venerdì 18 luglio 2014

GRAN SISSIZIO DEL VENTENNALE 2014

GRAN SISSIZIO DEL VENTENNALE
Pineta di Sant'Andrea Ionio (CZ)
Lunedì 18 agosto 2014 ore 19
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Care Amiche, cari Amici, EVOÈ!

Sono passati venti anni dal primo Sissizio, tenuto il 1995 nella pineta di Sant'Andrea. Da allora l’abbiamo portato a San Luca d’Aspromonte, Locri, Santa Caterina, Badolato, Isca, San Sostene, Cerva, Cutro, Crotone, Amantea, Savelli, Viterbo, Roma, e Costa Brava in Spagna. E altre città, in Italia e all'estero, ci chiedono di celebrarlo.
Il Bue di Pane Pitagorico ci fa sempre compagnia ed è diventato il simbolo della fine della violenza. Negli ultimi venti anni l’orizzonte mondiale si è offuscato generando angoscia, insicurezza, squilibri, pazzia e scontentezza tra gli abitanti del pianeta. Tutti viviamo in grave ansia perché le cose vanno male, i sistemi politici non funzionano, la società si disgrega e impoverisce, molte forme di criminalità e droga dilagano.
Non dobbiamo avere paura di questi sommovimenti perché essi indicano, anzi, che si sta chiudendo la prima epoca buia della storia umana, l’epoca dell’empietà e del maschio, e si sta aprendo la seconda epoca luminosa, l’epoca della pietà e della donna. Nella prima, il maschio ha dovuto lottare contro animali feroci e nemici in armi, e ha così creato una società maschilista e violenta.
E’ giunta però l’ora che il maschio ceda alla donna il governo del mondo, perché egli è incapace di risolvere i problemi da lui stesso creati: chi è causa di un problema non può esserne la soluzione. Non è più accettabile che la Terra sia piena di terribili armi nucleari e di distruzione di massa, che i paradisi fiscali trabocchino di depositi finanziari mentre la popolazione mondiale soffre malattie, miseria e fame, che lussuose navi da crociera solchino i mari vicino a gommoni piene di disperati.
Il MOVIMENTO EVOISTA vuole un cambiamento reale, non di facciata, e nasce dal grido di Evoè, col quale le donne di Grecia e Magna Grecia salutavano il dio Dioniso al suo arrivo: esse abbandonavano le case e i lavori domestici per seguire il dio nei boschi. Destabilizzavano così l’ordine sociale di allora, maschilista e militarista come quello di oggi, e ammettevano anche gli schiavi ai riti dionisiaci.
Il governo del mondo deve essere affidato alle donne per attuare essenzialmente tre cambiamenti:
1.     Distruggere gli arsenali militari e le armi
2.     Aprire i forzieri dei paradisi fiscali a beneficio di tutti
3.     Abbassare il livello di violenza tra persone e nazioni.
In alcuni paesi esistono i governi ombra, governi informali che criticano dall’opposizione i governi in carica. Noi chiameremo i governi delle donne, che andremo formando nelle varie nazioni, governi luce: solo la donna può rendere la nostra vita accettabile calmando il maschio dal profondo e togliendogli la violenza dal cuore. E’ la più grande impresa di tutti i tempi e vi invito tutti, uomini e donne, senza distinzione di razza religione cultura, a unirvi in questa magnifica avventura. Non ci saranno lotte di classe né di sesso: noi desideriamo una rivoluzione interiore della mente e del cuore che avverrà con il convincimento e la presa di coscienza. Dai governi luce arriveremo poi ai governi veri e propri delle donne in sostituzione dei regimi attuali.
Per spiegare l’origine, la logica e le attese di questa iniziativa, sto scrivendo e diffonderò in rete il
Manifesto del Movimento Evoista.
Vi aspetto per la storica serata del Ventennale il 18 agosto nella pineta di Sant'Andrea, sulla strada verso la montagna, a 2 km dal centro storico. Divideremo in amicizia i cibi vegetariani che porterete. EVOE’!

                                                                                              Salvatore Mongiardo




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giovedì 10 luglio 2014

LA MADRE DEL VICESINDACO

La madre del vicesindaco
Il vicesindaco si chiamava Bruno Bressi, ed era stato eletto nella lista comunista, capeggiata dall’architetto Francesco Armogida, nelle elezioni comunali del 1948 a Sant’Andrea Ionio. L’architetto Armogida, eletto sindaco, viveva a Roma, nemico professionale e politico del famoso architetto Marcello Piacentini esponente di rilievo del Fascismo, e lasciava la gestione degli affari correnti del Comune a Bruno Bressi: un galantuomo imponente nell’aspetto, cappello, catena d’oro dell’orologio sul gilè e bastone.
All’epoca vigeva la scomunica contro i comunisti, affissa alle porte delle chiese, decisa da Pio XII contro chi votava, leggeva o anche diffondeva la stampa e l’ideologia comunista. Lo stesso Pio XII, però, si era rifiutato di comminare la scomunica ai mafiosi, nonostante gli fosse stata richiesta ripetutamente dai vescovi siciliani già a partire dal 1944. Il papa, infatti, temeva il comunismo più della criminalità organizzata, e utilizzava tutti i mezzi per combatterlo: per lo stesso motivo non aveva scomunicato nemmeno il nazismo, nemico mortale del comunismo. In Italia la mafia votava e faceva votare per la Democrazia Cristiana.
Ma torniamo, ora, a Bruno Bressi che, quando era chiamato al telefono dal Prefetto di Catanzaro, si alzava in piedi e si toglieva il cappello mentre rispondeva a Sua Eccellenza con il massimo rispetto.
Un giorno venne a morire la madre di Bruno Bressi, donna di chiesa e madre esemplare. All’epoca erano sorte contestazioni tra l’arciprete don Andrea Samà e i neo comunisti che a volte erano esclusi dai funerali religiosi.
Non c’era dubbio che i funerali della madre di Bressi dovessero svolgersi in chiesa: le esequie avvennero tutte in latino, come si usava allora. Un grave problema si pose, però, appena fuori dalla Chiesa Matrice, quando la bara venne adagiata ai piedi della gradinata per l’elogio funebre. Si trattava di un breve discorso che doveva enumerare i meriti della defunta secondo uno schema in uso a Sant’Andrea e nel Meridione.
Bruno Bressi, in qualità di vicesindaco comunista, si trovò in una difficile situazione al momento finale dell’addio, quando il copione dell’elogio funebre prevedeva di dire più o meno:
E tu, o madre, va’ in paradiso e prega per noi che un giorno ti raggiungeremo!
Ammettere pubblicamente l’esistenza del paradiso, significava dare ragione ai preti rinnegando la fede comunista, materialista e atea. Non mandare la madre in paradiso, era peggio. Il povero vicesindaco deve aver rimuginato parecchio cercando una soluzione, che trovò e pronunciò nello stupore dei presenti:
E tu, o madre, vai a godere per sempre nel paradiso terreste!
Questo fatto, al quale io bambino non ero presente, mi fu raccontato dall’amico Bruno Lijoi.
Luglio 2014

                                                                                   Salvatore Mongiardo

domenica 6 luglio 2014

Poesie di Cesare Nisticò

TUTTO QUESTO E' IL MIO PAESE

Un passo
Un sospiro
Accanto, il cigolìo della porta.
E il vento che viene di notte
Ululando il suo dolore da lontano.

