domenica 8 dicembre 2013

STILE DI VITA PITAGORICO

Salvatore Mongiardo

STILE DI VITA PITAGORICO


Lectio magistralis per l’Accademia Medica Pitagorica
Crotone, Lido degli Scogli, 7 dicembre 2013



Signori Medici, Amiche e Amici,

Saluto voi tutti, in particolare il Presidente dr Enrico Ciliberto e i Consiglieri dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Crotone che mi hanno voluto come esperto della neonata Accademia Medica Pitagorica. Un saluto particolarissimo al dr Mimmo Monizzi, che tanto sta facendo per riaccendere la fiamma del pitagorismo nella terra dove esso è nato.
Quest’Accademia nasce sotto buoni auspici. Difatti, dopo la cacciata di Pitagora e dei Pitagorici da Crotone, avvenuta intorno al 500 avanti Cristo, la Scuola Pitagorica rimase chiusa per quasi cinquanta anni e alla fine fu riaperta per il deciso intervento di Pericle da Atene. A guidarne la riapertura, furono i medici pitagorici sopravvissuti, i vostri predecessori, Signori Medici di Crotone.

Io proverò a tratteggiare il modo di vivere dei Pitagorici non solo nelle sue forme esteriori, ma anche nelle motivazioni intime del loro comportamento, cercando di attualizzare ai nostri giorni il modello o stile pitagorico. In questo esercizio mi atterrò alle fonti storiche classiche, da me però liberamente reinterpretate.

Immaginiamo di trovarci su questo stesso lido venticinque secoli fa, quando Pitagora si alzava molto prima dell’alba per scrutare la volta stellata del cielo come gli avevano insegnato a fare i Magi a Babilonia. Il filosofo sentiva venire dalle costellazioni una musica celestiale che egli percepiva con gli occhi, come un grande musicista che sente la musica solamente guardando lo spartito. Intanto gli allievi raggiungevano Pitagora per attendere il sorgere del sole sul mare. Al suo apparire lo riverivano quale simbolo del dio Apollo e poi si immergevano nell’acqua. Dopo l’immersione in mare, iniziavano le danze al suono della cetra e cantando dei peana, alcuni composti da Pitagora stesso. 
Seguiva l’insegnamento che Pitagora impartiva sotto la tenda bianca, dentro la quale erano ammessi solo i matematici, gli studiosi, che potevano rivolgere domande al Maestro, mentre gli acusmatici, gli uditori, rimanevano all’esterno e potevano solo ascoltare. Andavano poi a passeggiare nei giardini solitari evitando le folle e il parlare a vuoto. Un acusma, una delle loro massime, diceva: Non abitare sotto lo stesso tetto con le rondini, evitare cioè le chiacchiere. Chi di loro passava per Crotone, girava al largo da cacciatori e macellai che ritenevano dei malfattori perché, uccidendo gli animali, innescavano il fuoco della violenza.
Se passavano davanti a un tempio, non entravano a visitarlo casualmente, ma entravano a onorare gli dei solo se avevano deciso di farlo in partenza. Evitavano incontri fortuiti per tornare alla scuola e dedicarsi agli esercizi ginnici gareggiando tra di loro solo per gioco, senza che uno potesse vincere e l’altro perdere. La loro dieta era rigorosamente vegetariana con esclusione di carne e pesce: gli animali erano fratelli minori che l’uomo doveva proteggere e difendere al punto che escludevano dal loro vestiario anche la lana perché era il vestito dell’animale al quale non si poteva togliere. Il loro vestire era il lino, che ad ogni lavaggio diventava più bianco, simbolo della purezza e della luce. A fine giornata cenavano assieme e dopo la cena celebravano il sissizio, un uso che Pitagora aveva trovato in Italia dove era stato introdotto da re Italo come base di giustizia sociale distributiva: Dello stesso pane un pezzo a tutti, dello stesso vino un sorso a tutti. Andavano poi a dormire e prima di chiudere gli occhi dovevano esaminare lungamente tutti gli atti della giornata e chiedersi: In che cosa ho sbagliato? Dopo questo minuzioso esame prendevano sonno e, se avevano dei sogni, al mattino li raccontavano come episodi di vita reale: così insegnava il Maestro che aveva appreso l’arte dell’interpretazione dei sogni presso gli Ebrei. Diceva un acusma: Scompigliare le coperte quando ci si alza dal letto, un invito a dimenticare sogni erotici e sesso. Difatti, il sesso per Pitagora era un osservato speciale in quanto ritenuto gran divoratore di energie le quali dovevano essere indirizzate ad altri scopi. Il sesso era un concorrente pericoloso, addirittura assassino: Non ascoltare il canto omicida delle sirene! Del sesso era meglio non sapere nulla fino ai venti anni e poi limitarlo dentro la vita matrimoniale. Molta importanza davano i Pitagorici alla forza di volontà che veniva messa alla prova ogni giorno su tre fronti: Domina il ventre, la lussuria e il sonno. Una prova originale di forza di volontà consisteva nel preparare un banchetto e, quando tutto era pronto, andare via senza mangiar nulla.

