lunedì 26 maggio 2014

LA CATTEDRALE DI DIO


All’aeroporto di Manaus, nel cuore dell’Amazzonia, Padre Iginio accolse me e mia figlia Gabriella. Iginio era piccoletto, camicetta e infradito ai piedi. Passammo la notte in città, nella canonica adiacente alla chiesa, officiata da un confratello di Iginio. Il giorno dopo andammo in giro per Manaus, due milioni di abitanti, che alla fine del 1800 conobbe un periodo di floridità con le piantagioni dell’albero della gomma. La città ora arrancava tra bancarelle e negozietti e solo il magnifico Teatro dell’Opera era testimone della gloria passata.
Il giorno seguente Iginio, così lo chiamavamo tralasciando il Padre, ci condusse in macchina all’imbarcadero sul Rio delle Amazzoni, che proprio in quel punto si forma con la confluenza di due grandi fiumi, il Rio Negro, dalle acque nere, e il Solimoes, dalle acque bianche. Da una sponda all’altra il traghetto impiegò più di un’ora e poi sbarcammo ai margini della foresta. Il governo brasiliano aveva costruito di recente una strada asfaltata che però in molti punti era rotta o inondata. Il fondo stradale, come gran parte dell’Amazzonia, è costituito da argilla rossa che si attacca a tutto, ma è instabile. L’Amazzonia è perciò poco adatta all’agricoltura e vi crescono rigogliose solo le piante originarie della foresta o, dove è stato disboscato, l’erba per l’allevamento delle mucche. Ai lati della strada si vedevano ogni tanto casette in legno su palafitte, necessarie a proteggerle dalle inondazioni e dai molti serpenti chiamati indifferentemente cobra. In estate il livello dell’acqua in quella zona si alza di ben sedici metri rispetto all’inverno a causa delle piogge e soprattutto per lo scioglimento delle nevi sulla catena delle Ande. Sopra la vegetazione, ogni tanto svettava maestoso il castagno, alto circa cinquanta metri, un albero che produce un frutto legnoso, grande quanto una noce di cocco, che dentro contiene noci simili all’anacardio. Dopo circa cento chilometri, arrivammo alla cittadina chiamata indifferentemente Careiro o Castagno, abitata da poche migliaia di persone venute dalla foresta o da altre parti del Brasile in cerca di fortuna. Il villaggio, che ha ora una banca, scuole e ospedale, si snoda ai lati della strada principale. Le casette sono in legno, poche in muratura a causa della mancanza di sabbia, necessaria a impastare il cemento. Il fondo alla strada c’è la missione, affidata a Iginio dalla sua congregazione, quella degli Oblati di Maria Vergine, fondata dal sacerdote piemontese Pio Lanteri all’inizio del 1800.
Padre Iginio Mazzucchi è italiano, nato a Ronzo Chienis in Trentino. Perse la mamma all’età di tre anni e il padre a quindici. Decise di farsi sacerdote e, appena conseguita la maturità, i superiori lo mandarono in Brasile dove seguì i corsi di teologia e prese messa. Poi conseguì anche la laurea in letteratura e pedagogia nell’università pubblica e dedicò tutta la vita ai bambini.
Alla missione fummo alloggiati in una decorosa casetta prefabbricata e prendevamo i pasti con una cinquantina di ragazzi che studiavano e imparavano i mestieri. Pasta o riso con pollo o pesce, fagioli, patate. La cucina era sempre aperta e ognuno poteva mangiare a volontà. I ragazzi dormivano nelle camerate, ma non c’erano letti: le amache erano raccolte e appese a ganci sulla parete.
L’idea di compiere il viaggio in Amazzonia, a marzo del 2011, era nata da quando avevo adottato a distanza un bimbo dal nome di Marinaldo, che ora aveva venticinque anni ed era già padre di quattro bei bambini. La missione era affidata alle cure di Joao e della moglie Neia, una coppia deliziosa che si dedicava anima e corpo ai ragazzi e ai bimbi dell’asilo infantile. Dopo alcuni giorni, mia figlia Gabriella rientrò in Florida, dove vive, mentre io avevo ancora un mese di tempo da passare alla missione. Iginio mi portava con sé nelle visite dei nuclei abitati della sua vastissima parrocchia dove il caldo, l’umido e le zanzare non davano tregua. Spesso una gragnuola di tuoni e lampi, seguita da piogge fragorose, toglievano un po’ di umido che si riformava col caldo. Quella zona è molto vicina all’equatore e il cielo è di un azzurro plumbeo, non limpido e trasparente come nel Mediterraneo.
Era la settimana santa e con Iginio andavo per le funzioni di rito nelle varie cappelle di legno sparse vicino ai piccoli centri abitati. Con la sua macchina lui faceva miracoli per non rimanere bloccato nel fango rosso dei ramal, le stradine sterrate che si dipartivano dalla strada principale. A volte era come viaggiare sulle montagne russe su e giù, ma Iginio sapeva il fatto suo. Eravamo in primavera e il livello dell’acqua cominciava a salire inondando strade e foreste. Gli alberi portavano sui tronchi in alto il segno lasciato dall’acqua nelle estati precedenti.
Avevo molto tempo libero e pensai di impiegarlo per risolvere due problemi. Il primo era quello del titolo da dare al mio ultimo libro, ormai completato. Inizialmente avevo pensato a Cristo è arrivato a Crotone, che richiamava troppo Carlo Levi con il famoso Cristo si è fermato a Eboli. Poi avevo pensato a Cristo ritorna a Crotone, che si avvicinava alla tematica trattata, ma mi appariva statico. Era come dire: finalmente è arrivato a casa! Una mattina stavo ad osservare sul terrazzo un uccellino colorato che beccava i piccoli frutti dell’albero di assaì, e pensai che la staticità di un ritorno a Crotone poteva essere superata dal concetto, contenuto nel libro, di seconda venuta di Cristo ripartendo da Crotone. Finalmente avevo il titolo giusto: Cristo ritorna da Crotone.
