la Madonna volle, il dottore ci lasciò e ci mettemmo in moto verso casa. Io ero molto eccitato e non vedevo l’ora di suonare le campane per radunare il popolo, assistere l’arciprete nell’annuncio dei miracoli, dirlo a mia madre, alle nonne, ai vicini… Aspettavo istruzioni dall’arciprete che rimaneva in silenzio e allora osai chiedere:
            -Cosa dobbiamo fare per i tre miracoli?
L’arciprete rimaneva muto e prima di lasciarlo davanti a casa sua, ripetei la domanda. Allora l’arciprete disse:
-Il dottore aveva già mangiato e non aveva un c… da fare, on avìa chi cazzu u pìattina!

Alla fine, però, la fiducia che il dottore D’Amica aveva riposto nella Madonna della Strada fu ripagata con un miracolo grandissimo e pubblico. Difatti, alla sua morte egli volle che fossero suonate le campane a festa e che in chiesa si cantasse il Magnificat per l’esultanza. Il dottore superò così, lucido e sereno, il malo passo della morte, molto più periglioso delle strade della Calabria.

                                                               Salvatore Mongiardo

18 ottobre 2014




martedì 14 ottobre 2014

RELAZIONE PER LE 13 LOGGE PITAGORA D'ITALIA

JESI-4 ottobre 2014
 STILE DI VITA PITAGORICO
Care Amiche e cari Amici,

Proverò a tratteggiare il modo di vivere dei Pitagorici non solo nelle sue forme esteriori, ma anche nelle motivazioni intime del loro comportamento, cercando di attualizzare ai nostri giorni il modello o stile di vita pitagorico. In questo esercizio mi atterrò essenzialmente alle tre maggiori fonti classiche. Pertanto, le parole e frasi in corsivo di questo mio scritto sono citazioni testuali tratte da:

Porfirio, Vita di Pitagora, Rusconi 1998
Giamblico, La vita pitagorica, BUR 1991
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza 1998.

Pitagora si alzava prima dell’alba a Crotone per scrutare la volta stellata perché credeva che solo a lui, tra gli esseri viventi sulla terra i suoni del cosmo risultassero percepibili e comprensibili (Giamblico 66) e difatti sapeva tendere l’orecchio e fissare la mente alla sublime musica celeste (Giamblico 65). Intanto gli allievi raggiungevano Pitagora che attendeva il sorgere del sole sul mare: quanto al sole, essi si davano pensiero di adorarlo nel momento in cui sorgeva (Giamblico 256). Pitagora poi, accordando sulla lira la sua voce e cantando alcuni antichi peana… danzava al ritmo del canto alcune danze, tutte quelle cioè che pensava procurassero al corpo agilità e buono stato di salute (Porfirio 32). 
Seguiva l’insegnamento che Pitagora impartiva ai matematici, quelli che avevano imparato a fondo ed elaborato nei minimi particolari il discorso scientifico superiore; acusmatici quelli che erano stati ammessi ad ascoltare i soli insegnamenti essenziali (Porfirio 37). Le passeggiate poi non le faceva né solo né in compagnia di molti in modo da esporsi all’invidia, ma in due o tre nei santuari o nei boschi sacri, scegliendo tra i luoghi quelli più tranquilli e più belli.
Se passavano davanti a un tempio, i Pitagorici entravano ad adorare gli dèi non come cosa accessoria, ma partendo di casa a questo scopo (Porfirio 38).
Un acusma, una delle loro massime, diceva: Non accogliere rondini in casa, cioè non ti prendere a vivere sotto lo stesso tetto uomini ciarlieri (Porfirio 42).  