Solo di sfuggita ricordo che anche i numeri, dei quali Pitagora fu il grande razionalizzatore, avevano per loro un significato, un rimando, un senso appunto: così il numero otto era simbolo della giustizia perchè diviso a metà dava quattro, che diviso a metà dava due, che diviso a metà dava uno: l’otto generava cioè sempre due parti uguali intere. Al contrario, il diciassette era mal visto e chiamato ostacolo, perché si frapponeva tra il sedici e il diciotto, che potevano invece formarsi facilmente per somma o moltiplicazione. E’ questa l’origine della diffidenza verso il 17, diffusa ancora oggi nel Sud Italia.

I Pitagorici non facevano nulla a caso. A ogni azione davano un senso, cercavano cioè incessantemente di destare e dilatare la coscienza per vincere le ombre dell’esistenza. Aspiravano cioè a una visione ordinata della realtà e ritenevano vita vera solo quella intrisa di significato, rifiutando di conseguenza una visione disgregata, individualistica, egoistica, particolare e frantumata. 
Insomma, nel Pitagorismo c’era una forte tendenza ad analizzare ed eseguire ogni atto come vestire, mangiare, studiare, cercando sempre un perché, una ragione, una logica, mai seguendo un istinto o un impulso. Questa forte sovrastruttura costrittiva fu riconosciuta ma rifiutata da un grande coetaneo e quasi conterraneo, il filosofo Eraclito di Efeso, che non amò Pitagora anche se ne capì lo sforzo e la grandezza, e perciò lo definì uomo di molto ingegno e di molto inganno. L’immenso Eraclito ricercò invece la ragione di tutte le cose, il logos, vivendo solo e imprecando contro il mondo intero.

Il modello di Pitagora fu imitato molte volte nella storia e generò forme di vita comunitaria: così quelle degli Esseni e dei Terapeuti tra gli Ebrei; quella dei Sufi nel mondo islamico, ancora esistenti anche se tollerati o perseguitati: sono quelli che danzano ruotando con la veste bianca al sorgere del sole; quella del monachesimo orientale dei Padri del deserto e quello occidentale di Cassiodoro, San Benedetto, San Bernardo e San Bruno nel mondo cristiano; inoltre, un numero grandissimo di associazioni culturali e filosofiche che si ispirano a Pitagora in ogni parte del mondo.

E’ giusto quindi chiederci perché il modello pitagorico viene rivisitato, rivissuto, reinterpretato nelle varie fasi storiche fino ad arrivare a noi. La risposta non può venire solo dalla veste di lino bianco che indossavano né dalla numerologia nella quale eccellevano né dai rigidi precetti sulla sessualità. La risposta va cercata piuttosto nei principi ispiratori dello stile di vita pitagorico, il quale in sintesi proponeva l’esaudimento dei bisogni irrinunciabili di ogni uomo. Questi principi pitagorici, per i quali Pitagora fu ritenuto il fondatore della Magna Grecia, sono da me sintetizzati in numero di sette.