La notte del sabato santo eravamo andati per la celebrazione in una chiesetta isolata, piena di gente semplice, povera, che però andava avanti con coraggio e cominciava ad avere la luce elettrica che il governo faceva arrivare nei posti più sperduti. Durante il ritorno in macchina, mi misi a canticchiare il meraviglioso inno pasquale:
Victimae paschali laudes / immolent christiani…
Iginio, che celebrava tutto in portoghese, si accodò:
Agnus redemit oves / Christus innocens Patri / reconciliavit peccatores…
Col favore delle tenebre e nel cuore della foresta, potevo finalmente vendicarmi dell’abolizione del latino nella liturgia, quella lingua che avevo studiato per otto anni consultando il vocabolario migliaia di volte!
Il secondo problema era assai più complicato del titolo del libro. Avevo di recente scritto il breve saggio Chi è Dio, che era piaciuto ai miei lettori. A scrivere quel saggio, che ridefiniva Dio come la Massima Emozione, mi ero deciso perché mi sentivo quasi ufficialmente incaricato da Simmaco che, nel quinto secolo dopo Cristo, aveva scritto:
Il problema di Dio è così grande che non lo si può affrontare in un modo solo.
Parlavo di questo con Iginio che mi ascoltava mentre nuotavamo nella grande piscina nel cuore della foresta, dove non era prudente addentrarsi. Un mio tentativo maldestro era finito per fortuna senza complicazioni dopo appena un’ora: ci poteva essere qualche giaguaro, non serpenti che escono di notte per non essere visti dal cielo dagli urubù, gli avvoltoi che volano a schiera, e di giorno danno loro la caccia scendendo in picchiata.
Tra una bracciata e l’altra riandavo con Iginio alle prediche di Pasqua, quando egli aveva parlato della resurrezione di Gesù, un argomento che mi appassionava per la sua complessità. Gesù risorge dopo tre giorni e nessuno lo riconosce, nemmeno i suoi discepoli né Maria Maddalena. Una stranezza! Egli prometteva la vita eterna, ma prima bisognava morire, e lui stesso era morto in maniera orribile. E ancora: noi speriamo nella resurrezione, mentre il mondo orientale spera nella fine del ciclo delle reincarnazioni, spera cioè nella non rinascita per paura di dovere morire di nuovo…! Ecco qual era l’elemento comune: la paura! Dunque, il problema non era la morte in se stessa, ma la paura della morte! Quindi, si potrebbe supporre che, quando l’umanità capirà cosa sia la morte, la morte continuerà, ma non farà più paura. Non era successo così per l’eclissi di sole? Quando non si sapeva cosa fosse l’eclissi, i Fenici offrivano il primogenito vivo in olocausto al dio Baal per paura che il sole non comparisse più. Ora l’eclissi continua, ma non fa più paura: si sa cosa è, quando comincia e quando finisce. Dunque, in sostanza Gesù ci invita verso la scoperta della dimensione morte e, per tranquillizzarci, ci mostra da risorto le piaghe delle mani e del costato … Insomma, i grandi sogni dell’umanità si realizzano sempre: il volo umano, la vittoria sulle malattie, la fine della paura della morte. Ma c’è uno scarto, quasi uno scotto da pagare: i sogni si realizzano, ma non come si pensa. Il sogno di Icaro non si realizzò con le ali di penne animali, ma con il motore per l’aereo. Il sogno di Gesù di vincere la morte si realizzerà, ma il modo dobbiamo ancora scoprirlo: è un compito che spetta all’umanità…
Al termine del mio ragionamento, Iginio si fermò ai bordi della piscina e riassunse il mio pensiero con due semplici termini della filosofia scolastica:
-Tu vuoi dire che il quid, la vittoria sulla morte, si realizzerà, ma il quòmodo, il modo, potrebbe essere diverso dalla resurrezione dei morti…
Dentro di me pensai che in Brasile non c’erano solo danze e carnevale: c’era anche la filosofia di San Tommaso d’Aquino!
Un giorno Iginio mi condusse con una piccola barca a motore a visitare la comunità di Nostra Signora di Fatima, un nucleo abitato nella foresta più vera. Alberi altissimi erano allagati per tutto il tronco e la barca si inoltrava tra i rami. Il silenzio era totale, salvo il canto degli uccelli e il guizzo di qualche pesce. Da dietro un albero spuntò una piroga con alcuni bimbi che si tuffavano nell’acqua con i loro corpi ben disegnati e scuri, la pelle levigata e gli zigomi chiari, quasi luminosi, come tutti gli indi amazzonici. La foresta lacustre si rifletteva sull’acqua, quasi volesse tramortire il visitatore raddoppiando la visione della sua strepitosa bellezza. E un profumo, appena percettibile, aleggiava sull’acqua. Quel profumo lo conoscevo: era antico, sottile, aromatico, buono… Cercai di ricordare il posto dove lo avevo sentito, e alla fine mi ricordai che era simile al profumo dell’alloro nei boschi di Sant’Andrea, il mio paese in Calabria.
La visita si svolse con l’istruzione delle ragazze catechiste che, guidando le loro barchette, erano arrivate dalle case sperdute nella natura: la lezione di Iginio fu di una semplicità disarmante e rasserenante. Durante il ritorno, impressi nella mia mente le immagini di quella foresta che da millenni dava agli uomini, gratuitamente, l’ossigeno da respirare. Commentai questo fenomeno con Iginio che sentenziò:
-E’ grazia di Dio!
Alla fine Iginio mi chiese che impressione mi avesse fatto la foresta sull’acqua, e io risposi:
-E’ la cattedrale di Dio!
Saluto affettuosamente tutta la missione e Padre Iginio, che quest’anno celebra il cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale. Se volete fargli un saluto, la sua mail è: iginiope@yahoo.com.br
                                                                                              Salvatore Mongiardo

