All’aeroporto di
Manaus, nel cuore dell’Amazzonia, Padre Iginio accolse me e mia figlia
Gabriella. Iginio era piccoletto, camicetta e infradito ai piedi. Passammo la
notte in città, nella canonica adiacente alla chiesa, officiata da un
confratello di Iginio. Il giorno dopo andammo in giro per Manaus, due milioni
di abitanti, che alla fine del 1800 conobbe un periodo di floridità con le
piantagioni dell’albero della gomma. La città ora arrancava tra bancarelle e
negozietti e solo il magnifico Teatro dell’Opera era testimone della gloria passata.
Il giorno seguente
Iginio, così lo chiamavamo tralasciando il Padre, ci condusse in macchina
all’imbarcadero sul Rio delle Amazzoni, che proprio in quel punto si forma con
la confluenza di due grandi fiumi, il Rio Negro, dalle acque nere, e il
Solimoes, dalle acque bianche. Da una sponda all’altra il traghetto impiegò più
di un’ora e poi sbarcammo ai margini della foresta. Il governo brasiliano aveva
costruito di recente una strada asfaltata che però in molti punti era rotta o
inondata. Il fondo stradale, come gran parte dell’Amazzonia, è costituito da
argilla rossa che si attacca a tutto, ma è instabile. L’Amazzonia è perciò poco
adatta all’agricoltura e vi crescono rigogliose solo le piante originarie della
foresta o, dove è stato disboscato, l’erba per l’allevamento delle mucche. Ai
lati della strada si vedevano ogni tanto casette in legno su palafitte,
necessarie a proteggerle dalle inondazioni e dai molti serpenti chiamati
indifferentemente cobra. In estate il
livello dell’acqua in quella zona si alza di ben sedici metri rispetto
all’inverno a causa delle piogge e soprattutto per lo scioglimento delle nevi
sulla catena delle Ande. Sopra la vegetazione, ogni tanto svettava maestoso il castagno, alto circa cinquanta metri, un
albero che produce un frutto legnoso, grande quanto una noce di cocco, che dentro
contiene noci simili all’anacardio.
Dopo circa cento chilometri, arrivammo alla cittadina chiamata
indifferentemente Careiro o Castagno, abitata da poche migliaia di
persone venute dalla foresta o da altre parti del Brasile in cerca di fortuna.
Il villaggio, che ha ora una banca, scuole e ospedale, si snoda ai lati della
strada principale. Le casette sono in legno, poche in muratura a causa della
mancanza di sabbia, necessaria a impastare il cemento. Il fondo alla strada c’è
la missione, affidata a Iginio dalla sua congregazione, quella degli Oblati di
Maria Vergine, fondata dal sacerdote piemontese Pio Lanteri all’inizio del 1800.
Padre Iginio Mazzucchi è
italiano, nato a Ronzo Chienis in Trentino. Perse la mamma all’età di tre anni
e il padre a quindici. Decise di farsi sacerdote e, appena conseguita la
maturità, i superiori lo mandarono in Brasile dove seguì i corsi di teologia e
prese messa. Poi conseguì anche la laurea in letteratura e pedagogia nell’università
pubblica e dedicò tutta la vita ai bambini.
Alla missione fummo
alloggiati in una decorosa casetta prefabbricata e prendevamo i pasti con una cinquantina
di ragazzi che studiavano e imparavano i mestieri. Pasta o riso con pollo o
pesce, fagioli, patate. La cucina era sempre aperta e ognuno poteva mangiare a
volontà. I ragazzi dormivano nelle camerate, ma non c’erano letti: le amache erano
raccolte e appese a ganci sulla parete.