1. Uguaglianza e libertà

Tutti gli uomini e tutte le donne sono liberi e hanno pari dignità. In quell’epoca, accogliere le donne come allieve e dare la libertà agli schiavi, come anche liberare dai tiranni molte città italiche, fu la grande innovazione del pitagorismo.

2. Comunità di vita e di beni

I Pitagorici vivevano in comune consegnando i loro averi agli economi che provvedevano a tutti i bisogni materiali. Era abolito tra di loro il danaro o il possesso esclusivo di cose. La comunità si stringeva attorno a chi era ammalato o moriva: questo sistema vinceva non solo la solitudine in vita e in morte, ma eliminava anche la paura o l’ansia di non farcela economicamente con i propri mezzi. Vita in comune non voleva dire vivere in maniera sciatta o approssimativa: i Pitagorici vivevano sì sobriamente, ma in maniera efficiente, elegante, raffinata.

3. Giustizia

Comunemente si dice che la giustizia era il fondamento della vita pitagorica, ma è una affermazione che va spiegata. Nei testi antichi i termini sono due: il primo è dikaiosyne (sostantivo femminile singolare), cioè la rettitudine, il sentimento e la pratica della giustizia. Tale termine andrebbe più correttamente tradotto con giustezza, la virtù che porta la persona verso il retto comportamento. L’altro, invece, è dìkaia (aggettivo neutro plurale), ch’è anch’esso tradotto con giustizia, ma che indica diritti e doveri, insomma quanto oggi si tende a chiamare legalità. Con l’uso differente dei due termini, il pitagorismo mette in chiaro che senza giustezza non ci può essere legalità: per esempio, se la legge non rispetta la giustizia sociale nella distribuzione dei beni, il debole rimane oppresso proprio dalla legalità.

4. Vegetarismo

Pitagora fu il campione del vegetarismo non solo per la pratica sistematica del rifiuto di carne e pesci, ma soprattutto per il significato che egli dava a tale pratica: Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo. Oggi la proibizione di mangiar carne è in vigore in alcuni ordini religiosi come quelli dei certosini e dei monaci del Monte Athos, che però consumano il pesce. L’unico ordine religioso che esclude ancora oggi carne e pesce, è quello dei paolani, fondato in Calabria da San Francesco di Paola, per tradizione forse discendente dal pitagorismo. I vegetariani e vegani nel mondo sono oggi stimati in oltre mezzo miliardo, e nella sola Italia sono ormai sei milioni in continua crescita. Il pitagorico Empedocle scriveva che il mangiar animali non solo portava l’uomo alla violenza, ma provocava anche disordine nella sfera sessuale.

5. Non competitività

E’ indubbiamente la dottrina più originale di tutto il pitagorismo, perché vede la competizione e la vittoria come… male! Per loro gareggiare si poteva, ma solo come puro divertimento, senza vincitore né vinto: era loro proibito anche solo assistere ai giochi olimpici. Difatti, essi affermavano che la vittoria sporca il vincitore perché lo separa dal vinto e lo fa diventare oggetto d’invidia. Vincere, avere successo, cercare la propria affermazione, accumulare danaro e coltivare le proprie ambizioni erano cose indegne di una persona perbene, che invece doveva sempre cercare l’armonia. Era esclusa anche la competizione tra più partiti politici che paralizzavano la polis: unico doveva essere il regime e l’opposizione ad esso era considerata secessione da combattere col ferro e col fuoco.