venerdì 16 maggio 2014

NATUZZA EVOLO: incontri con Dora Samà

Sono lieto di ospitare nel mio sito l'articolo di Dora Samà, autrice di due biografie sulla Monachella di San Bruno, che narra i suoi incontri con Natuzza Evolo e famiglia.
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LA MISTICA NATUZZA EVOLO A SANT'ANDREA IONIO

Nell'anno 1975 mio fratello Giuseppe, padre gesuita al Gesù Nuovo di Napoli dal 1967, mi ha chiesto se potevo ospitare un ragazzo calabrese nei giorni in cui doveva sostenere esami presso la facoltà di medicina.
Ho accettato, anche perché il mio primogenito era iscritto nella stessa facoltà del secondo Policlinico di Napoli, a pochi metri dalla nostra abitazione, in cui vivevamo dal 1968. Conoscevamo solo il nome del ragazzo da ospitare, Francesco e nient'altro e poi abbiamo appreso direttamente da lui dei poteri sovrannaturali posseduti dalla madre, Natuzza Evolo, della quale fino a quel momento ignoravamo l'esistenza, anche perché in televisione non si parlava ancora di lei.
Nell'estate del 1977, il 13 agosto, Natuzza è venuta con Francesco e con il genero Mimmo (marito della figlia Angela) a trovarmi nel mio paese d'origine Sant'Andrea Ionio, rendendo così felici anche mia madre e mia sorella Teresina.
Natuzza si è dimostrata disponibile al rientro per salutare mio zio Francesco di 92 anni, che sosteneva d'averla già conosciuta e residente a pochi chilometri da Sant'Andrea Ionio, precisamente a Soverato, dove l'abbiamo accompagnata.
Ci siamo sorpresi tutti nel sentirlo esclamare: "Natuzza, è bello rivedervi!" e lei ha confermato di essere stata con lui a Napoli "spiritualmente" (non usava il termine "bilocazione") per volontà di Dio.
Mio zio, infatti, desiderava molto vedere il luogo dove sorgeva la mia casa, in quanto lui conosceva bene solo il centro storico di Napoli, essendo stato commerciante di tessuti.
Il 27 agosto, dopo alcuni giorni dalla nostra visita, il Signore l'ha chiamato a Sé e, verso la fine di settembre, con i miei figli sono rientrata per la ripresa scolastica.
Nel mese di novembre dello stesso anno, nonostante i balconi fossero chiusi, all'improvviso si è diffuso in casa un forte profumo di vaniglia, avvertito anche da mia figlia.
Avendo io già intuito, ho telefonato subito a Natuzza, la quale ha confermato la sua presenza spirituale con mio zio defunto, perché lui, nonostante la mia dettagliata descrizione, aveva ottenuto di nuovo dal Signore la facoltà di poter visitare l'interno della mia casa.
Non posso tralasciare un'altra esperienza vissuta con mia sorella Suor Caterina, quando una sua amica ci aveva offerto di andare in macchina a Paravati, da Natuzza.
Il giovane autista guidava in modo spericolato ad alta velocità e io dietro ero particolarmente tesa perché avvertivo un odore di bruciato, mentre mia sorella in quel momento mi tranquillizzava dicendomi che accanto a noi c'era Natuzza, per un intenso profumo di vaniglia che né io né la donna seduta accanto a me avvertivamo.
Subito dopo, l'autista e il suo amico ci hanno chiesto se stavamo mangiando confetti perché lo sentivano anche loro. 
Il Signore voleva che sperimentassimo anche il dono profetico della Sua Serva devota perché, appena incontrata, prima di salutarci ha detto: "Vi siete troppo spaventati, ma il viaggio di ritorno sarà tranquillo".
Il 26 luglio 1978 è venuta a Napoli con Francesco e il giorno dopo siamo stati a pranzo assieme a mio fratello gesuita. Egli ha ammirato la modestia di Natuzza, la sua profonda umiltà, la semplicità nel modo di esprimersi e, in seguito ai suoi vari viaggi a Paravati, ogni volta con un gruppo di penitenti diversi, ha apprezzato l'apostolato d'amore che svolgeva con spirito di sacrificio, come una vera apostola di Gesù.
In una testimonianza scritta da mio fratello il 2 luglio 2010 (pochi mesi prima della sua morte), ha definito Natuzza "una donna luminosa di fede, di preghiera, di virtù evangeliche" e ha riconosciuto di essere uscito ogni volta dai suoi incontri "trasformato nello spirito, maggiormente disponibile nel servire il Signore".