L’idea di compiere il
viaggio in Amazzonia, a marzo del 2011, era nata da quando avevo adottato a
distanza un bimbo dal nome di Marinaldo, che ora aveva venticinque anni ed era già
padre di quattro bei bambini. La missione era affidata alle cure di Joao e
della moglie Neia, una coppia deliziosa che si dedicava anima e corpo ai
ragazzi e ai bimbi dell’asilo infantile. Dopo alcuni giorni, mia figlia Gabriella
rientrò in Florida, dove vive, mentre io avevo ancora un mese di tempo da
passare alla missione. Iginio mi portava con sé nelle visite dei nuclei abitati
della sua vastissima parrocchia dove il caldo, l’umido e le zanzare non davano
tregua. Spesso una gragnuola di tuoni e lampi, seguita da piogge fragorose,
toglievano un po’ di umido che si riformava col caldo. Quella zona è molto
vicina all’equatore e il cielo è di un azzurro plumbeo, non limpido e
trasparente come nel Mediterraneo.
Era la settimana santa
e con Iginio andavo per le funzioni di rito nelle varie cappelle di legno
sparse vicino ai piccoli centri abitati. Con la sua macchina lui faceva
miracoli per non rimanere bloccato nel fango rosso dei ramal, le stradine sterrate che si dipartivano dalla strada
principale. A volte era come viaggiare sulle montagne russe su e giù, ma Iginio
sapeva il fatto suo. Eravamo in primavera e il livello dell’acqua cominciava a
salire inondando strade e foreste. Gli alberi portavano sui tronchi in alto il segno
lasciato dall’acqua nelle estati precedenti.
Avevo molto tempo
libero e pensai di impiegarlo per risolvere due problemi. Il primo era quello
del titolo da dare al mio ultimo libro, ormai completato. Inizialmente avevo
pensato a Cristo è arrivato a Crotone,
che richiamava troppo Carlo Levi con il famoso Cristo si è fermato a Eboli. Poi avevo pensato a Cristo ritorna a Crotone, che si
avvicinava alla tematica trattata, ma mi appariva statico. Era come dire:
finalmente è arrivato a casa! Una mattina stavo ad osservare sul terrazzo un
uccellino colorato che beccava i piccoli frutti dell’albero di assaì, e pensai che la staticità di un ritorno a Crotone poteva essere superata
dal concetto, contenuto nel libro, di seconda venuta di Cristo ripartendo da Crotone. Finalmente avevo
il titolo giusto: Cristo ritorna da
Crotone.
La notte del sabato
santo eravamo andati per la celebrazione in una chiesetta isolata, piena di gente
semplice, povera, che però andava avanti con coraggio e cominciava ad avere la
luce elettrica che il governo faceva arrivare nei posti più sperduti. Durante
il ritorno in macchina, mi misi a canticchiare il meraviglioso inno pasquale:
Victimae paschali laudes /
immolent christiani…
Iginio, che celebrava
tutto in portoghese, si accodò:
Agnus redemit oves /
Christus innocens Patri / reconciliavit peccatores…
Col favore delle
tenebre e nel cuore della foresta, potevo finalmente vendicarmi dell’abolizione
del latino nella liturgia, quella lingua che avevo studiato per otto anni
consultando il vocabolario migliaia di volte!
Il secondo problema era
assai più complicato del titolo del libro. Avevo di recente scritto il breve saggio
Chi è Dio, che era piaciuto ai miei
lettori. A scrivere quel saggio, che ridefiniva Dio come la Massima Emozione, mi ero deciso perché
mi sentivo quasi ufficialmente incaricato da Simmaco che, nel quinto secolo
dopo Cristo, aveva scritto:
Il
problema di Dio è così grande che non lo si può affrontare in un modo solo.
Parlavo di questo con Iginio
che mi ascoltava mentre nuotavamo nella grande piscina nel cuore della foresta,
dove non era prudente addentrarsi. Un mio tentativo maldestro era finito per
fortuna senza complicazioni dopo appena un’ora: ci poteva essere qualche
giaguaro, non serpenti che escono di notte per non essere visti dal cielo dagli
urubù, gli avvoltoi che volano a
schiera, e di giorno danno loro la caccia scendendo in picchiata.
Tra una bracciata e
l’altra riandavo con Iginio alle prediche di Pasqua, quando egli aveva parlato
della resurrezione di Gesù, un argomento che mi appassionava per la sua
complessità. Gesù risorge dopo tre giorni e nessuno lo riconosce, nemmeno i
suoi discepoli né Maria Maddalena. Una stranezza! Egli prometteva la vita
eterna, ma prima bisognava morire, e lui stesso era morto in maniera orribile.