Ma dentro
Insieme ai fichi le noci le castagne
Il pane
Racconta ancora il suo mistero
alla mia gente
Ed essa comprende e tace

Ecco
Anch’io sotto la cenere
riposo


LA GLORIA

Hai visto mai
l'aurora calabrese
e il canto fresco del gallo
che s'annuncia
e poi scompare.

Hai visto mai il pianto della donna
chiuso, a lutto, sconsolato
pianto duro, dura terra
come la pietra della Santa Immacolata
che col sangue dei cristiani fu eretta
pietra sulla pietra
splendida basilica, luminosa.
Per la Gloria

Cesare Nisticò, luglio 2014

venerdì 4 luglio 2014

LUNA MILIARDARIA

Luna miliardaria


Rosso di rabbia il sole d'agosto
Si abbassa all’orizzonte per dormire.
I fieri massi di granito sardo
Lo irridono mostrando denti aguzzi:
O sole, fiamma divoratrice,
Da milioni di anni resistiamo,
Acqua e vento temiamo, ma non te!

Da Romazzino si alza lentamente
La luna tutta bianca per paura
Del sole non ancora coricato
Sopra il suo letto di porpora e d’oro.
Timidetta si specchia sul Gran Pevero
E poi risplende sopra Porto Cervo
Sicura e altera come una miliardaria
Luna piena di Costa Smeralda.

E guarda verso il mare la Caprera
Ove giace il Leone in sepoltura
Con un respiro che solleva l'onda

Ovviamente gli ultimi tre versi sono tratti dalle Laudi di Gabriele D'Annunzio.

Dedico questa poesia agli amici della Sardegna, con promessa di andare a ritrovarli: Anna, Antonio e Silvia Farre, Mariella e Antonietta Cossu, Lia Pisu, Bartolomea Bulciolu, Livio Macchia, Antonio e Giuliana Bellasich, Charles Cronin, Stefano Favara, Massimo Scardovi, Libero e Marco Balata, Jacqueline e Nicolaus Geretshauser, Bruce Mac Eachern, Heiner e Aki Flaig, John David Rose, Dieter Tetzner, Susy e Sophie Aimé, Rossella e Maria Grazia De Filippi, Maurizio Paterlini, Gianni Branca, Silvio e Silverio, Rosa e Raffaele Pileci, Elio Guariento, Anna Casella, Corrado Pugliese, ecc… ecc… ecc… Chiedo venia a quelli che non menziono.


Luglio 2014

                                                                                              Salvatore Mongiardo

mercoledì 18 giugno 2014

PITAGORA A KAULON E CROTONE




Salvatore Mongiardo



Pitagora a Kaulon e Crotone


Atto unico

 

 

 

 

L’autore acconsente che questa opera sia diffusa e rappresentata liberamente e gratuitamente

 

 

 

 

Nota


Detti, fatti, nomi, situazioni e contenuti, liberamente adattati dall’autore, sono tratti dai seguenti autori antichi:
Aristotele, La Politica
Giambico, Vita Pitagorica
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi
Porfirio, Vita di Pitagora

 

 

 



Scena prima

La scena si svolge intorno al 500 a. C. nella scuola di Pitagora, che aveva sede a Crotone, sul mare, accanto al tempio di Hera Lacinia. Si intravede il tempio con la colonna dorica superstite. Pitagora è seduto su uno sgabello; davanti a lui ci sono gli allievi, vestiti con tunica alla greca, accovacciati su coperte piegate, una quindicina tra ragazzi e ragazze. Pitagora porta la barba a punta e veste alla persiana con ampi pantaloni bianchi e il turbante bianco in testa.
Gli alunni si esprimono con l’accento e il modo di parlare della loro città di origine, cosa sulla quale Pitagora insisteva perché riteneva importante il rispetto della lingua della propria patria. Nella rappresentazione si usa l’accento attuale di Crotone, Reggio, Agrigento ecc…

Pitagora interroga un allievo:
-Empèdocles di Agrigento, dimmi, quali numeri compongono la sacra tètrade?-

Empèdocles si alza e risponde con chiaro accento siciliano:
-Sono l’1, il 2, il 3 e il 4 che sommati formano il 10, il numero perfetto che comprende tutto l’esistente, Dio e l’universo. Dieci o decade infatti significa ricettacolo.

Pitagora:
-Zalèucos della fiorente Locri, perché il filosofo è l’uomo più puro?

Zalèucos, un altro allievo, con accento di Locri:
- Perché ha scelto la contemplazione delle cose più nobili: bello è contemplare l’intera volta celeste ed è bello riconoscere l’ordine degli astri che si muovono. Ma, o divino, se ho risposto bene, dimmi, perché dall’isola di Samo, tua patria, sei venuto a vivere a Crotone? Si dicono tante cose sulla tua venuta, ma nessuno, eccetto te, lo sa veramente.

Pitagora:
-Io non sono venuto, io sono tornato a Crotone. La prima volta venni a Crotone da bambino, all'età di 8 anni, quando mio padre Mnesarco mi condusse con sé in nave. Lui era un bravissimo incisore di pietre preziose. Si montavano come sigilli sugli anelli ed erano molto richiesti dagli uomini ricchi di Crotone e Sibari. Ricordo la grande impressione che provai quando sul mare si profilò la costa e brillarono le tegole di bronzo dorato del tempio di Hera Lacinia: Italia! Italia! gridarono i marinai.

Gli allievi balzano in piedi e gridano ripetutamente insieme, accompagnati da fortissimo strepito di piatti e tamburi: Italia! Italia! Poi si siedono.

Pitagora continua:
-Eravamo giunti a Crotone d’Italia! Mio padre fece buoni affari vendendo i sigilli e tornammo a Samo, ma, quando vidi scomparire all’orizzonte le montagne selvose d’Italia, fui molto triste.

Pitagora si rivolge a un’allieva:
-Tirsenìs di Sibari, bando ai ricordi, parlami ora dell’amicizia.

Tirsenìs:
-Amicizia è benevolenza nei confronti di tutti, degli dèi verso gli uomini e degli esseri umani tra di loro, cittadini e stranieri. Dell’uomo per la moglie, per i fratelli, i congiunti e anche per gli animali. Amicizia anche del corpo con se stesso attraverso la pacificazione delle forze che contrastano dentro di noi. Ma, o divino, perché non continui il racconto della tua vita, da quando bambino lasciasti Crotone fino al tuo ritorno? Noi ardiamo dal desiderio di sapere dove hai viaggiato e cosa hai visto per il mondo. E’ vero che sei stato fino a Babilonia e che hai conosciuto Zaratustra?

Pitagora:
-E’ vero. Tornato da Crotone a Samo, mi accolse mia madre Partènide, la donna più bella dell’isola. Poi, da giovane, visitai le isole greche e fui iniziato a tutti i misteri. Partii per la Fenicia, soggiornai in Israele, visitai anche la Siria e andai poi in Egitto. Lì rimasi per 21 anni e appresi dai sacerdoti la geometria, l’astronomia e la scrittura dei geroglifici. Oh, che meraviglia la sfinge misteriosa e le tre grandi piramidi, il Nilo che scorre maestoso fecondando i campi! Quando poi il re persiano Cambise conquistò l’Egitto, fui portato con lui a Babilonia. Lì appresi le dottrine dei magi che mi insegnarono musica e scienza e conobbi Zaratustra, che mi spiegò la sua dottrina del dio del bene e del dio del male. Rimasi a Babilonia 12 anni, ammirando i giardini pensili e le folle multicolori che riempivano le strade. Ora tu, Kàlais di Reggio, dimmi, in poche parole, qual è la nostra dottrina?