6. Amicizia

Per Pitagora l’amicizia era il valore fondante della vita e comprendeva tutti i viventi, da Dio all’animale. La filìa, che significa amicizia, amore, benevolenza, tenerezza, abbracciava cittadini e stranieri, marito e moglie, fratelli, congiunti e animali:

Amicizia degli dei verso gli uomini, degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, stranieri, dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli, i parenti; amicizia, insomma, di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a un sentimento di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso… (Giamblico, Vita Pitagorica, 229)… L’amicizia è uguaglianza (Giamblico, 162)… Ma, ancora più degno di ammirazione, è quanto [i Pitagorici] affermavano circa la comunione dei beni diviniSovente si rivolgevano l’un l’altro l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a entrare in comunione con la mente e con l’anima divina (Giamblico 240)… Diventare amici dei propri nemici: (Giamblico 40).

7. Religiosità

Fortissimo era il sentimento e la pratica religiosa presso Pitagora e i suoi, che però onoravano gli dei del proprio paese di origine: Pitagora non cercava la conversione, concetto a lui ignoto, e le onoranze giornaliere agli dei erano fatte senza sacerdoti. Se vogliamo in breve capire l’intima essenza dello stile di vita pitagorico, possiamo leggerlo in Giamblico (86, 137):

Tutti i loro [pitagorici] precetti relativi al fare o non fare una determinata cosa mirano al divino. E questo è il principio ordinatore dell’intero loro modo di vivere, nonché il senso della filosofia dei Pitagorici: porsi al seguito della divinità.

Seguendo questi principi per cambiare il mondo, Pitagora rischiò la vita, fu cacciato da Crotone, respinto anche da Kaulon che lui aveva beneficato ammansendo l’orsa bianca assassina, e morì esule a Metaponto.



L’avventura continua con Platone

Dopo la condanna a morte di Socrate avvenuta nel 399 avanti Cristo, Platone venne alla rinata Scuola Pitagorica di Crotone e vi rimase sette anni, conoscendo e frequentando tra gli altri i grandi Pitagorici Archita e Filolao. Al termine dei suoi studi, Platone arrivò alla conclusione che, per quanto alte ed ispirate fossero le dottrine di Pitagora e di Socrate, era impossibile cambiare il mondo perché dominato dal potere politico. Allora, nella speranza di cambiare la politica, che lui definiva come corruzione, Platone accettò l’invito del tiranno di Siracusa Dionisio, e si recò in quella città come suo consigliere per impostare un governo ideale. Ne risultò un grave dissidio con Dionisio il Vecchio e poi col Giovane, e Platone rischiò due volte la vita al punto che Taranto prima e Atene poi dovettero mandare due navi per salvarlo facendolo fuggire in modo rocambolesco. Queste avventure sono narrate da Platone stesso nella sua famosa Settima Lettera scritta in tarda età. Platone concluse che, per cambiare il mondo, era necessario che:

O i re diventassero filosofi o i filosofi diventassero re.

Auspicava cioè un governo retto da persone libere da bramosie; il che era possibile solo se la filosofia riusciva a vincere le tre brame che dominavano l’animo del re o tiranno, brame che Platone elencava in quest’ordine: sesso, soldi, potere.



L’insegnamento del più grande pitagorico: Cristo

Anche se non venne di persona alla Scuola Pitagorica di Crotone, tuttavia ne assorbì gli insegnamenti e i principi attraverso la Comunità degli Esseni, una minoranza ebraica, della quale Cristo in qualche misura faceva parte. Gli Esseni si opponevano al sacrificio di sangue del Tempio di Gerusalemme, celebravano il sissizio ogni sera con pane e vino, erano rigorosamente vegetariani, proibivano la proprietà privata e il danaro. E’ quanto scrivo nel mio libro Cristo ritorna da Crotone, che documenta come le radici culturali dell’insegnamento di Cristo affondano nell’antica Italia e nel pitagorismo. Il libro rende giustizia al modello cristiano, che non è il frutto di un profeta ebraico visionario, ma è basato sul rigore dei numeri e della filosofia pitagorica. Il modello che possiamo chiamare cristiano-pitagorico, basato sui sette principi già visti, regge matematicamente perché abbatte la dispersione delle energie creata dalla competitività, dalla violenza, dall’accumulo di danaro e dal sesso.


