La sera di San Valentino 2010, ho seguito la trasmissione su TV7 dedicata alla ’ndrangheta condotta da Monica Maggioni, ospite il giudice Gratteri. Sullo schermo scorrevano le immagini di San Luca, della Pietra Kappa, di Bovalino e Locri, sullo sfondo dell’Aspromonte e davanti al mare Jonio, il mio mare. Ho voluto scrivere questa riflessione per testimoniare che c’è un altro modo di interpretare la ’ndrangheta, un fenomeno che parte da lontano a cominciare dallo stesso suo nome. Sharo Gambino scrisse su questo argomento una bellissima pagina per la quale mi complimentai con lui. Sharo ricostruì l’origine della parola che venne coniata ai tempi di Pitagora quando, per merito dei suoi insegnamenti, l’attuale Calabria fu chiamata Magna Grecia. La parola greca era andragatìa, composta da anèr, uomo, e agatòs, buono, cioè una persona onesta senza macchia.
Scriveva Sharo che intorno al 1873, Marco Minghetti, allora Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, confinò trecento siciliani appartenenti alla mafia nell’area di Roghudi, dove si parlava ancora il grecanico, lingua ora ampiamente studiata, che risaliva ai tempi delle colonie greche. Gli abitanti del posto non sapevano come chiamare quei confinati che si comportavano rispettosamente, da persone d’onore, e usarono l’antica parola contratta in ’ndràngheta.
Alla domanda pressante di Monica Maggioni: cosa aveva fatto di Gratteri un magistrato e di un suo compagno di banco un ’ndranghetista, il giudice ha risposto che tutto era dipeso dall’ambiente familiare. La sua affermazione è indubbiamente vera, ma non spiega il fenomeno: il giudice non ha scelto la sua famiglia, se l’è trovata, come è successo al suo compagno di banco.
Ora io mi propongo di dare una spiegazione più approfondita della nascita della ’ndrangheta. E comincio con il sissizio di San Luca, tenuto da me davanti alla casermetta della Forestale, poco lontano dalla Pietra Kappa, nell’agosto del 2002. L’idea di tenerlo a San Luca mi era venuta a Seminara, dove nel 2001 presentai il libro di Santo Gioffrè Artemisia Sanchez, su invito del professor Antonio Piromalli. In quell’occasione coinvolsi per il sissizio Fortunato Nocera, direttore della fondazione Corrado Alvaro di San Luca, al quale piacque l’idea di riprendere il convivio comunitario, il sissizio appunto, che fu l’atto fondativo dell’Italia con re Italo.
In quel periodo io avevo terminato di scrivere il Viaggio a Gerusalemme, per il quale avevo approfondito la materia che ora esporrò. Avevo, tra l’altro, scoperto che i mostaccioli di Soriano erano la continuazione delle forme sostitutive che i pitagorici offrivano agli dèi. Dolci fatti con farina e miele a forma di animali: i pitagorici, Pitagora lo imponeva, rispettavano gli animali come fratelli minori e mai li uccidevano. Per quel sissizio avevamo portato i mostaccioli in un cesto che poggiammo su una lastra di marmo quadrata -forma pitagorica per eccellenza- messa come tavolo davanti alla casermetta della Forestale. Come è stato ripreso dalla troupe del TR3 guidata da Pietro Melia, nel marmo erano incisi il teorema di Pitagora, la stella a cinque punte e altre forme geometriche tipiche dei pitagorici. Rimasi a bocca aperta per la coincidenza: portavo i dolci pitagorici su un marmo con i simboli pitagorici.
Ci misi del tempo per venire a capo di quel mistero, ma alla fine credo di esserci riuscito. Quel marmo era stato altare nella vicina chiesa bizantina di San Giorgio, crollata intorno al 1935, della quale si possono ancora vedere i muri perimetrali. La chiesa fu simile alla Cattolica di Stilo con cinque cupole a cilindro. I decori della chiesa furono trafugati, ma nessuno ebbe il coraggio di appropriarsi dell’altare per la paura che incute una cosa molto sacra, e finì davanti alla casermetta. Dei segni pitagorici incisi sul marmo trovai un riscontro nella Vita Pitagorica di Giamblico (I, 251) quando scrive della dispersione dei discepoli di Pitagora dopo la loro cacciata da Crotone e la morte del maestro:
Si radunarono a Reggio, e lì vissero organizzati in comunità.
La dottrina pitagorica fu ribaltata totalmente dall’avvento del cristianesimo. Per Pitagora uccidere un innocente, anche animale, era il peggiore dei mali perché faceva entrare la violenza nell’uomo. Col cristianesimo invece si predicava la morte dell’innocente, Gesù o l’agnello, come sacra e necessaria per la salvezza del colpevole. Quell’affermazione avrebbe fatto arricciare la barba a Pitagora per lo sdegno: il colpevole che si salva con la morte dell’innocente era esattamente l’opposto del suo principio di giustizia e armonia.