Kàlais, un allievo con accento reggino:
-Occorre estirpare con ogni mezzo la malattia del corpo, l’ignoranza dell’anima, la smoderatezza del ventre, la secessione della città, la discordia della casa e l’abuso di qualunque cosa. Tutti i nostri beni devono essere in comune. Onora l’amico che è come un altro te stesso. Dobbiamo andare in soccorso della legge ed essere ostili all’illegalità. Ma, o divino, non ci tenere con il fiato sospeso, continua il racconto della tua vita!

Pitagora:
-Vi racconterò tutto, ma ora è tempo di onorare il Dio con la danza e la musica!

Le allieve danzano alla maniera antica. Entrano in scena suonatori di zampogna, flauto, sistro e lira, e accompagnano le danze con motivi lenti e dolci.

Alla fine della danza tutti si siedono e Pitagora continua:
-Quando tornai a Samo avevo 56 anni, e dopo aver tanto viaggiato, mi sentivo straniero in patria. Il tiranno di Samo, Policrate, mi volle con sé per governare l’isola. Dopo tutti gli sforzi per apprendere il sapere, mi ritrovai in mezzo alla politica. Quanti imbrogli, quante menzogne, quanta gente ho visto cambiare opinione per avere un utile immediato. Tradimenti, inganni, soprusi. Non era quello il mondo che avevo sognato. Mia madre Partènide mi guardava, vedeva la mia scontentezza e un giorno mi disse che mi avrebbe seguito dovunque volessi andare. Allora capii che era giunta l’ora di tornare a Crotone, la città che mi era rimasta sempre nel cuore. Ci imbarcammo su una nave, ma, nel golfo di Taranto, fummo sorpresi da una furiosa tempesta. Venne la notte e i venti aumentarono, strapparono le vele e la nave rimase in balia delle onde: i rematori ritirarono i remi inutili invocando pietà dagli dèi. Mia madre si strinse a me aspettando la fine e allora capii, sentendo il suo cuore battere, che nessuna tempesta può vincere il cuore di una mamma, e la mia anima si aprì alla speranza. Okkelò di Lucania, dimmi ora, perché la speranza mi salvò nella tempesta?

Okkelò, un’allieva, risponde:
-Perché bisogna sperare in Dio. Per Dio non ci sono cose possibili e cose impossibili. Tutto Dio può compiere e non c’è nulla che non possa compiere.

Pitagora:
-Hai detto bene! E Dio, che pregavo ardentemente, mi fece intravedere, al bagliore di un lampo nella notte, le tegole dorate del tempio di Hera, che avevo visto brillare da bambino. Allora gridai: Italia! Italia! I rematori ripresero coraggio e gridarono: Italia! Italia!

Anche gli allievi balzano e gridano al suono di piatti e tamburi, ripetutamente: Italia, Italia!

Poi tutti cantano con accompagnamento di musica:

Italia, Italia, salvezza al navigante
Italia, Italia, speranza all'emigrante
Italia, Italia, un sogno di bellezza.
Italia, Italia, destino di grandezza.


 

 Scena seconda



Siamo sempre alla scuola di Pitagora, che passeggia tra gli allievi e poi si siede sullo sgabello. Un allievo di Kaulon, Kallìmbrotos, gli rivolge la parola:

Kallìmbrotos:
-O divino, nella mia città, Kaulon, si racconta che, quando io ero bambino, tu sei venuto per rendere mansueta l’orsa bianca che uccideva gli abitanti. Ti supplico, raccontami come sono andate le cose!


Pitagora:
-E sia, o Kallìmbrotos! Gli abitanti di Kaulon mi mandarono messaggeri pregandomi di liberarli da una feroce orsa bianca che uccideva gli abitanti. Tutti conoscevano la mia pietà per gli animali: non si può uccidere né mangiare quanto contiene la vita, né carne né pesce. Come è possibile condurre animali al macello, farli cuocere per soddisfare il piacere e la ghiottoneria? E’ un terribile misfatto, un crimine orrendo! Allora mi misi in cammino da Crotone con alcuni amici. Arrivati a Squillace dovemmo salire sul grande scoglio e ridiscendere per poter continuare, passammo la Daulia boscosa e finalmente arrivammo a Kaulon. Di sera l’orsa bianca arrivò, io mi avvicinai e le parlai a lungo, molto a lungo nell'orecchio. L’orsa capì che io la volevo aiutare, diventò mansueta e finché visse si recò sulla piazza senza fare alcun male a nessuno. Era diventata umana.

(Qui si può introdurre una scena di Pitagora che nell'agorà di Kaulon va incontro all'orsa aggressiva, lui le parla all'orecchio e l’animale si ammansisce e si accovaccia ai piedi del filosofo)

Pitagora riprende rivolgendosi a Teano, la bellissima moglie di Pitagora, di 40 anni più giovane di lui, e anche sua allieva:
-Tu, mia diletta Teano, ripeti, adesso, perché bisogna rispettare gli animali.

Teano:
-Mio caro sposo, è la dottrina che più amo e che ho trasmesso ai nostri figli, Telàuge e Muià. Con gli animali abbiamo in comune la vita. Gli animali sono a noi familiari e amici, non bisogna far loro alcun male, mai ucciderli e cibarsene, ma considerarli fratelli minori ed aiutarli. Ho notato che tu stai lontano perfino dai cacciatori e dai macellai, tanto hai in orrore il sangue!

Pitagora:
-Diletta Teano, quando giunsi a Crotone ero già sessantenne, filosofo vecchio e deluso. Avevo girato il mondo, imparato tutti i misteri, ma il mio cuore non era contento. Poi il tuo sguardo sereno, l’amore sbocciato tra noi, ha portato il caldo nella mia vita. La filosofia vi aveva portato luce, ma non calore. L’amore di donna è la cosa più delicata ed elevata dell’universo. Per amore, o Teano, hai capito che l’essenza della mia dottrina è la fine della violenza: questo avverrà quando non si uccideranno più gli animali. Se non osi uccidere l’animale, mai oserai uccidere un uomo e ancor meno fare la guerra!

Tutti gli allievi si alzano e recitano, scandendo lentamente, alla maniera di un coro greco:

L’amore di donna è nobile e delicato,
L’amore di donna è il fiore dell’universo.
Se non uccidi l’animale, non ucciderai l’uomo:
Sacro è il vivente perché ha in sé la vita!

Leòkritos, un allievo di Cartagine, si alza e parla nella sua lingua incomprensibile:
-Gli ma ro ne Italia ta nov ta torest quat noc ib nafuz obram…

Pitagora lo interrompe:
-Amico Leòkritos, è vero che io insisto perché ognuno parli nella propria lingua, ma la lingua di Cartagine è incomprensibile. Per te facciamo un’eccezione, ripeti nella nostra lingua quello che hai appena detto in cartaginese.

Leòkritos:
-Volevo chiedere se è vero che questa terra che si chiama Italia prima si chiamava Enotria e che un certo re Italo le diede il nome e fondò i sissizi…

Pitagora si rivolge a un allievo, Ippòstratos:
-Ippòstratos di Crotone d’Italia, rispondi tu alla domanda del nostro amico di Cartagine!

Ippòstratos:
-Questa terra prima si chiamava Enotria finché re Italo convertì quel popolo dalla pastorizia all'agricoltura e diede il suo nome agli abitanti che si chiamarono Itali e la terra si chiamò Italia. Italo stabilì che la base della civiltà era l’amicizia, perché solo nello spirito di amicizia si può vivere bene. Per favorire l’amicizia egli fondò il sissizio, il banchetto comune, dove ognuno portava il cibo che divideva con gli altri.