Il Maestro non mangiava nessuna creatura e… a tal punto fuggiva le uccisioni e gli uccisori che non soltanto si asteneva dagli esseri viventi ma non si avvicinava mai neppure a macellai e cacciatori (Porfirio 7). E difatti Pitagora proibiva non solo di uccidere, ma anche di mangiare gli animali che hanno in comune con noi il privilegio dell’anima… E’ sicuro che egli abbia venerato solo l’altare di Apollo Genitore in Delo… per il fatto che si deponevano su di esso soltanto frumento, orzo, focacce senza bisogno di fuoco, e che non vi erano vittime d’animali, come dice Aristotele nella Costituzione dei Delii (Diogene L. 8, 1, 13).

Gli animali erano fratelli minori che l’uomo doveva proteggere e difendere al punto che i Pitagorici escludevano dal loro vestiario anche la lana, che era il vestito dell’animale al quale non si poteva togliere. Indossavano vesti candide e pure, e usavano ugualmente lenzuola bianche e pure, che erano di lino, perché non adoperavano pelli (Giamblico, 100). A fine giornata si recavano al banchetto comune (Giamblico 98), syssitia nel testo originale greco, un uso che Pitagora aveva trovato in Italia dove era stato introdotto da re Italo come base di giustizia sociale distributiva, e che dall’Italia si era diffuso per tutto il Mediterraneo (Aristotele, Politica, 8,10). Lo stesso termine greco syssitia è usato da Filone di Alessandria quando scrive del banchetto comune degli Esseni (Quod omnis probus 86). 
Andavano poi a dormire e, prima del sonno, ciascuno si cantava questi versi: Non accogliere il sonno nei molli occhi prima di aver ripercorso tre volte ciascuna delle azioni della giornata: in qual modo ho sbagliato? Che cosa ho fatto? Qual mio dovere non fu compiuto? Dopo questo minuzioso esame prendevano sonno e, se avevano dei sogni, al mattino li raccontavano come episodi di vita reale: così insegnava il Maestro che aveva appreso l’arte dell’interpretazione dei sogni presso gli ebrei (Porfirio 11).

Diceva un loro acusma: Scompigliare le coperte quando ci si alza dal letto, un invito cioè a dimenticare sogni erotici e sesso (Clemente Alessandrino, Stromata, V, 5). Difatti, il sesso per Pitagora era un osservato speciale in quanto ritenuto gran divoratore di energie le quali dovevano essere indirizzate ad altri scopi. Il sesso licenzioso, come il ventre, era un concorrente pericoloso che assomigliava ai canti omicidi delle Sirene (Porfirio 39) Dei piaceri d’amore diceva che sono gravi in ogni stagione e non buoni per la sanità fisica. Eppure interrogato una volta su quando si debba coire, si dice che abbia risposto: Quando si vuole essere più deboli di se stessi (Diogene L. 8, 1, 9). Il sesso era uno degli aspetti della vita umana che è meglio apprendere tardi… Il ragazzo andrà dunque educato in modo che non ne vada alla ricerca prima dei venti anni; e quando abbia raggiunto questa età, ne faccia un uso moderato (Giamblico 210).

Solo di sfuggita ricordo che anche i numeri, dei quali Pitagora fu il grande razionalizzatore, avevano per i Pitagorici un significato, un rimando, un senso: così il numero diciassette era mal visto e chiamato ostacolo, perché cade fra il numero 16 e il numero 18, i soli numeri che formano figure piane la cui area è uguale al perimetro: per esempio, un quadrato di 4 metri di lato ha un area di 16 metri quadri e un perimetro di 16 metri lineari. Lo stesso vale per il 18 (Plutarco, Iside e Osiride). E’ questa l’origine della diffidenza verso il 17, ancora oggi abbastanza diffusa.