Essendo priva d'istruzione, mio fratello si stupiva per la sua conoscenza su alcuni argomenti di natura teologica e la riteneva "un'anima ripiena della luce dello Spirito Santo".
Sosteneva che "questa luce soprannaturale le ispirava risposte che si configuravano come altrettante diagnosi per l'anima".
Si è accorto che Natuzza "non riusciva a nascondere un senso di amarezza per la vita spirituale di alcuni sacerdoti, non conforme ai desideri ed alla volontà del Signore Gesù".
Notava in lei lo stesso eroico esercizio di ogni virtù, l'abbandono totale al volere divino e l'amorevole dedizione verso il prossimo, della Serva di Dio Mariantonia Samà, sua guida spirituale fino al noviziato, della quale è ora in corso la Causa di Canonizzazione.
Io sono felice d'avere sentito direttamente da Natuzza il racconto della sua vita e l'affermazione che prima, per ubbidire al Parroco don Clemente Silipo, non parlava con nessuno dei suoi fenomeni soprannaturali, mentre il successore, don Pasquale Barone, l'ha consigliata di raccontare tutto ciò che le accadeva.
Pertanto, nel pomeriggio del 27 luglio 1978 a Napoli è risalita alla sua infanzia, all'incontro con San Francesco di Paola, al giorno della sua cresima, alla sua perfetta adesione al volere del Signore Gesù di usarla come "parafulmine", per soffrire con Lui per la conversione dei peccatori, fino al viaggio al Calvario e alla Sua crocifissione.
Ho scritto testualmente gli episodi che man mano esponeva con semplicità, come quello sulla sua "morte apparente" da ragazza, durata otto ore in casa della famiglia Colloca e, mentre i presenti la ritenevano in fin di vita, lei visitava il Purgatorio e assisteva alla diversa sofferenza delle anime per scontare la loro pena.
In quanto alle anime dannate incontrate in altre circostanze, mi ha detto che erano restie a dire il proprio nome, mentre un professionista ateo, non solo l'ha pronunciato, ma ha insistito di riferirlo a tutti come esempio per convertirsi.
Con Natuzza ha sottolineato di aver avuto "tante belle occasioni dalla Madonna per salvarsi", ma che, purtroppo, non ne ha approfittato ed ha concluso: "Vorrei tornare sulla terra e fare penitenza per quanti granelli di sabbia ci sono nel mare, pur di avere la speranza del Paradiso. Per me, invece, è tutto finito, non c'è niente e sono condannato per sempre".
Natuzza si è soffermata anche sui tormenti e i dispetti del demonio che cercava di allontanarla da Dio e dalla preghiera, nonché sul sollecito intervento della Madonna per consolarla.
La descriveva "piccoletta, dell'età di 15 - 16 anni, scura, bellissima, piena di luce, non la nostra luce, ma una luce diversa". Gli angeli, secondo Natuzza, sono uguali, ma di umore diverso e si spiegava così: "Triste vuol dire che la persona è in peccato mortale. L'angelo mi dice: "Prega, perché questa creatura è sull'orlo del precipizio e ha bisogno di molte preghiere". Quando l'angelo è contento mi dice: "Questa creatura è in grazia di Dio, è vicina al Signore. Dobbiamo pregare perché la conservi sempre così."
Natuzza ha risposto con prontezza e fedeltà alla chiamata di Gesù da quando "l'ha scelta e l'ha usata" da parafulmine per aiutarLo nell'opera salvifica e per pregare, soprattutto, per i sacerdoti poco zelanti e non fedeli al loro ministero. Glieli affidava in ogni Quaresima e spesso si rivolgeva anche Lui con parole forti che racchiudono l'angoscia di un Padre premuroso, come quelle pronunciate il 12 aprile dell'anno 1987, dopo aver detto a Natuzza: "Questa è la prima caduta, offrila per i sacerdoti che mi fanno tanto soffrire".
Dopo aver ricordato loro che il sacerdozio è un Suo dono e dovrebbero apprezzarlo, aggiunge: "Neanche voi temete la morte e cercate di accumulare tesori materiali. Non sapete che dovete lasciare tutto? Non avete terrore di quello che vi aspetta? Convertitevi prima voi e poi convertite gli altri".