Musica delle stelle e Regno dei cieli

Pitagora ammirava le stelle e coniò la parola kosmos, che significa ordine, per indicare il firmamento. Egli s’ispirò all’ordine mirabile della volta celeste e cercò di portarlo sulla terra tra i viventi. Anche Cristo parlò del Regno dei cieli o Regno di Dio, e disse chiaramente: il Regno di Dio è dentro di voi (Luca 17, 21), intendendo che la pace e l’ordine dovevano prima entrare nella coscienza individuale per poter poi diventare universali. Comunque, la sintesi dell’insegnamento di Cristo è sempre l’amicizia e l’amore reciproco:

Amerai il prossimo tuo come te stesso (Matteo 22, 39)… Amate i vostri nemici (Matteo 26, 50). Voi siete miei amici…; vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi (Giovanni 15, 14).

Pitagora si mette al seguito della divinità per evolversi nel divino, mentre Cristo prende umana carne per innalzare l’uomo verso il divino: due percorsi analoghi che hanno come ultimo scopo quello di fondere insieme l’umana coscienza con la divina.



Una notte d’estate guardando le stelle…

La sera del 18 agosto 2013 abbiamo celebrato il Sissizio col Bue di Pane Pitagorico nella pineta di Sant’Andrea Ionio. Un appuntamento che si ripete dal 1995 per festeggiare in amicizia e con cibi vegetariani l’arrivo della Civiltà Sissiziale e la fine della violenza. A quella serata partecipava anche Filippo Frontera, Professore Ordinario di Fisica Generale presso la Facoltà d’Ingegneria dell'Università di Ferrara, responsabile del gruppo italiano di Astrofisica delle Alte Energie e dell’esperimento col satellite BeppoSAX per lo studio dei lampi di Raggi Gamma nell’universo.

Si era fatta notte e le stelle brillavano nel cielo; così chiesi al Professore di dirci qualcosa sull’armonia delle stelle di cui Pitagora parlava. Il Professore spiegò che l’ordine dell’universo dipendeva unicamente da una sola legge, la forza di gravità, che attrae e ordina ogni corpo esistente.
Cominciai a pensare: se ci fosse una legge, una forza capace di portare ordine nell’umanità? E quale potrebbe essere? Poi un giorno capii che quella forza era la stessa che Pitagora, Cristo, i grandi profeti e fondatori di religioni hanno sempre predicato: la forza dell’amicizia che attira ogni vivente verso l’altro.



 Un modello per il nuovo ordine mondiale

Da questo mare di Crotone, dove tanta storia è passata, io vedo chiaramente uno tsunami di amicizia invadere il mondo. Il modello pitagorico, portato alla massima espressione da Cristo, sarà il modello del futuro, perché quello attuale è matematicamente fallito. Tutti lo sappiamo, anche se tutti abbiamo paura di ammetterlo. Io propongo perciò il modello pitagorico-cristiano per un nuovo ordine mondiale che chiamerò:

FILOCRAZIA, il governo dell’amicizia.

Il modello filocratico, basato sui princìpi da me elencati, supererà tutte le forme di politica attuali e libererà anche le religioni dalle incrostazioni culturali dovute a differenti tempi e luoghi: se la partenza fu diversa, uguale sarà il traguardo per tutta l’umanità.

Per me è stato un autentico privilegio intravedere questo orizzonte di luce serena e annunciarlo da Crotone. La vera protagonista è però la Calabria che fu Magna Grecia, ma dovette poi affrontare la decadenza sotto il dominio romano e più tardi fu schiacciata per mille anni dal feudalesimo normanno fino ai nostri giorni. La Calabria è la prova del nove della correttezza di quanto affermava Platone:
Togli a un popolo libertà e uguaglianza e prevarranno criminalità e degrado.