I Pitagorici non facevano nulla a caso. A ogni azione davano un senso, cercavano cioè di destare la coscienza per vincere le ombre dell’esistenza. Aspiravano quindi a una visione ordinata della realtà e ritenevano vera vita solo quella intrisa di significato, rifiutando di conseguenza una visione individualistica e frantumata. 
Insomma, nel Pitagorismo c’era una forte tendenza ad analizzare ed eseguire ogni atto come il vestire, mangiare o studiare, cercando sempre un perché, una ragione, una logica, mai seguendo un istinto o un impulso. Questa forte sovrastruttura costrittiva fu riconosciuta ma rifiutata da un grande coetaneo e quasi conterraneo di Pitagora, il filosofo Eraclito di Efeso, che non amò Pitagora e sentenziò che la sapienza del Samio risulta varia erudizione e brutto artificio (Diogene L. 8,2). Eraclito ricercò, invece, la ragione di tutte le cose, il logos, vivendo solo e imprecando contro il mondo intero.

I Pitagorici affermavano che l’uomo non deve esser lascito libero di fare ciò che vuole. Deve invece sempre esserci un’autorità, un potere legale e autorevole, cui i cittadini siano sottoposti, perché l’essere vivente, una volta lasciato a sé stesso e trascurato, ben presto cade nella malvagità e nel vizio (Giamblico 203).

Il modello di Pitagora fu imitato molte volte nella storia e generò varie forme di vita comunitaria: come, tra gli ebrei, quella degli Esseni che trasmisero a Cristo la dottrina pitagorica, come ho ricostruito nel mio libro Cristo ritorna da Crotone, libro che porta alla luce le radici culturali del cristianesimo come derivanti dal pitagorismo. Del resto l’identità tra Pitagorici ed Esseni è confermata nelle Antichità Giudaiche (XV, X, 4) da Giuseppe Flavio che scrisse:

… noi chiamiamo Esseni… un gruppo che segue un genere di vita che ai Greci fu insegnato da Pitagora…

E’ opportuno quindi chiederci perché mai il modello pitagorico viene rivisitato, rivissuto, reinterpretato nelle varie fasi storiche fino ad arrivare a noi. La risposta non può venire solo dalla veste di lino bianco che indossavano né dalla numerologia nella quale eccellevano né dai rigidi precetti sulla sessualità. La risposta va cercata piuttosto nei principi ispiratori dello stile di vita pitagorico il quale, in sintesi, proponeva l’esaudimento dei bisogni irrinunciabili di ogni persona. Questi principi pitagorici sono da me sintetizzati in numero di sette.


1. Uguaglianza e libertà

Non soltanto gli uomini ma anche donne hanno la stessa dignità (Porfirio 19): a Crotone fu istituita per lui (Pitagora) una associazione di donne (Porfirio 18). In quell’epoca, accogliere le donne come allieve, dare la libertà ai suoi schiavi come Astreo e Zalmosside (Porfirio 13 e 14), come anche liberare dai tiranni le polis di Crotone, Sibari, Catania, Reggio, Imera, Agrigento e Tauromenio (Porfirio 21), fu la grande innovazione di Pitagora. Del resto egli stesso era venuto in Italia vedendo che a Samo la tirannide di Policrate era troppo rigida sicché a un uomo libero conveniva non sopportarne l’autorità e la signoria (Porfirio 9).

2. Comunità di vita e di beni

I Pitagorici vivevano in comune e consegnavano i loro averi agli economi (Giamblico 72) che provvedevano a tutti i bisogni materiali. Era abolito tra di loro il danaro o il possesso esclusivo di cose: misero in comune i loro beni (Porfirio 20). La comunità si stringeva attorno a chi era ammalato o moriva: questo sistema vinceva non solo la solitudine in vita e in morte, ma eliminava anche la paura o l’ansia di non farcela con i propri mezzi. Vita in comune non voleva dire vivere in maniera sciatta o approssimativa: i Pitagorici vivevano sì sobriamente, ma in maniera raffinata. Frequente era questo suo precetto: si deve bandire con ogni mezzo e recidere con il fuoco, il ferro… dal corpo la malattia, dall’anima l’ignoranza, dal ventre il lusso smodato, dalla città la discordia, dalla casa il dissenso, ad un tempo da tutte le cose la mancanza di misura (Porfirio 22).