Pitagora:
-E sarebbe il caso che tutti ripetessero il rito nobile del sissizio! Adesso, o Archìtas di Taranto, tu che sei il più acuto nella geometria, spiega quali sono le proprietà di un triangolo rettangolo.

Archita, un allievo:
-Il quadrato costruito sull'ipotenusa di qualunque triangolo rettangolo è sempre uguale alla somma dei due quadrati costruiti sui cateti! Non riesco, o divino, a capire come tu abbia scoperto una legge così importante!

Pitagora:
-Sappi, o Archita, che il teorema del triangolo rettangolo è solo la parte dimostrativa di una legge più importante che è la seguente: se uccidi l’animale, la violenza entrerà nell'uomo e restituirà all'uomo la violenza data all'animale. Questo sarà sempre vero come sempre sarà vero il teorema del triangolo rettangolo! Non dimenticatelo mai!

Si alza un altro allievo, Parmìskos, che chiede:
-O divino, ieri sera ho offerto una corona di fiori per mio padre che è morto. Questa notte mi è venuto in sogno e mi ha parlato! Mi ha abbracciato tutto contento! Mi ha anche detto di non preoccuparmi di niente… Mi sono svegliato tutto agitato e felice, era così viva la sua immagine, così chiara la sua voce! Dimmi, che significato ha quel sogno?

Pitagora.
-Caro Parmìskos di Metaponto, non è un significato, è una realtà. Tu hai parlato a tuo padre esattamente come ora stai parlando a me. La realtà è vasta ed abbraccia le cose visibili e quelle invisibili, la veglia e il sonno. Ho imparato la dottrina dei sogni dagli ebrei di Israele, dove pure ho vissuto studiando i loro usi e costumi.

Tutti gli allievi esprimono stupore parlottando tra di loro.

Pitagora continua:
-Voi vi meravigliate per quello che ho detto? Allora io vi dico che c’è una provvidenza, un ordine che governa tutte le cose. Il Dio ha voluto che io venissi in Italia perché questa terra è a lui cara e perché io vi seminassi la sapienza appresa da tutte le genti. In questa terra la filosofia vivrà perenne e passeranno millenni, ma, quando al Dio piacerà, rifiorirà per aiutare le umane sorti: dall'Italia verrà la nuova civiltà del mondo!  Già adesso alcuni chiamano questa terra Megàle Ellàs, Magna Grecia, non per la ricchezza delle città e la floridità dei commerci, ma per la grandezza e la diffusione della nostra dottrina. E tu, mia diletta Teano, assieme alle altre donne, va a impastare un pane a forma di bue. Quando sarà cotto lo offriremo al Dio per ringraziarlo e faremo un sissizio con musica e danze!


 

Scena terza e ultima


Si vede una madia di legno dentro la quale le allieve impastano la farina con acqua. Parlano tra di loro e si consigliano:

Una dice:
-Metti un po’ più di acqua di mare, se no il pane viene scipito.

L’allieva alza un’anfora e versa acqua nella madia:
-Ho attinto quest’acqua dal Ionio stamane, quando il sole si levava all'orizzonte.

Gli allievi stanno attorno a guardare e scherzano. Uno dice:
-Se fate il bue troppo grande non entrerà nel forno!

Un’allieva gli risponde:
-Vuoi che proviamo a mettere te nel forno per vedere se entri?

Finito l’impasto danno forma al bue. Una dice:
-Non fargli la coda troppo sottile, sembra quella di una capra!

L’altra risponde:
-Allora la faccio grande quanto la tua gamba!?

Un’altra ancora:
-Queste corna sono grandi come quelle di un bue lucano!

Un’altra ancora risponde:
-Meglio, a chi toccheranno le corna avrà di che mangiare!

Finiscono di dargli la forma e lo coprono per farlo lievitare.

Teano, moglie di Pitagora, incoraggia le allieve:
-Amiche mie care, aspettando che il bue lieviti, danziamo in onore delle Muse, simbolo della concordia: un solo nome ne indica sette!

Le allieve danzano lentamente sulla scena e a lato appaiono gli allievi che a turno recitano, a voce alta, le massime pitagoriche.

Primo:
-Onora i genitori e i parenti prossimi e fatti amico degli uomini virtuosi.

Secondo:
-Domina il ventre, il sonno, la lussuria e l’ira, pratica la giustizia nelle opere e nelle parole.

Terzo:
- Ogni uomo è a se stesso causa del proprio bene e del proprio male.

Quarto:
-La vittoria non è buona perché genera invidia. E’ bello gareggiare con gli amici senza vincitori né vinti perché la vittoria sporca il vincitore.

Quinto:
-Molti dolori devono sopportare i mortali: la parte che ti tocca, sopporta con coraggio e non lamentarti.

Sesto:
-Sii fiducioso, o uomo, perché divina è la stirpe dei mortali. Non odiare il tuo amico per un piccolo sbaglio! La famiglia è tutto, conservala nell'armonia!

Settimo:
-Non cercare gloria né ricchezze, non accumulare sostanze. Dona ogni tuo avere alla comunità e non trattenere nulla per te!

Finite le danze e la recitazione, un’allieva accende il forno con le fascine. Tutti si danno da fare per mettere il bue a cuocere nel forno. Poi le allieve, una alla volta, avanzano al centro della scena e recitano a voce alta i precetti pitagorici. Nel sottofondo si sente una musica arcaica.

Prima:
-Non passare oltre la bilancia, cioè non prevaricare.

Seconda:
-Non attizzare il fuoco col coltello, cioè non eccitare con parole taglienti chi è in collera.

Terza:
-Non sfrondare la corona, cioè non violare le leggi.

Quarta:
-Non mangiare il cuore, cioè non tormentarti con l’ansia del domani.

Quinta:
-Non accogliere rondini in casa, cioè non vivere insieme a persone ciarliere.

Sesta:
-Non stare seduto sul moggio, cioè non vivere ozioso.

Settima:
-Non camminare per le vie frequentate dal popolo, cioè segui solo le opinioni dei pochi e colti.

Entra in scena Pitagora e tutti fanno silenzio al suo ingresso.

Teano, la moglie, dice:
-Mio diletto sposo, fra poco il bue sarà cotto. Vuoi disporre per l’offerta?

Pitagora:
-Oggi è giorno memorabile, abbiamo risparmiato la vita all'animale e offriremo al Dio un bue di pane. Mai i nostri altari si macchieranno di sangue!

Teano apre il forno e toglie il bue che viene mostrato al pubblico. Le allieve lo adornano di fiori e lo adagiano sull'altare di marmo che sta a lato della scena. Pitagora stende le mani sul bue, tutti stendono le mani, palme in su in segno di offerta, e cantano:

O Dio dell’universo,
Il bue noi ti offriamo
Fatto di spighe d’oro
D’Italia il biondo grano,

Da noi allontana i mali
Dacci concordia e pace
Salva la nostra Italia
Di cuore Ti preghiamo.

Poi Pitagora e Teano spezzano il bue, lo danno agli allievi e allieve che lo distribuiscono ai presenti.