E ancora: noi speriamo nella resurrezione, mentre il mondo orientale spera
nella fine del ciclo delle reincarnazioni, spera cioè nella non rinascita per paura
di dovere morire di nuovo…! Ecco qual era l’elemento comune: la paura! Dunque, il
problema non era la morte in se stessa, ma la paura della morte! Quindi, si
potrebbe supporre che, quando l’umanità capirà cosa sia la morte, la morte continuerà,
ma non farà più paura. Non era successo così per l’eclissi di sole? Quando non
si sapeva cosa fosse l’eclissi, i Fenici offrivano il primogenito vivo in
olocausto al dio Baal per paura che il sole non comparisse più. Ora l’eclissi continua,
ma non fa più paura: si sa cosa è, quando comincia e quando finisce. Dunque, in
sostanza Gesù ci invita verso la scoperta della dimensione morte e, per
tranquillizzarci, ci mostra da risorto le piaghe delle mani e del costato …
Insomma, i grandi sogni dell’umanità si realizzano sempre: il volo umano, la
vittoria sulle malattie, la fine della paura della morte. Ma c’è uno scarto,
quasi uno scotto da pagare: i sogni si realizzano, ma non come si pensa. Il
sogno di Icaro non si realizzò con le ali di penne animali, ma con il motore
per l’aereo. Il sogno di Gesù di vincere la morte si realizzerà, ma il modo
dobbiamo ancora scoprirlo: è un compito che spetta all’umanità…
Al termine del mio
ragionamento, Iginio si fermò ai bordi della piscina e riassunse il mio pensiero
con due semplici termini della filosofia scolastica:
-Tu vuoi dire che il quid, la vittoria sulla morte, si
realizzerà, ma il quòmodo, il modo,
potrebbe essere diverso dalla resurrezione dei morti…
Dentro di me pensai che
in Brasile non c’erano solo danze e carnevale: c’era anche la filosofia di San
Tommaso d’Aquino!
Un giorno Iginio mi
condusse con una piccola barca a motore a visitare la comunità di Nostra
Signora di Fatima, un nucleo abitato nella foresta più vera. Alberi altissimi
erano allagati per tutto il tronco e la barca si inoltrava tra i rami. Il
silenzio era totale, salvo il canto degli uccelli e il guizzo di qualche pesce.
Da dietro un albero spuntò una piroga con alcuni bimbi che si tuffavano
nell’acqua con i loro corpi ben disegnati e scuri, la pelle levigata e gli
zigomi chiari, quasi luminosi, come tutti gli indi amazzonici. La foresta
lacustre si rifletteva sull’acqua, quasi volesse tramortire il visitatore raddoppiando
la visione della sua strepitosa bellezza. E un profumo, appena percettibile,
aleggiava sull’acqua. Quel profumo lo conoscevo: era antico, sottile,
aromatico, buono… Cercai di ricordare il posto dove lo avevo sentito, e alla
fine mi ricordai che era simile al profumo dell’alloro nei boschi di
Sant’Andrea, il mio paese in Calabria.
La visita si svolse con
l’istruzione delle ragazze catechiste che, guidando le loro barchette, erano
arrivate dalle case sperdute nella natura: la lezione di Iginio fu di una
semplicità disarmante e rasserenante. Durante il ritorno, impressi nella mia
mente le immagini di quella foresta che da millenni dava agli uomini,
gratuitamente, l’ossigeno da respirare. Commentai questo fenomeno con Iginio
che sentenziò:
-E’
grazia di Dio!
Alla fine Iginio mi
chiese che impressione mi avesse fatto la foresta sull’acqua, e io risposi:
-E’
la cattedrale di Dio!
Saluto affettuosamente tutta
la missione e Padre Iginio, che quest’anno celebra il cinquantesimo della sua
ordinazione sacerdotale. Se volete fargli un saluto, la sua mail è: iginiope@yahoo.com.br
Salvatore
Mongiardo