3. Giustizia

Comunemente, e correttamente, si dice che la giustizia era il fondamento della vita pitagorica, ma è una affermazione che va spiegata. Nei testi antichi i termini sono due: il primo è dikaiosyne (sostantivo femminile singolare), cioè la rettitudine, il sentimento e la pratica della giustizia: per Lui il principio della giustizia risiede nella comunità dei beni, nell’uguaglianza e in una unione tra gli uomini tale che tutti possano sentire come un corpo e un’anima sola e chiamare la medesima cosa mia e tua (Giamblico 167). Tale termine andrebbe più correttamente tradotto con giustezza, la virtù che porta la persona verso il retto comportamento e verso la distribuzione dei beni. L’altro termine, invece, è dìkaia (aggettivo neutro plurale, per esempio in Giamblico 174), anch’esso tradotto con giustizia, ma che indica, invece, diritti e doveri, insomma quanto oggi si tende a chiamare legalità.
Con l’uso differente dei due termini, il Pitagorismo mette in chiaro che senza giustezza non ci può essere legalità: per esempio, se la legge non rispetta la giustizia sociale nella distribuzione dei beni, il debole rimane oppresso proprio dalla legalità.

4. Vegetarismo

Pitagora fu il campione del vegetarismo non solo per il rifiuto sistematico di mangiare carne e pesci, ma soprattutto per il significato che egli dava a tale pratica: Tra le molte ragioni per cui Pitagora formulò il precetto dell’astensione degli animali c’è anche il fatto che questa consuetudine favorisce la pace. Infatti, una volta che ci si fosse assuefatti a odiare come illecita e contro natura la soppressione di animali, si sarebbe reputato ancor più empio uccidere un uomo e non si sarebbero più fatte guerre (Giamblico 186).

Oggi la proibizione di mangiar carne è ancora in vigore in alcuni ordini religiosi come i certosini e i monaci del Monte Athos, che però consumano il pesce. L’unico ordine religioso che escludeva inizialmente sia carne che pesce, è quello dei minimi o paolani, fondato in Calabria da San Francesco di Paola, forse per tradizione orale discendente dal Pitagorismo. I vegetariani e vegani nel mondo sono oggi stimati in oltre mezzo miliardo, e nella sola Italia sono ormai sei milioni in continua crescita. Il pitagorico Empedocle scriveva che il mangiar animali non solo portava l’uomo alla violenza, ma provocava anche disordine nella sfera sessuale (Empedocle, Poema fisico e lustrale). Giova ricordare, di sfuggita, che anche Socrate seguiva il regime pitagorico vegetariano.

5. Non competitività

E’ indubbiamente la dottrina più originale di tutto il pitagorismo, perché vede la competizione e la vittoria come… male! Per Pitagora gareggiare si poteva, ma solo come puro divertimento, senza vincitore né vinto: consigliava di lottare ma non di vincere, pensando che occorreva sopportare le fatiche, ma fuggire l’invidia che viene dal vincere: infatti, anche sotto altri aspetti capitava che i vincitori, pur coronati, non fossero integri (Porfirio 15).  Insomma, la vittoria sporca il vincitore perché lo separa dal vinto e lo fa diventare oggetto d’invidia. Vincere, quindi, come cercare il successo e coltivare le proprie ambizioni, era cosa indegna di una persona perbene, che invece doveva sempre cercare l’armonia: esortava tutti a fuggire l’ambizione e il desiderio di gloria (Porfirio 32).

6. Amicizia

Per Pitagora l’amicizia era il valore fondante della vita e comprendeva tutti i viventi, da Dio all’animale. La filìa, che significa amicizia, amore, benevolenza, tenerezza, abbracciava cittadini e stranieri, marito e moglie, fratelli, congiunti e animali:

Amicizia degli dei verso gli uomini, degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, stranieri, dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli, i parenti; amicizia, insomma, di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a un sentimento di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso… (Giamblico, Vita Pitagorica, 229)… L’amicizia è uguaglianza (Giamblico, 162)… Ma, ancora più degno di ammirazione, è quanto [i Pitagorici] affermavano circa la comunione dei beni diviniSovente si rivolgevano l’un l’altro l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a entrare in comunione con la mente e con l’anima divina (Giamblico 240) … Diventare amici dei propri nemici: (Giamblico 40).