Fine





Revisione del 18 giugno 2014 del testo inizialmente dal titolo Italia Italia


sabato 14 giugno 2014

IL PANE DI GESU'

Sono lieto di ospitare due pezzi di grande suggestione dell'amico Cesare Nisticò

Il pane di Gesù

Darò il Tuo pane, Gesù
A chi non mi ama.
Perché, se un mio fratello non mi ama,
Se mi odia, mi detesta,
Può darsi che abbia delle ragioni per farlo.
O può darsi che voglia farmi del male ingiustamente,
A causa del male che è in lui, così come è in me,
Che vivo come un cieco dentro il male.
In un caso, o nell'altro, io gli offrirò il Tuo pane.
Lo posso fare perché Tu me lo hai donato, prima,
Mentre ero nelle tenebre dell'ignoranza.
Tu me lo hai offerto gratuitamente
Per liberarmi dalle tenaglie del male.
E così mi hai insegnato a dare il pane.
Non mi hai detto "occhio per occhio, dente per dente"
Ma hai voluto spezzare le catene del male, del mio male,
Offrendomi il Tuo pane. E mi così mi hai salvato.
Adesso anch'io lo voglio offrire ai miei fratelli,
Non come chi si sente puro e incolpevole, per sanare i malati,
Ma come chi si sente malato anch'egli.
Pero ché offrendo il Tuo pane non salvo solo mio fratello,
Offrendogli il mio amore,
Ma salvo anche me stesso
Invero ché il Tuo pane ci libera, insieme,
Dalle catene del male.
Offriamo dunque il pane ai nostri fratelli
Offriamocelo reciprocamente, scambiandoci il pane di Gesù
Spezzandolo insieme,
Mangiamolo insieme scambiandoci i pezzetti di pane.

Cesare Nisticò

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Offerta a Gesù

In memoria di Gino (cognato dell’Autore)

Gesù sta soffrendo ancora.
Non ha smesso di soffrire dopo la sua morte.
E la nostra sofferenza è il migliore legame con lui. Forse l’unico.
Noi possiamo comunicare con Gesù grazie alla nostra sofferenza: pensa quale valore ha il dolore. E cosa possiamo offrire, di nostro, a Gesù, che egli non ci abbia già dato, se non la nostra sofferenza?
Essa ci mette in comunione con Gesù in maniera speciale, in maniera particolare.
Qui c’è un grande mistero.
Maria, accogliendo Gesù nel suo grembo materno, accoglie il dolore. Non solo il suo personale dolore che la condurrà sul Golgota a straziare il suo cuore nel vedere il figlio morente, ma, con esso, misteriosamente, attraverserà e farà suo tutto il dolore del mondo. La spada che ha trafitto il suo cuore immacolato, penetrando fino in fondo, l’ha condotta nel mistero del dolore, di un dolore più grande: l’immenso dolore del mondo. Essa ha accompagnato il suo figlio fino ai più remoti angoli della terra, per conoscere tutto il dolore del mondo, e portarlo nel suo cuore così come ha portato in grembo Gesù.
Anche il nostro cuore, vaso prezioso che accoglie il nostro dolore, non è di pietra, ma di carne. Con il nostro cuore proviamo il dolore. Ma con il nostro cuore proviamo anche l’odio, il rancore, e mille alti sentimenti che ci fanno brutti: l’invidia, la brama di possedere, la vanagloria del potere, e mille altre brutture. Lo stesso cuore accoglie tutti i sentimenti, quelli buoni e quelli cattivi.
Se questo vaso prezioso lo ripuliamo per bene, svuotandolo di tutti i cattivi sentimenti e lo riempiamo di rose profumate, allora vedremo il miracolo apparire: dovunque noi andremo, sbocceranno fiori belli e profumati. E quando visiteremo i luoghi bui e tenebrosi, dove alligna il male e la sofferenza, porteremo, al nostro passaggio, sollievo e ristoro, e persino gioia, con l’aiuto di Dio. Come faceva Gesù, che al suo passaggio scacciava il dolore e portava la felicità. Noi la felicità non la conosciamo, e neanche la vogliamo. Non si può desiderare ciò che non si conosce.  Siamo stati tanto lontani da essa che non ne abbiamo quasi più neanche il desiderio. Eppure, abbiamo come una nostalgia di qualcosa che non sappiamo definire ma di cui, per intuito, avvertiamo l’esistenza. Per ritrovarla, ascoltiamo e osserviamo. E se ci fa paura l’enorme distanza che ci separa da essa, vi rivelerò un segreto per conquistarcela subito: appartatevi in un luogo tranquillo, chiudete gli occhi, incrociate le mani e chiedete a Dio di farvi la grazia di fare la sua conoscenza. Nei giorni seguenti, seguite gli impercettibili segnali che vi guideranno sulla vostra personale e unica strada finora inesplorata. Sono cose semplici, apparentemente insignificanti, ma fidatevi del vostro cuore che saprà riconoscerle. Non siate ottusi. Non anteponete il vostro intelletto e tutto l’armamentario di preconcetti intellettuali: bisogna avere fiducia chiedendo sempre al Signore di tenerci per mano mentre attraversiamo il sentiero buio e sconosciuto. Dopo un po’ di tempo, verrà il giorno e si vedrà tutto chiaramente, anche con la luce dell’intelligenza, ma prima bisogna fidarsi. Non è difficile se apriamo il nostro cuore all'amore di Dio. E se quest’amore lo faremo nostro, questa è la fede. 

Cesare Nisticò


giovedì 12 giugno 2014

VANGELO DI MONASTERACE


Vangelo di Monasterace
Città corrispondente all’antica polis magnogreca di Kaulon

Ho dato questo nome al nucleo di fatti e detti dell’infanzia di Gesù, ascoltati a Monasterace (RC), e registrati in cassetta nel 1993. La registrazione avvenne a casa della mamma dell’amico Cesare De Leo, la signora Lucia, deceduta nel 1996. La signora Michela Origlia ha inciso, nel dialetto di Monasterace, il racconto che ho trascritto in italiano, apportando il minimo possibile di variazioni. A me sembra che questo Vangelo sia un reperto prezioso, perché rispecchia i vangeli apocrifi, soprattutto i due che ho appena riletto per confronto: il Vangelo dell’infanzia arabo siriaco e il Vangelo dell’infanzia armeno. E’ da notare che l’episodio dell’attraversamento del campo di lupini era noto anche a Sant’Andrea, e mi fu narrato da mia madre. Si può ragionevolmente pensare che il Vangelo di Monasterace si sia formato nei primi secoli del cristianesimo, e un dibattito tra specialisti potrebbe chiarirne meglio la genesi e i contenuti. Particolarmente interessante, e unica per quanto ne so io, la vicenda del lievito del pane, che, secondo le più antiche dottrine indiane ayurvediche ed ebraiche, fa male. Il lievito rubato alla Madonna forse riecheggia l’introduzione del lievito nella panificazione occidentale. Dedico questo vangelo alla memoria della signora Lucia e delle donne che lo hanno tramandato dall’antichità fino a noi. 

Primo episodio: Il pane buono.

La Madonna faceva il pane e aveva una serva, Rosiceda (=Rosetta). Il pane della Madonna veniva bene, quello delle vicine veniva male.
Una vicina chiamò la serva e le disse:
            -Senti, senti, Rosiceda, la tua padrona come fa il pane?
Rosiceda rispose:
            -Ah, sapete come fa? Con il lievito! Voi non avete il lievito?
La vicina disse:
            -No, a noi nessuno ha dato il lievito.
Rosiceda disse:
            -Aspetta fino a quando la mia padrona farà il pane!
Mentre la Madonna faceva il pane, Rosiceda prese un po’ di impasto e la Madonna disse:
            -Dove lo porti, dove lo porti, birbantella?
Rosiceda rispose:
            -Niente, niente, lo do alla gallina!
Invece lei andò a portarlo alle vicine, che con quel piccolo pezzetto di impasto da allora fecero pane buono. 