Il monito che la Calabria dà ai popoli è:

Se vi allontanate dai principi pitagorico-cristiani, finirete come me, se non peggio.

Ma noi non disperiamo perché, attingendo alle enormi energie di mente e di cuore che la storia ci ha affidato, proponiamo da Crotone il modello filocratico per una Calabria Redenta e una Umanità Redenta.

Mi associo perciò alla profezia del grande monaco del Monte Athos, Padre Paisios, che esortava il monaco Padre Kosmàs a venire in Calabria, dove egli poi riedificò il monastero di San Giovanni Teresti a Bivongi:

Dalla Calabria/ verrà la luce. Apo’ tin Kalabrìa/ to fos.

Salvatore Mongiardo

domenica 6 ottobre 2013

La martora e il cristarello

La martora e il cristarello
…….
Dedico queste righe a Modestina Valenti, che il 19 ottobre 2013 compie 100 anni. Auguri!
……..
La martora è il grazioso mustelide che vive nei boschi, ma cosa è il cristarello? E’ l’aquila cristeide, una piccola aquila che nidifica ancora oggi nelle balze inaccessibili attorno a Sant’Andrea, da non confondere con il falco, rapace più piccolo.
Nei tempi che furono, una martora vide un giorno un cristarello volare in alto mentre lei rimaneva sempre a terra, e quando il cristarello si posò vicino, gli disse:
-Beato te, che vai per il cielo e apri le ali al vento! Chissà quante belle feste lassù! Io sto sempre sulla terra …
Dopo alcune volte che il cristarello sentì la martora ripetere questa lamentela, decise di farle uno scherzo e le disse:
-Vieni in cielo con me, e vedrai.
Afferrò la martora con gli artigli e la portò molto in alto. Poi aprì gli artigli e la lasciò precipitare giù. La martora capì che le cose si mettevano male e mentre cadeva disse:
-Se mi salvo, del cielo non voglio saperne più nulla!
Enrico Armogida spiega l’origine antica della favola: difatti contiene una parola che si ritrova in Cicerone e Simmaco!
                                                                                              Salvatore Mongiardo

Ecco il testo andreolese del racconto ricomposto da Enrico Armogida:

I cunti ’e l’antìchi: ’A màrtura er’u cristarìaḍḍu.
E’ di ogni tempo la scontentezza della vita umana, ma – come han detto gli antichi? -  “cu dassa ’a strada vècchja per’a nova…” – Lo sancisce mirabilmente la favola su La martora e l’aquila, ricreata nel nostro saporito e icastico linguaggio dialettale da quella fornitami da Salvatore Mongiardo, ma a lui ricordata da Marcello Parise,  il quale molto tempo prima l’aveva ascoltata da Ciccio Samà Mandalìaḍḍu…
’A jornàta era bella, e ar’a muntàgna, p’o vijùalu mperticàtu chi ’e Farìna mina versu Zimbìaḍḍi, nu cristarìaḍḍu, cull’ali ampràti, lìantu lìantu, giràva nt’o cìalu luminòsu ed ogni tantu, cùamu nu lampu, nterra nchjumbàva e cull’ùnghji ’e rapìnu na lucèrta abbrancàva.
Na vota, però, u cristarìaḍḍu ’ammìanzu i piànti seculàri abbistàu na màrtura, chi cull’ùacchji sgargiàti ’u guardàva ammiràtu e, ogni bbota ch’iḍḍu, - nt’a vaḍḍàta umbràta ’e l’acqua d’a Cerasàra -, si mbicinàva, sconzulàta li ripetìa: “Mbiàtu tìa, chi pùa spaziàra nt’o cìalu bellu e scumpinàtu. Io, mbeci, su’ distinàta u vivu nte ‘sta terra pìcciula,… e sempa amarijàta”. 
U cristarìaḍḍu, allòra, pemm’u fàcia u si ricrìda, penzàu u li cumbìna nu bruttu tiru e ‘a ngulijàu cu sti palùari adùci cùamu u mela: “Sàgghja, bella, cu mmìa, c’o vidi tuttu, ’stu mundu, cull’ùacchji tùa…”.
‘A martura, ch’era scuntènta assài d’a vita chi ffacìa ed era curiùsa ’e novità, accettàu; perciò, u cristarìaḍḍu cull’ùnghji l’afferràu d’o cùaḍḍu e s’a portàu in artu, sempa cchjù in artu, e ’a sballottàu ’e na parta a n’atta; a nnu cìartu puntu, pùa,’a libaràu de’ peda sua ed iḍḍa precipitàu a rrota lìbara. ’A màrtura, tutta tremanti e spaventàta, capiscìu u rìschju chi currìa e a spisi sua mparàu ‘a lezziùani e, tramènti cadìa, tra iḍḍa ed iḍḍa dicìa: “Si mmi fìariu, de’ cùasi d’o cialu ’on nda vùagghiu cchiù sapìra”, cioè, “sei riuscirò a liberarmi da questa incresciosa situazione, mai più m’impiccerò del mondo celeste”.   