La mia proposta di FILOCRAZIA, termine da me coniato per indicare il governo dell’amicizia tra i popoli, è stata lanciata nel giugno 2014.

7. Religiosità

Fortissimo era il sentimento e la pratica religiosa presso Pitagora e i suoi, che però onoravano gli dei del proprio paese di origine: Pitagora non cercava la conversione, concetto a lui estraneo, e le onoranze agli dèi erano amministrate in forma comunitaria. Nelle fonti e in tutti gli scritti relativi ai Pitagorici non ho trovato nessuna traccia di una funzione o casta sacerdotale esclusiva.

Se vogliamo capire l’intima essenza dello stile di vita pitagorico, possiamo leggerlo in Giamblico (86 e 137):

Tutti i loro [dei Pitagorici] precetti relativi al fare o non fare una determinata cosa mirano al divino. E questo è il principio ordinatore dell’intero loro modo di vivere, nonché il senso della filosofia dei Pitagorici: porsi al seguito della divinità (akolouthein to theò).

E’ legittimo chiedersi cosa significasse per Pitagora porsi al seguito della divinità o seguire il Dio: chi era questo Dio e come lo si poteva seguire? La risposta a questa domanda implica la rivisitazione del fenomeno Magna Grecia che, a mio modo di vedere, non è stato ancora correttamente compreso. Magna Grecia fu l’appellativo che i greci diedero a quella terra che all’incirca ora è la Calabria, con capitale Crotone, unicamente per due motivi:

1.     L’altezza della filosofia di Pitagora: in un’unica lezione, la prima da lui tenuta in pubblico dopo che da solo arrivò in Italia, seppe avvincere con le sue parole più di duemila persone. Queste ne furono così prese che non fecero più ritorno nelle proprie case… e fondarono quella che da tutti fu chiamata Magna Grecia (Giamblico 30).
2.     La vita irreprensibile dei Pitagorici: presero da Pitagora leggi e prescrizioni che consideravano precetti divini e non violavano mai (Giamblico 30). In virtù di queste pratiche di vita accadde che tutta l’Italia si riempì di filosofi; e mentre prima quella regione non aveva goduto di nessuna considerazione, più tardi grazie a Pitagora ricevette il nome di Magna Grecia e vi nacquero in gran numero filosofi, poeti e legislatori (Giamblico 166).

Magna Grecia, quindi, non ha nulla da vedere con la floridità dei commerci o l’opulenza delle polis come Sibari o Crotone o Locri, che mai potevano competere con Atene. La Magna Grecia fu un fenomeno di breve durata, dal 530 al 500 avanti Cristo circa, cioè dall’arrivo di Pitagora a Crotone fino alla sua cacciata dai congiurati capeggiati da Cilone. Durante quegli anni avvenne la straordinaria fusione dei valori italici con la summa filosofica di Pitagora: la proposta culturale sincretica che ne derivò fu universalmente riconosciuta e apprezzata per l’elevatezza dei contenuti.

Difatti, il genio di Pitagora riconobbe nei valori dell’Italia di allora il meglio che si potesse concepire per una buona vita. Quei valori erano: libertà e uguaglianza, comunità di vita e dei beni, vegetarismo. Anche l’offerta che Pitagora fece agli Dei del famoso Bue di Pane, quando scoprì che il quadrato dell’ipotenusa del triangolo rettangolo è uguale alla somma di quelli dei lati (Porfirio 36), era già praticato dalle popolazioni italiche, come ho potuto riscontrare di persona nell’agosto 2014 a Spadola, comune delle Serre Calabresi, dove ancora si pratica da millenni l’offerta della vacca di pane.
Lo stesso Aristotele scrive di re Italo che convertì il popolo degli Enotri da allevatori in agricoltori e primo istituì i sissizi (Aristotele, Politica 7, 10): l’Italia, quindi, nasceva vegetariana in seguito a un cambiamento alimentare dovuto all’agricoltura. Insomma, i valori praticati dagli Itali molto prima di Pitagora, corrispondevano a una esigenza razionale di libertà, giustizia sociale e non violenza, gli stessi dei Pitagorici.