Nel corso di ogni Passione emerge la profonda amarezza di Gesù per la malvagità dell'uomo che, per amore del denaro, non si fa scrupolo di spacciare droghe, di uccidere, di non governare con coscienza e della sua insensibilità di fronte a chi muore di fame."
Raccomanda Natuzza di riferire a tutti che "l'uomo che non riflette, nell'altra vita si pentirà, ma ormai sarà tardi e non potrà tornare indietro! Nel mondo c'è tanta malvagità e io scelgo anime per riparare, perché vi voglio tutti salvi" (anno 1985)
La sofferenza di Natuzza, secondo il suo racconto, si accentuava nel percorso con Gesù verso il Calvario, quando alle ore undici del Venerdì Santo iniziava a mancarle il respiro, aveva forte dolore alla testa e al costato e sentiva le frustate inferte al Santo Corpo di Cristo.
Sulla spalla destra le rimaneva il segno della Croce per alcuni giorni, avvertiva un forte dolore e sanguinava anche in tutti i venerdì dell'anno, quando non riceveva le persone e viveva la crocifissione mistica per riparare le offese dei peccatori.
Ha accennato "ai disegni" che si formavano sulla sua maglia, simili a quelli dei fazzoletti.
Rimane un mistero, anche per la scienza, come una goccia di sangue riesca a stampare figure sacre, frasi religiose e preghiere, perché si tratta di un fenomeno soprannaturale. Ho piacere di riportare fedelmente il racconto sorprendente di Natuzza, anche se tralascio qualche sua ripetizione:
"Una volta celebrava un Monaco e, al momento della Comunione, vedendo del sangue sul mio volto, mi ha dato il suo fazzoletto per asciugarmi, che, però, non si è macchiato, in quanto il sangue era rimasto tutto sul mio volto.
Mentre lui mi accompagnava a casa, scendeva con la bicicletta un giovane di vent'anni che mi ha chiesto di "stampargli" il suo fazzoletto col sangue che avevo sul viso.
Io, per amore di Gesù, ho preso quel fazzoletto, che era anche sporco, mi sono asciugata ed è venuta fuori una preghiera, che lo stesso Monaco ha letto: "Purifica, o Gesù, i nostri cuori, benedici e santifica ogni nostra intenzione e ridona alle anime nostre il candore immacolato dei gigli."
Secondo Natuzza non si era stampato il fazzoletto del Monaco né di un altro passante per volontà di Dio, perché il ragazzo, prima miscredente, si è poi convertito.
Nella Passione dell'anno 1978 le ho mandato con Francesco alcuni fazzoletti e farò riferimento a quello di mio fratello e di mia figlia.
Nel primo, al di sopra di alcune figure sacre, si è impressa la frase: "Venite ad me omnes", la stessa che sovrasta l'altare del Sacro Cuore nella chiesa del Gesù Nuovo di Napoli, ove lui era solito celebrare, perché molto devoto sin da ragazzo.
Su quello di mia figlia, invece, è apparsa una frase in francese ("Je suis l'Immaculée Conception"), una corona di spine, un'ostia (completa di sigla con la piccola croce) ed un cuore, al cui interno erano riconoscibili i volti di Gesù e della Vergine, ma restava incomprensibile il terzo volto.
Ho telefonato a Natuzza, la quale mi ha risposto che "l'angelo le riferiva che quella era l'immagine di San Giovanni Battista".
Stranamente, mia figlia, circa dieci anni dopo, frequentando i mercati di antiquariato, comprava spesso quadri ove era presente l'immagine di San Giovanni Battista, mentre nell'anno 2006, recatasi quale volontaria nelle piscine di Lourdes, mi ha informata che esse erano dedicate a San Giovanni Battista.
Semplice coincidenza anche la frase con il luogo delle apparizioni? ... Dal fazzoletto ricevuto da Natuzza nella Passione del 1978, erano trascorsi ben ventotto anni! ...
Invochiamo lo Spirito Santo perché la Chiesa abbrevi il tempo della glorificazione della Serva del Signore, Natuzza Evolo, per indicarla come fulgido esempio e modello di vita cristiana ad ogni infermo, per imparare da lei ad accettare la sofferenza e ad offrirla a Gesù che ci ha redenti, per il trionfo del Regno di Dio e del Cuore Immacolato di Maria, Rifugio delle Anime.
Castelfranco Veneto, 3 aprile 2014
Dora Samà