Il termine feriarsi (vb. rfs. = esser libero da impegni; liberarsi da una situazione), che si ritrova in questa favoletta, è certamente arcaico e di derivazione latina; quindi, è molto antico ma è ormai scomparso dal linguaggio paesano corrente e, perciò, il suo recupero è veramente prezioso. Teste Ciccio Samà Mandalìaḍḍu; fonti Marcello Parise e Salvatore Mongiardo (3-10-2013).
Etim.: < lat. fèrĭor, -āris, feriātus sum, feriāri = essere in festa, cioè inattivo e, quindi, libero da certi impegni opp. indenne da certe situazioni (in questo senso, v. Cic. e Symm.)


6 ottobre 2013                                                                                             


martedì 13 agosto 2013

SISSIZIO DELL'AMICIZIA 2013

SISSIZIO DELL’AMICIZIA
18 AGOSTO 2013 ORE 19 – LOCALITA’ GIAMBARELLO 13

2 km verso la pineta, passato il centro storico di Sant’Andrea Ionio -CZ-
Carissime Amiche ed Amici,
quest’anno ci riuniamo nel nome dell’AMICIZIA, la forza potente e dolce capace di cambiare la vita. L’amicizia fu il più alto valore che Pitagora trovò nella nostra terra. Nella Vita Pitagorica Giamblico lo espresse in questo modo sublime:
Per Pitagora l’amicizia era il valore fondante che comprendeva tutti i viventi, da Dio all’animale. Difatti, abbracciava cittadini, stranieri, marito e moglie, fratelli, congiunti e animali:…amicizia degli dei verso gli uomini, degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, stranieri, dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli, i parenti, amicizia insomma di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a un sentimento di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso. L’amicizia è uguaglianza… Ma ancora più degno di ammirazione è quanto i Pitagorici affermavano circa la comunione dei beni divini… Sovente si rivolgevano l’un l’altro l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a entrare in comunione con la mente e con l’anima divina. Diventare amici dei propri nemici: così raccomandava Pitagora.

Ugualmente Gesù predicava l’amicizia come massimo comandamento: amate i vostri nemici. Voi siete miei amici…; vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Tramite l’amicizia Gesù unisce se stesso e i discepoli al Padre in un vincolo di partecipazione alla natura divina.
L’amicizia, così fortemente predicata prima da Pitagora e poi da Gesù, deriva dall’amicizia che re Italo aveva posto a fondamento dell’Italia: l’amicizia, non la politica.