Elemento fondante dei pitagorici, al quale attribuivano la più grande importanza, era il giuramento che si faceva sulla tetraktis, la sacra tètrade - ritorna il quattro-, giuramento che mai poteva essere tradito. Una volta affiliati alla setta pitagorica, lo svelare i segreti della dottrina comportava la morte. Lo stesso Platone, che frequentò la rinata scuola pitagorica per sette anni, usò personaggi immaginari per alcuni suoi Dialoghi per paura di essere ucciso dagli altri pitagorici: aveva difatti scritto una dottrina che doveva rimanere segreta. L’affiliazione pitagorica era a vita, garantiva protezione, aiuto reciproco ed economico, e richiedeva segretezza totale, esattamente come oggi fa la ’ndrangheta. I pitagorici poi erano religiosissimi, veneravano gli dèi e avevano luoghi sacri e altari. E i ’ndranghetisti non giurano sui santini? E in ogni covo di ’ndrangheta non ci sono altari, bibbie e vangeli? Il culto di Hera Lacinia a Crotone non è l’equivalente del culto della Madonna di Polsi, dove si sigillano col giuramento i patti della ’ndrangheta?
Questo mi porta ad affermare che la decadenza del Meridione d’Italia, la Magna Grecia, è stato soprattutto un fatto di cultura, di religione, non tanto un fatto politico: il Meridione sta scontando ancora oggi l’abbandono della cultura pitagorica. Un proverbio latino dice: corruptio optimi est pessima. Il Meridione cadde da un’altezza che altri popoli, affacciatisi più tardi alla storia, non possedevano. La caduta da molto alto provoca sempre sconquasso maggiore.
A me sembra di poter affermare che la ’ndrangheta non si può liquidare con la comoda etichettatura di criminalità organizzata, né si vincerà con leggi e sentenze. E’ una forma temibile di reazione a miseria tremenda, come si può vedere visitando i paesi dell’Aspromonte, nata in una popolazione che, anche se illetterata, aveva ben chiari in mente i capisaldi pitagorici di giustizia, amicizia, rispetto della famiglia, onore. Ci sono poi altri fattori storici che si aggiunsero ad accrescere la decadenza e la miseria della Calabria. Per esempio l’arrivo dei Normanni, appoggiati dalla Chiesa, che instaurarono il feudalesimo al Sud quando al Nord finiva con la nascita dei liberi comuni. Nella storia nulla accade a caso e, se qualcosa ci appare incomprensibile, è perché non ne capiamo le profonde radici. Tanto per esemplificare, riprendo l’eccidio di Duisburg, che ha fatto salire la ’ndrangheta alla ribalta internazionale. A me sembra di potere affermare che, violenza per violenza, quella ’ndranghetista è di qualità migliore di quella tedesca. La ’ndrangheta cerca le cose che tutti vogliamo: benessere, belle case, studi per i figli. Per ottenerli minaccia, impone i suoi gravami, uccide. Non è un bel vivere per niente, ma una possibilità di scampo c’è: basta pagare. Se invece si era bimbi ebrei di pochi mesi o di pochi anni, la madre doveva portarli al forno crematorio: non ci fu nessuno scampo per un milione e mezzo di infanti.
Mi sto impegnando attualmente di creare una Accademia Mondiale Antiviolenza per lo studio e la prevenzione della violenza umana, e sono arrivato alla conclusione che, proprio per la sua spaventosa caduta, la Calabria può adesso liberare tutte le poderose energie che millenni di storia sfavorevole hanno compresso. Non è da oggi che vado predicando che la nuova Civiltà Sissiziale verrà dalla Calabria, appena si capiranno le vere e inconfessabili origini della violenza. In quella civiltà si placherà anche l’angoscia che ha generato tanta voglia di morte in Hitler e nazisti, e i ’ndranghetisti vedranno lo squallore della loro esistenza. Stalinisti, nazisti e ’ndranghetisti sono la nostra faccia oscura, ma sono sempre uomini che vanno aiutati ad uscire dall’inferno.
Il giudice Gratteri forse non sa da dove deriva la sua abitudine, da lui stesso raccontata, di lavorare nell’orto e dormire poco dedicandosi allo studio dei processi. Fare vita ritirata e non indulgere al sonno erano chiari precetti pitagorici. E se vuole vedere la fine della ’ndrangheta, allora ho per lui una buona notizia. Nel 1994, quando stavo per terminare di scrivere il mio Ritorno in Calabria, mi recai in visita alla stupenda Cattedrale di Gerace, fatta con colonne prese dai templi greci. Incontrai in quell’occasione il canonico Gratteri, suo zio che, novantenne, stava sempre in chiesa. U zzìu Ntoni, come veniva chiamato affettuosamente, mi parlò di Calabria, di presente e mi esortò: Vedete di aiutare, se potete! Il suo accorato appello ha trovato ascolto in Papa Benedetto XVI il quale, durante la funzione del Giovedì Santo del 2007, affermò che Gesù non mangiò l’agnello, in quanto era un esseno. Lo storico Giuseppe Flavio riguardo agli Esseni scrive nelle Antichità Giudaiche ( XV, 371):
Si tratta di un gruppo che segue un genere di vita che ai greci fu insegnato da Pitagora.
Io sono convinto, non da oggi, che sta per spuntare il giorno dell’intramontabile sissizio, il convivio tra amici senza nessun spargimento di sangue. Lo celebreremo nella cattedrale di Gerace: quel giorno i calabresi toglieranno Gesù dalla croce, u zzìu Ntoni curerà le sue piaghe e Cristo, Stalin, Hitler, il giudice Gratteri, i suoi compagni di banco ’ndranghetisti e io entreremo nell’onorata famiglia dell’andragatìa.
16 02 2010