mercoledì 14 maggio 2014

Prefazione all'ebook di Luigi Elia

Prefazione
Ho letto con molta attenzione il libro dell’amico Luigi Elia, destinato al pubblico sotto forma di libro elettronico. Inoltrandomi nella lettura, ai miei occhi appariva un popolo, una storia, una civiltà alla quale sono legato da un forte sentimento di appartenza.
Luigi esplora accuratamente, con i mezzi della moderna indagine, il cammino millenario dell’alimentazione della Calabria dai primordi fino a oggi, e fa balzare con vivacità una quantità incredibile di pietanze, ingredienti, frutti della terra e del mare che i calabresi hanno inventato per vivere e sopravvivere.
Ma la mia attenzione è stata soprattutto attirata dall’elemento comunitario, che Luigi mette bene in evidenza: il cibo che il calabrese prepara e consuma, strettamente legato alla sua terra, è sempre pensato, preparato e consumato INSIEME, in una famiglia che si apre a tutto il vicinato e al paese. Questo riconferma la mia tesi della Calabria come terra dei SISSIZI, il banchetto comunitario che re Italo pose alla base della nascita dell’Italia.
Altro elemento di pregio del libro di Luigi è la natura essenzialmente vegetariana della cucina calabrese tradizionale: la preferenza per frutta, verdura, cereali, legumi, ulive, vino, con l’uso parco di pesce e carne. Per questo la dieta mediterranea, che a Nicotera fu scoperta e analizzata, richiama i Pitagorici di Crotone, che attribuirono valori sacri e salutari a una dieta vegetariana e rispettosa della vita degli animali.
E infine Luigi mi riconferma nella mia teoria che la Calabria è terra che da e non prende: è il suo destino. La dieta mediterranea, la dieta dell’equilibrio e del benessere, è l’ultimo grande regalo che la Calabria fa al mondo.
Salvatore Mongiardo


LUIGI ELIA
ALIMENTAZIONE E CIBO NELLA CALABRIA POPOLARE
“Continuità e cambiamenti di una civiltà antica”
Antropologia© 2014 Bibliotheka Edizioni




























lunedì 5 maggio 2014

RELAZIONE SU FRANCESCO GRISI


Processi letterari e Mediterraneo nell’opera di Francesco Grisi
Relazione di Salvatore Mongiardo: “L’Italia e il Pitagorismo tra due mari”

Saluto l’egregio Sindaco di Cutro, l’avvocato Salvatore Migale, Pierfranco Bruni, Presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, e tutta la popolazione di Cutro.

Ho incontrato Grisi a Roma una ventina di anni fa in occasione di un avvenimento al Campidoglio e poi ho letto alcuni suoi articoli, un suo scritto su San Francesco di Paola, e ho appena finito ora un suo aureo libricino prestatomi da Tonino Migale, La dolce compagna. E’ il diario lucido e senza alcuna ipocrisia di un ammalato di cancro, Grisi stesso, che sa di dovere affrontare a breve la morte a causa di un tumore maligno. Egli cerca di mettere ordine nel tumulto dei ricordi e nel disordine del presente, ma imperiosa gli si affaccia una visione a Todi e scrive:

Ho amato il mare greco della Calabria ionica. Laggiù il rosso della malattia non vincerà il verde e l’azzurro delle onde... tutto finirà nel colore di Pitagora.

Nell’ultima pagina scrive ancora:

Non mi restano le montagne ma il mare che si alza sugli scogli della Calabria di Pitagora.

Lo scrittore morente torna con un desiderio inestinguibile verso la fiumara di Cutro, ricorda il cavallo bianco e il nonno, pensa ripetutamente, quasi ossessivamente, allo Ionio e a Pitagora...

Una stranezza, mi sembrò all’inizio, poi mi resi conto che una pulsione irrefrenabile spingeva Grisi verso la Calabria, forse la stessa pulsione che ha spinto me a ritornare in Calabria. L’anima di Grisi non vede più i problemi e i disastri della Calabria: per lui rimane la terra del sogno, del grande desiderio, l’approdo definitivo e sicuro. Lui aveva bisogno di un VENTRE CALDO: tutto il resto non conta di fronte alla serenità e placidità che questa terra fa intravedere e promette come un utero materno. Un concetto molto bello che lo scrittore Domenico Raso, morto l’anno scorso, espresse per spiegare il perché del mio ritorno in Calabria.

Ma cosa significa questo richiamo verso la terra e il mare di Pitagora? Ha un senso o è puramente l’ultimo grido nostalgico di uno scrittore morente? In altre parole, da dove proviene i richiamo irresistibile di questa nostra terra? Il richiamo della terra di Pitagora verso Grisi, analizzato attentamente, altro non è che il richiamo che la nostra terra ha già operato verso lo stesso Pitagora. Pitagora cioè è venuto, anzi è tornato a questa terra che da bambino aveva visto e che non aveva mai potuto dimenticare, non per un innamoramento infantile, ma perché in questa terra, che già si chiamava Italia, si viveva in un modo completamente diverso dal resto del mondo.