Secondo episodio: Gesù chiede pane

Il Bambino aveva fame e la Madonna gli disse:
            -Va’ dalla comare e, se fa il pane, dille di dartene.
Il Bambino andò dalla comare e chiese:
            -Mi date un pezzo di pane?
La comare rispose che l’aveva fatto, ma non gliene voleva dare.
Gesù ritornò dalla Madonna e disse:
            -Mamma, non me ne ha dato!
La Madonna chiese:
            -Cosa stava facendo la comare?
Gesù rispose:
            -Si stava pettinando.
E la Madonna:
            -Dille, figlio, “(Sia) maledetta quella treccia che di venerdì s’intreccia!”
Poi Gesù andò da un’altra comare, la quale stava appunto facendo il pane, e le chiese:
            -Mi date un po’ di pane?
Appena lo sfornò, la comare gli diede un pane e una focaccia, e allora Gesù disse:
            -Maledetta quella treccia che di venerdì s’intreccia! Benedetta quella pasta (di pane) che di venerdì s’impasta! 

Terzo episodio: La fuga in Egitto

(In quel tempo) fu deciso che bisognava uccidere tutti i bambini maschi.
La Madonna disse:
            -Adesso come faccio, come faccio che mi uccidono il bambino!
Ne parlò con San Giuseppe e fuggirono per andare a nasconderlo in Egitto. Passarono per un campo di orzo, dalle spighe raspose e intricate. Mosse dal loro andare, si appiccicarono alla Madonna, che disse:
            -Anche tu mi vuoi impastoiare? Possa tu esser buono solo a prima fame (come bevanda per la colazione) e poi per le galline!
Passarono dopo per un appezzamento di lupino che (scosso dai piedi) si mise a crepitare (i lupini secchi fanno rumore nei baccelli) e la Madonna disse:
            -Adesso il lupino suona, finirà che mi sentono e mi uccidono il bambino! Non vedi quanta amarezza ho? Anche tu ti metti a suonare? Possa avere tu metà della mia amarezza! (I lupini sono amari e per mangiarli bisogna tenerli a bagno in acqua per una settimana).

Infine passarono per un campo di ceci e anche quelli fecero rumore nei baccelli. La Madonna disse:
            -Adesso anche questi fanno rumore? I nemici scoprono il bambino, e me lo uccidono! Ho tanta pena, tanta ansia per questo figlio! Possiate voi avere la metà della mia pena!
E difatti le piante dei ceci, quando cominciano a formarsi i baccelli, hanno le foglie ricoperte di una mucillagine appiccicosa (precìda in monasteracese).

Quando passarono davanti a un fico, l’albero si aprì e nascose dentro il tronco la Madonna, San Giuseppe e il Bambino. I nemici che volevano uccidere il bambino non li videro. Allora il fico tornò ad aprirsi e i tre se ne andarono.
La Madonna disse:
            -Possa tu fare frutti due volte l’anno (fichi fiori a giugno e fichi in agosto) e farli col miele in bocca!

Quarto episodio: l’anfora (cortara) rotta

Un giorno una donna va alla fontana per attingere acqua con la cortara (anfora di coccio a bocca larga), che le sfugge di mano e si rompe. La donna si dispera e ha paura che, arrivando a casa, il marito la sgridi. Allora prega Gesù, torna alla fontana e trova l’anfora risanata.
Nota
Riporto l’esortazione di Marcello Craveri, autore de I Vangeli apocrifi, Einaudi: … fare tesoro degli ammonimenti del Gesù degli apocrifi per costruire finalmente un mondo nuovo…

14 giugno 2014                            Salvatore Mongiardo

lunedì 9 giugno 2014

FILOCRAZIA: un dono a Papa Francesco

La FILOCRAZIA: un dono a Papa Francesco per la sua visita in Calabria il 21 giugno 2014
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Caro Papa Francesco,
Poco più di un anno fa, il 13 marzo del 2013, mi trovavo in Piazza San Pietro con le prime copie del mio libro Cristo ritorna da Crotone che l’Editore Gangemi mi aveva consegnato. Appena eletto, sei apparso al balcone e mi venne l’idea di scriverTi una esortazione a visitare la Calabria. Ora quel desiderio si compie e, secondo una tradizione calabrese, voglio fartTi trovare un dono al tuo arrivo: un nuovo modello di governo dei popoli che chiamerò FILOCRAZIA.
Questo termine è un nuovo conio, composto dalle due parole greche: filìa + krateia = amicizia + governo. Come Tu ben sai, filocrazia significa governo dell’amicizia.
Da dove è venuta questa idea? Perché la proponiamo come regime universale? Perché Te ne facciamo dono in occasione della tua visita in Calabria?
Intorno al 2000 avanti Cristo, tra il golfo di Squillace e quello di Lamezia, vivevano gli Enotri, un popolo che re Italo convertì dall’allevamento degli animali all’agricoltura, soprattutto alla coltivazione del grano, e che chiamò Itali: così nacque l’Italia. Quel popolo era costituito da gente libera ed uguale, che celebrava il sissizio, il convivio comunitario, dove tutti portavano il cibo che dividevano. Gli Itali vivevano in grande spirito di amicizia tra di loro, e questo modo di vita impressionò un bambino che il padre aveva portato a Crotone dalla Grecia durante un viaggio di lavoro. Quel bambino, crescendo, imparò tutto lo scibile umano, visitò molte nazioni, ma, da uomo maturo, tornò a quella terra che aveva vista da piccolo. Il suo nome era Pitagora. Quando egli aprì a Crotone la sua scuola, pose a fondamento di tutti i rapporti umani la filìa, l’amicizia. Così Giamblico, autore della Vita Pitagorica, riassume la dottrina pitagorica sull’amicizia:
Amicizia degli dei verso gli uomini; degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, gli stranieri; dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli, i parenti; amicizia, insomma, di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a un sentimento di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso… (cap. 229). L’amicizia è uguaglianza… (162). Ma, ancora più degno di ammirazione, è quanto i Pitagorici affermavano circa la comunione dei beni divini… Sovente si rivolgevano l’un l’altro l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a entrare in comunione con la mente e con l’anima divina… (240). Diventare amici dei propri nemici (40).

Pitagora fece proprio il rito del sissizio e lo celebrava, dopo cena, con il pane e il vino che simboleggiavano la giustizia sociale attuata:

dello stesso pane un pezzo a tutti, dello stesso vino un sorso a tutti.