Indagando più in dettaglio, emerge che al tempo di Pitagora era molto praticato in Italia il culto di Diòniso o Bacco, lieo o liberatore, come attesta Erodoto nel secondo libro delle Storie. All’arrivo di Dioniso le donne abbandonavano famiglia e doveri: casa figli mariti focolare spola e telaio, e lo seguivano nei boschi al grido di EVOE’ bevendo vino e diventando baccanti. Durante il rito orgiastico veniva evocato un nuovo ordine sociale che contemplava anche la liberazione degli schiavi. L’espressione seguire il Dio, quindi, potrebbe essere nata come una esortazione, rielaborata da Pitagora, a porsi al seguito del Dio della libertà e della giustizia sociale.
E’ su questa linea che si può spiegare il divieto della schiavitù scritto, per la prima volta al mondo, nelle Tavole di Locri dal legislatore Timeo, allievo di Telàuge, figlio di Pitagora:
Ai Locresi non è dato possedere né schiavi né schiave.

Tutta la vicenda si capisce meglio ricordando che Pitagora non venne a Crotone, ma ritornò a Crotone dove era stato giovanissimo portato dal padre Mnesarco in un suo viaggio (Porfirio 2). Quel lontano episodio della fanciullezza spiega perché il Maestro, che aveva girato il mondo, volle tornare a quella terra che lo aveva colpito per la libertà e il sissizio, il banchetto comunitario al quale tutti partecipavano portando il cibo che dividevano.

L’insegnamento del più grande pitagorico: Cristo

Anche se non venne di persona alla Scuola Pitagorica di Crotone, tuttavia ne assorbì gli insegnamenti e i principi attraverso la comunità degli Esseni, una minoranza ebraica, della quale Cristo in qualche misura faceva parte. Gli Esseni si opponevano al sacrificio di sangue del Tempio di Gerusalemme, celebravano il sissizio ogni sera con pane e vino, erano rigorosamente vegetariani, proibivano la proprietà privata e il danaro (vedi per ogni dettaglio: Martin. A. Larson, The Essene-Christian Faith, Noontide Press 1980; Justin Taylor, Pythagoreans and Essenes Structural Parallels, Peeters 2004).

E’ quanto scrivo nel mio libro Cristo ritorna da Crotone, Gangemi 2013, che documenta come le radici culturali di Cristo affondano nell’antica Italia e nel Pitagorismo. Il mio libro rende giustizia a Cristo e alla proposta cristiana, che non è frutto di un profeta visionario, ma è basata sul rigore dei numeri e della filosofia pitagorica la quale aveva verificato e assorbito i valori italici.

L’individuazione e ricostruzione delle radici culturali di Cristo costituisce, forse, la più grande novità nel panorama storico, antropologico e religioso dei nostri tempi. Questa scoperta, anche se riferita al passato, può avere grande impatto sul futuro. La mia affermazione si basa sulla constatazione che

il modello attuale di governo del mondo è antipitagorico e quindi matematicamente sbagliato.

Il modello pitagorico, invece, basato sui principi già visti, può funzionare perché abbatte la dispersione di energie creata da competitività, violenza, accumulo eccessivo di danaro e sesso smodato.
In conclusione, il modello pitagorico si ripropone oggi in sostituzione di quello attuale, antipitagorico e incontrollabile, per realizzare una qualità di vita migliore e un ordine mondiale più stabile.
Salvatore Mongiardo