L’Italia era la terra compresa tra i golfi di Squillace e di Lamezia, come scrive Aristotele, una terra al centro del Mediterraneo, i Mesoghios thàlassa, bagnata da due mari Ionio e Tirreno, terra che permetteva la coltivazione tutto l’anno per la mitezza del clima, specialmente adatta alla coltivazione del grano e della vite. Re Italo aveva fondato l’Italia con il sissizio, il banchetto comunitario dove tutti portavano il cibo che dividevano in parti uguali. Gli Itali non vivevano come gli altri popoli: erano liberi, uguali, amici tra di loro. Aristotele rimarca lo spirito di amicizia che regnava tra gli Itali. Pitagora, che visse in giro per il mondo tra Grecia, Siria, Libano, Israele, Egitto, Mesopotamia, quando dovette decidere dove andare a vivere definitivamente, tornò a quella terra che aveva visto da bambino e che lo aveva tanto impressionato. E sfidò l’Adriatico traversandolo da Corfù a Capo Iapigio, oggi Santa Maria di Leuca. Una traversata nella tempesta, se poi raccomandava ai morenti di pregare gli dei come si fa quando bisogna attraversare l’Adriatico selvaggio.

Il richiamo della Calabria che tutti sentiamo si fonda sui valori che in questa terra sono nati e che si sono diffusi sulle sponde del Mediterraneo con i sissizi: da qui fino alla Grecia, all’Egitto, alla Libia, come attestano gli autori antichi. Il fascino di questa terra deriva dalle regole del vivere che per quei tempi erano veramente innovative e permettevano il buon vivere meglio che in ogni altro posto abitato. Quei valori erano già praticati nell’Italia di allora e furono da Pitagora capiti, enfatizzati, sacralizzati così che in poco tempo l’Italia di allora fu chiamata Magna Grecia, i megale Ellada, per la vita magnifica che si conduceva. Magna Grecia non era tutto il Sud Italia né la Sicilia, ma sostanzialmente la Calabria attuale con parte di Lucania e Puglia: il fondatore della Magna Grecia fu Pitagora e la capitale fu Crotone. Magna Grecia vuol dire valori italici versati dentro la filosofia greca.
La vita pitagorica si distingueva per:

1.     Uguaglianza e libertà

Tutti gli uomini e tutte le donne erano liberi e avevano pari dignità. In quell’epoca, accogliere le donne come allieve nella Scuola Pitagorica e dare la libertà agli schiavi, fu la grande innovazione del pitagorismo.

2. Comunità di vita e di beni

I Pitagorici vivevano in comune ed era abolito tra di loro il danaro o il possesso esclusivo di cose. La comunità si stringeva attorno a chi era ammalato o moriva: questo sistema vinceva non solo la solitudine in vita e in morte, ma eliminava anche la paura o l’ansia di non farcela economicamente con i propri mezzi.

3. Giustizia

Comunemente si dice che la giustizia era il fondamento della vita pitagorica, ma è una affermazione che va spiegata. Nei testi antichi i termini sono due: il primo è dikaiosyne (sostantivo femminile singolare), cioè la rettitudine, il sentimento e la pratica della giustizia. Tale termine andrebbe più correttamente tradotto con giustezza, la virtù che porta la persona verso il retto comportamento. L’altro, invece, è dìkaia (aggettivo neutro plurale), ch’è anch’esso tradotto con giustizia, ma che indica diritti e doveri, insomma quanto oggi si tende a chiamare legalità. Con l’uso differente dei due termini, il pitagorismo mette in chiaro che senza giustezza non ci può essere legalità: per esempio, se la legge non rispetta la giustizia sociale nella distribuzione dei beni, il debole rimane oppresso proprio dalla legalità. La legge italiana che consente retribuzioni spropositate ai manager di Stato è essa stessa fonte di illegalità.

4. Vegetarismo

Pitagora fu il campione del vegetarismo non solo per la pratica sistematica del rifiuto di carne e pesci, ma soprattutto per il significato che egli dava a tale pratica: Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo. Oggi la proibizione di mangiar carne è in vigore in alcuni ordini religiosi come i certosini e i monaci del Monte Athos, che però consumano il pesce. L’unico ordine religioso che escludeva inizialmente carne e pesce, è quello dei paolani, fondato in Calabria da San Francesco di Paola, per tradizione discendente dal pitagorismo. I vegetariani e vegani nel mondo sono oggi stimati in oltre mezzo miliardo, e nella sola Italia sono ormai sei milioni in continua crescita. La riapertura dei sissizi che abbiamo iniziato nel 1995 con il BUE di PANE, come fece Pitagora per ringraziare gli dei senza dover uccidere l’animale, sta ad indicare appunto questo obbiettivo. La violazione di questo precetto pitagorico ha portato ai lager nazisti: il popolo ebraico, che inventò l’olocausto dell’agnello nel tempio di Gerusalemme mattina e sera, finì lui stesso olocausto.

5. Non competitività

E’ indubbiamente la dottrina più originale di tutto il pitagorismo, perché vede la competizione e la vittoria come… male! Per loro gareggiare si poteva, ma solo come puro divertimento, senza vincitori né vinti: era loro proibito anche solo assistere ai giochi olimpici. Difatti, Pitagora affermava che la vittoria sporca il vincitore perché lo separa dal vinto e lo fa diventare oggetto d’invidia. Vincere, avere successo, cercare la propria affermazione, accumulare danaro e coltivare le proprie ambizioni erano cose indegne di una persona perbene, che invece doveva sempre cercare l’armonia. Era esclusa anche la competizione tra più partiti politici che paralizzavano la polis: unico doveva essere il regime e l’opposizione ad esso era considerata secessione da combattere col ferro e col fuoco. La politica odierna, a livello mondiale, è matematicamente sbagliata perché non favorisce l’unità di intenti ma la contrapposizione e la paralisi dei governi.