Quel rito si diffuse in tutto il Mediterraneo e arrivò anche al mondo ebraico e agli Esseni. Questi lo trasmisero a Gesù, che lo trasformò nella Divina Eucaristia, aggiungendo al valore di giustizia sociale la più grande promessa di tutti i tempi: chi mangia il suo corpo nel pane e beve il suo sangue nel vino avrà la vita eterna.
Più ancora di Pitagora, Gesù predicò l’amicizia come massimo comandamento:
Amerai il prossimo tuo come te stesso (Matteo 22, 39). … Amate i vostri nemici (Matteo 26, 50). …Voi siete miei amici…; vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi (Giovanni 15, 14).
Ma è pensabile un mondo governato dall’amicizia? La storia non dimostra forse che sulla terra domina la violenza? La filocrazia non è forse un altro sogno, una nuova utopia che nasce dalla Calabria, conosciuta proprio come terra di utopie? Basti pensare alla Città del sole di Campanella: idee nobili ma incapaci di modificare la realtà. Però, un altro grande della Calabria, Gioacchino da Fiore, invita a scrutare il sogno che giace in fondo al nostro cuore:
Pulisci gli occhi dalla polvere terrena, … segui l’angelo sul monte e vedrai i disegni profondi nascosti dall’inizio del tempo.
Quello che oggi appare irrealizzabile, un giorno si realizzerà. Icaro sognò di volare e morì nel tentativo fatto con ali di penne animali: eppure oggi voliamo da un continente all’altro e fino alla luna. Certo, la storia è dominata dalla violenza e dalla morte, però un giorno la terra sarà pacificata e la morte sarà vinta: è il sogno dei sogni che coincide con la promessa di Gesù.
Oggi Tu visiti la Calabria, la quale per più di duemila anni ha subito una decadenza che ancora oggi appare inarrestabile e incomprensibile. Forse i lutti, le rovine e le spoliazioni di questa terra erano necessari per scoprire il tesoro della filocrazia dentro le sue viscere. In fondo all’animo calabrese è ancora viva la cultura del dono gratuito: all’amico si dona senza chiedere nulla in cambio, all’amico si dona solo perché può averne bisogno o piacere. La nostra mente e il nostro cuore rifiutano l’affanno di un mondo costruito sulla produttività, sulla finanza e sul consumo: in noi è impressa la visione di una vita che scorra serena tra amici, in comunione di vita e di beni, così come furono le comunità pitagoriche e quelle dei primi cristiani. Se c’è interesse, non c’è amicizia.
Tutti i popoli della terra vivono respirando gratuitamente l’ossigeno prodotto dalle grandi foreste, specie dall’Amazzonia. Perché allora non dovrebbero tutti beneficiare gratuitamente delle enormi cifre accumulate nei cosiddetti paradisi fiscali? Perché si continuano a produrre armi nei paesi ricchi? A queste domande si può rispondere dicendo che il mondo non cambierà mai. Ma si può anche rispondere col modello della filocrazia, ora che, grazie ai viaggi e alla tecnologia, il mondo ha preso coscienza del comune destino.
La Calabria nel primo millennio ha dato alla Chiesa di Roma dieci papi, nel secondo millennio nessuno: è il prezzo che ha pagato alla perdita della lingua e della cultura greca, la sua identità primigenia, e all’instaurazione del feudalesimo portato dai Normanni. La Calabria, terra di liberi e uguali, dove già nel sesto secolo avanti Cristo era nata, a Locri, la libertà degli schiavi, fu ridotta nel tempo alla servitù della gleba. Allora in Calabria, che con Pitagora era diventata la Magna Grecia, successe quanto aveva previsto Platone: se togli uguaglianza e libertà, prevarranno criminalità e degrado.
Caro Papa Francesco, Ti scriviamo queste cose non per inutili rivendicazioni o polemiche, ma solo per sottolineare come la proposta filocratica nasce dalla sofferenza di una gente gravemente ferita, che possiede però enormi energie morali, capaci di dare al mondo una nuova civiltà. La Calabria, madre dell’Italia e culla della Divina Eucaristia, terra dei sempre sognanti, sempre speranti, sempre credenti che il bene vincerà, auspica l’amicizia come pietra angolare del governo dei popoli.
Grazie, caro Papa Francesco, della tua visita e della tua attenzione.

                                                                                               Salvatore Mongiardo

lunedì 26 maggio 2014

LA CATTEDRALE DI DIO


All’aeroporto di Manaus, nel cuore dell’Amazzonia, Padre Iginio accolse me e mia figlia Gabriella. Iginio era piccoletto, camicetta e infradito ai piedi. Passammo la notte in città, nella canonica adiacente alla chiesa, officiata da un confratello di Iginio. Il giorno dopo andammo in giro per Manaus, due milioni di abitanti, che alla fine del 1800 conobbe un periodo di floridità con le piantagioni dell’albero della gomma. La città ora arrancava tra bancarelle e negozietti e solo il magnifico Teatro dell’Opera era testimone della gloria passata.
Il giorno seguente Iginio, così lo chiamavamo tralasciando il Padre, ci condusse in macchina all’imbarcadero sul Rio delle Amazzoni, che proprio in quel punto si forma con la confluenza di due grandi fiumi, il Rio Negro, dalle acque nere, e il Solimoes, dalle acque bianche. Da una sponda all’altra il traghetto impiegò più di un’ora e poi sbarcammo ai margini della foresta. Il governo brasiliano aveva costruito di recente una strada asfaltata che però in molti punti era rotta o inondata. Il fondo stradale, come gran parte dell’Amazzonia, è costituito da argilla rossa che si attacca a tutto, ma è instabile. L’Amazzonia è perciò poco adatta all’agricoltura e vi crescono rigogliose solo le piante originarie della foresta o, dove è stato disboscato, l’erba per l’allevamento delle mucche. Ai lati della strada si vedevano ogni tanto casette in legno su palafitte, necessarie a proteggerle dalle inondazioni e dai molti serpenti chiamati indifferentemente cobra. In estate il livello dell’acqua in quella zona si alza di ben sedici metri rispetto all’inverno a causa delle piogge e soprattutto per lo scioglimento delle nevi sulla catena delle Ande. Sopra la vegetazione, ogni tanto svettava maestoso il castagno, alto circa cinquanta metri, un albero che produce un frutto legnoso, grande quanto una noce di cocco, che dentro contiene noci simili all’anacardio. Dopo circa cento chilometri, arrivammo alla cittadina chiamata indifferentemente Careiro o Castagno, abitata da poche migliaia di persone venute dalla foresta o da altre parti del Brasile in cerca di fortuna. Il villaggio, che ha ora una banca, scuole e ospedale, si snoda ai lati della strada principale. Le casette sono in legno, poche in muratura a causa della mancanza di sabbia, necessaria a impastare il cemento. Il fondo alla strada c’è la missione, affidata a Iginio dalla sua congregazione, quella degli Oblati di Maria Vergine, fondata dal sacerdote piemontese Pio Lanteri all’inizio del 1800.
Padre Iginio Mazzucchi è italiano, nato a Ronzo Chienis in Trentino. Perse la mamma all’età di tre anni e il padre a quindici. Decise di farsi sacerdote e, appena conseguita la maturità, i superiori lo mandarono in Brasile dove seguì i corsi di teologia e prese messa. Poi conseguì anche la laurea in letteratura e pedagogia nell’università pubblica e dedicò tutta la vita ai bambini.
Alla missione fummo alloggiati in una decorosa casetta prefabbricata e prendevamo i pasti con una cinquantina di ragazzi che studiavano e imparavano i mestieri. Pasta o riso con pollo o pesce, fagioli, patate. La cucina era sempre aperta e ognuno poteva mangiare a volontà. I ragazzi dormivano nelle camerate, ma non c’erano letti: le amache erano raccolte e appese a ganci sulla parete.
L’idea di compiere il viaggio in Amazzonia, a marzo del 2011, era nata da quando avevo adottato a distanza un bimbo dal nome di Marinaldo, che ora aveva venticinque anni ed era già padre di quattro bei bambini. La missione era affidata alle cure di Joao e della moglie Neia, una coppia deliziosa che si dedicava anima e corpo ai ragazzi e ai bimbi dell’asilo infantile. Dopo alcuni giorni, mia figlia Gabriella rientrò in Florida, dove vive, mentre io avevo ancora un mese di tempo da passare alla missione. Iginio mi portava con sé nelle visite dei nuclei abitati della sua vastissima parrocchia dove il caldo, l’umido e le zanzare non davano tregua. Spesso una gragnuola di tuoni e lampi, seguita da piogge fragorose, toglievano un po’ di umido che si riformava col caldo. Quella zona è molto vicina all’equatore e il cielo è di un azzurro plumbeo, non limpido e trasparente come nel Mediterraneo.
Era la settimana santa e con Iginio andavo per le funzioni di rito nelle varie cappelle di legno sparse vicino ai piccoli centri abitati. Con la sua macchina lui faceva miracoli per non rimanere bloccato nel fango rosso dei ramal, le stradine sterrate che si dipartivano dalla strada principale. A volte era come viaggiare sulle montagne russe su e giù, ma Iginio sapeva il fatto suo. Eravamo in primavera e il livello dell’acqua cominciava a salire inondando strade e foreste. Gli alberi portavano sui tronchi in alto il segno lasciato dall’acqua nelle estati precedenti.
Avevo molto tempo libero e pensai di impiegarlo per risolvere due problemi. Il primo era quello del titolo da dare al mio ultimo libro, ormai completato. Inizialmente avevo pensato a Cristo è arrivato a Crotone, che richiamava troppo Carlo Levi con il famoso Cristo si è fermato a Eboli. Poi avevo pensato a Cristo ritorna a Crotone, che si avvicinava alla tematica trattata, ma mi appariva statico. Era come dire: finalmente è arrivato a casa! Una mattina stavo ad osservare sul terrazzo un uccellino colorato che beccava i piccoli frutti dell’albero di assaì, e pensai che la staticità di un ritorno a Crotone poteva essere superata dal concetto, contenuto nel libro, di seconda venuta di Cristo ripartendo da Crotone. Finalmente avevo il titolo giusto: Cristo ritorna da Crotone.
La notte del sabato santo eravamo andati per la celebrazione in una chiesetta isolata, piena di gente semplice, povera, che però andava avanti con coraggio e cominciava ad avere la luce elettrica che il governo faceva arrivare nei posti più sperduti. Durante il ritorno in macchina, mi misi a canticchiare il meraviglioso inno pasquale:
Victimae paschali laudes / immolent christiani…
Iginio, che celebrava tutto in portoghese, si accodò:
Agnus redemit oves / Christus innocens Patri / reconciliavit peccatores…
Col favore delle tenebre e nel cuore della foresta, potevo finalmente vendicarmi dell’abolizione del latino nella liturgia, quella lingua che avevo studiato per otto anni consultando il vocabolario migliaia di volte!
Il secondo problema era assai più complicato del titolo del libro. Avevo di recente scritto il breve saggio Chi è Dio, che era piaciuto ai miei lettori. A scrivere quel saggio, che ridefiniva Dio come la Massima Emozione, mi ero deciso perché mi sentivo quasi ufficialmente incaricato da Simmaco che, nel quinto secolo dopo Cristo, aveva scritto:
Il problema di Dio è così grande che non lo si può affrontare in un modo solo.
Parlavo di questo con Iginio che mi ascoltava mentre nuotavamo nella grande piscina nel cuore della foresta, dove non era prudente addentrarsi. Un mio tentativo maldestro era finito per fortuna senza complicazioni dopo appena un’ora: ci poteva essere qualche giaguaro, non serpenti che escono di notte per non essere visti dal cielo dagli urubù, gli avvoltoi che volano a schiera, e di giorno danno loro la caccia scendendo in picchiata.
Tra una bracciata e l’altra riandavo con Iginio alle prediche di Pasqua, quando egli aveva parlato della resurrezione di Gesù, un argomento che mi appassionava per la sua complessità. Gesù risorge dopo tre giorni e nessuno lo riconosce, nemmeno i suoi discepoli né Maria Maddalena. Una stranezza! Egli prometteva la vita eterna, ma prima bisognava morire, e lui stesso era morto in maniera orribile. E ancora: noi speriamo nella resurrezione, mentre il mondo orientale spera nella fine del ciclo delle reincarnazioni, spera cioè nella non rinascita per paura di dovere morire di nuovo…! Ecco qual era l’elemento comune: la paura! Dunque, il problema non era la morte in se stessa, ma la paura della morte! Quindi, si potrebbe supporre che, quando l’umanità capirà cosa sia la morte, la morte continuerà, ma non farà più paura. Non era successo così per l’eclissi di sole? Quando non si sapeva cosa fosse l’eclissi, i Fenici offrivano il primogenito vivo in olocausto al dio Baal per paura che il sole non comparisse più. Ora l’eclissi continua, ma non fa più paura: si sa cosa è, quando comincia e quando finisce. Dunque, in sostanza Gesù ci invita verso la scoperta della dimensione morte e, per tranquillizzarci, ci mostra da risorto le piaghe delle mani e del costato … Insomma, i grandi sogni dell’umanità si realizzano sempre: il volo umano, la vittoria sulle malattie, la fine della paura della morte. Ma c’è uno scarto, quasi uno scotto da pagare: i sogni si realizzano, ma non come si pensa. Il sogno di Icaro non si realizzò con le ali di penne animali, ma con il motore per l’aereo. Il sogno di Gesù di vincere la morte si realizzerà, ma il modo dobbiamo ancora scoprirlo: è un compito che spetta all’umanità…
Al termine del mio ragionamento, Iginio si fermò ai bordi della piscina e riassunse il mio pensiero con due semplici termini della filosofia scolastica:
-Tu vuoi dire che il quid, la vittoria sulla morte, si realizzerà, ma il quòmodo, il modo, potrebbe essere diverso dalla resurrezione dei morti…
Dentro di me pensai che in Brasile non c’erano solo danze e carnevale: c’era anche la filosofia di San Tommaso d’Aquino!
Un giorno Iginio mi condusse con una piccola barca a motore a visitare la comunità di Nostra Signora di Fatima, un nucleo abitato nella foresta più vera. Alberi altissimi erano allagati per tutto il tronco e la barca si inoltrava tra i rami. Il silenzio era totale, salvo il canto degli uccelli e il guizzo di qualche pesce. Da dietro un albero spuntò una piroga con alcuni bimbi che si tuffavano nell’acqua con i loro corpi ben disegnati e scuri, la pelle levigata e gli zigomi chiari, quasi luminosi, come tutti gli indi amazzonici. La foresta lacustre si rifletteva sull’acqua, quasi volesse tramortire il visitatore raddoppiando la visione della sua strepitosa bellezza. E un profumo, appena percettibile, aleggiava sull’acqua. Quel profumo lo conoscevo: era antico, sottile, aromatico, buono… Cercai di ricordare il posto dove lo avevo sentito, e alla fine mi ricordai che era simile al profumo dell’alloro nei boschi di Sant’Andrea, il mio paese in Calabria.
La visita si svolse con l’istruzione delle ragazze catechiste che, guidando le loro barchette, erano arrivate dalle case sperdute nella natura: la lezione di Iginio fu di una semplicità disarmante e rasserenante. Durante il ritorno, impressi nella mia mente le immagini di quella foresta che da millenni dava agli uomini, gratuitamente, l’ossigeno da respirare. Commentai questo fenomeno con Iginio che sentenziò:
-E’ grazia di Dio!
Alla fine Iginio mi chiese che impressione mi avesse fatto la foresta sull’acqua, e io risposi:
-E’ la cattedrale di Dio!
Saluto affettuosamente tutta la missione e Padre Iginio, che quest’anno celebra il cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale. Se volete fargli un saluto, la sua mail è: iginiope@yahoo.com.br
                                                                                              Salvatore Mongiardo