6. Amicizia

Per Pitagora l’amicizia era il valore fondante della vita e comprendeva tutti i viventi, da Dio all’animale. La filìa, che significa amicizia, amore, benevolenza, tenerezza, abbracciava cittadini e stranieri, marito e moglie, fratelli, congiunti e animali e anche i nemici che bisognava cercare di farsi amici.

 Amicizia degli dei verso gli uomini, degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, stranieri, dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli, i parenti; amicizia, insomma, di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a un sentimento di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso… (Giamblico, Vita Pitagorica, 229)… L’amicizia è uguaglianza (Giamblico, 162)… Ma, ancora più degno di ammirazione, è quanto [i Pitagorici] affermavano circa la comunione dei beni diviniSovente si rivolgevano l’un l’altro l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a entrare in comunione con la mente e con l’anima divina (Giamblico 240) … Diventare amici dei propri nemici: (Giamblico 40).

7. Religiosità

Fortissimo era il sentimento e la pratica religiosa presso Pitagora e i suoi, che però onoravano gli dei del proprio paese di origine: Pitagora non cercava la conversione, concetto a lui ignoto, e le onoranze giornaliere agli dei erano fatte senza sacerdoti. Se vogliamo in breve capire l’intima essenza dello stile di vita pitagorico, possiamo leggerlo in Giamblico (86, 137):

Tutti i loro [pitagorici] precetti relativi al fare o non fare una determinata cosa mirano al divino. E questo è il principio ordinatore dell’intero loro modo di vivere, nonché il senso della filosofia dei Pitagorici: porsi al seguito della divinità.


Il richiamo della terra di Pitagora arrivò forte e chiaro fino al più grande di tutti i pitagorici, al più grande calabrese di tutti i tempi: Gesù Cristo.

Le radici culturali di Gesù non derivano dal mondo ebraico, ma sono gli stessi valori che abbiamo appena elencato e che a lui sono arrivati da questa nostra terra tramite gli Esseni, i pitagorici ebrei.
La stessa Divina Eucaristia istituita da Gesù nell’Ultima Cena era originariamente il sissizio pitagorico, la cena col pane e col vino, che simboleggiava la giustizia sociale attuata:

Dello stesso pane un pezzo a tutti, dello stesso vino un sorso a tutti.

Un altro grande personaggio sentì il fascino di questa terra, San Tommaso D’Aquino, che nella vicina Belcastro si accese di fuoco mistico e di amore sconfinato per il pane degli angeli, la Divina Eucaristia. Dimenticò la fredda filosofia scolastica per comporre gli inni più belli della Chiesa Latina quali Lauda Sion, Pange lingua, Ave verum, Adoro te devote. Ecco perché queste terre, e Cutro in particolare, si possono considerare come la culla dell’eucaristia.

Il libro di Grisi è tutto percorso da sentimenti di profonda religiosità che legano il destino umano al Dio. Finora abbiamo visto perché il richiamo della Calabria è tanto forte da richiamare me, voi, Grisi, Pitagora, Gesù stesso. La Calabria in effetti possiede la chiave del buon vivere: la sua gravissima decadenza deriva dal non aver osservato quelle regole d’oro. La decadenza della Calabria è la prova del nove che bisogna ritornare a quei valori fondanti della prima Italia: una precisa indicazione che vale per tutta l’umanità.

C’è un’altra dimensione nel libro di Grisi: la ricerca del buon morire. Grisi cerca in tutti i modi di rompere il muro del mistero che circonda la morte, ma alla fine conclude con una nobile rassegnazione:

Addio mia bella addio, l’armata se ne va
E se non partissi anch’io sarebbe una viltà.

Noi però abbiamo ora una visione più completa del problema della morte, e intravediamo l’orizzonte nuovo del buon morire, un argomento che si lega strettamente al grano, al pane, all’eucaristia come promessa di vita eterna, alla resurrezione promessa da Gesù. E’ un argomento affascinante che non possiamo trattare ora ma che, se vorrete, anche in onore di Grisi possiamo sviluppare nella prossima FESTA DEL PANE di Cutro l’11 agosto prossimo.

La Calabria ha bisogno di una cosa che tutti noi possiamo fare ogni giorno: amare questa terra. Se noi l’ameremo sinceramente, la Calabria stessa ci dirà quello che dobbiamo fare per il bene di tutti, come lo ha detto a Italo, a Pitagora, a Gesù, a Cassiodoro, a Gioacchino da Fiore, a San Francesco di Paola, a Campanella.

                                                                                  
                                                                                   Salvatore Mongiardo

Cutro - Convegno di domenica 4 maggio 2014