L’amicizia sarà la sola regola della Civiltà Sissiziale, nella quale le guerre, la solitudine, l’angoscia e la fatica del vivere saranno un brutto ricordo del passato, di questo mondo fatto di egoismi, furberie, ruberie, violenze, uccisioni, prepotenze e miseria.
Il Bue di Pane ci aspetta per ricordarci il traguardo verso in quale ci sprona Cristo che ritorna da Crotone:  sia solo amicizia tra tutti i viventi. Cristo, che ha mondato il lebbroso, ci aiuterà a mondare la terra dalla lebbra della politica.
Leviamo il saluto della nuova Civiltà Sissiziale: EVOE’! Venga il bene! 
Portate cibo da condividere, non carne né pesce: nel Sissizio sarà amicizia anche con i nostri fratelli minori, gli animali.

                                                                                              Salvatore Mongiardo


lunedì 5 agosto 2013

Relazione del Prof. Enrico Armogida

Relazione del Prof. Enrico Armogida
per la presentazione del libro di Salvatore Mongiardo
Cristo ritorna da Crotone
Cortile delle Suore Riparatrici, ex Palazzo Scoppa, Sant’Andrea Ionio (CZ)
2 agosto 2013

Gentili Signore e Signori,
Il mio intervento esula volutamente dalla fattispecie di una vera recensione critica sul recente lavoro di Salvatore Mongiardo per assumere, invece, il sapore vivo di testimonianza di una lunga e costante amicizia, che risale ai lontani anni ’60, (cioè al comune periodo universitario), e che ci lega, pertanto, sin dagli anni della nostra giovinezza, sì da aver costituito per entrambi una frequente occasione di fitte consultazioni, di pacate discussioni e di privilegiata lettura delle reciproche primizie creative.
Perciò, mi limiterò ad evidenziare solo alcune note ricorrenti - almeno quelle più rilevanti e significative, - che frequentemente affiorano nella sua fucina letteraria e che si possono ritrovare di volta in volta, isolatamente o meno, all’interno di tutta la ricca produzione di Salvatore [dalle Dieci Poesie (del 1989) agli impegnativi romanzi e saggi, cioè Ritorno in Calabria (del 1994), Viaggio a Gerusalemme (del 2002), Sesso e Paradiso (del 2006), Perché la violenza (del 2008) e quest’anno (2013) Cristo ritorna da Crotone]: produzione tutta pregna di preziosi tasselli autobiografici e di esistenziali motivi di riflessione.
All’interno dell’animo dell’autore, il primo elemento da evidenziare mi sembra un’innata forma d’inquietudine interiore, - simile a quella che apre le grandiose pagine iniziali delle Confessioni di Sant’Agostino: un’ inquietudine che pone l’uomo in una specie di equilibrio instabile e lo rimanda a qualcosa di più grande e di più alto, spingendolo prima o poi ad intraprendere con onestà intellettuale un lungo e sofferto cammino verso la ricerca dei supremi valori della verità, della giustizia e dell’amore.
Come necessario e complementare elemento di equilibrio stabilizzante, sul piano esistenziale, a tale forma d’inquietudine, si accompagna, anzitutto, un attaccamento alla terra natìa profondamente radicato, proprio di chi sin dalla fanciullezza ha subito prima l’esperienza traumatizzante dello straniamento, sublimato nei seminari di Squillace e Catanzaro, e più tardi quella dell’emigrazione, necessitata dalla ricerca di un lavoro soddisfacente, e perciò ha dovuto consapevolmente - e spesso amaramente - vivere il suo sradicamento dai luoghi e dalle persone amate ed il suo essere un “io diviso e lacerato”.
E, sul piano narrativo, trova spazio e ragione l’abbandono frequente a stupendi squarci lirici, che si ritrovano nei tanti aneddoti paesani inseriti, ma - ancor più -  nelle inaspettate quanto ariose e benefiche pennellate paesaggistiche, di chiara ascendenza ionico-eolica, che conferiscono alla sua prosa un particolare nitore pittorico, proprio di chi orazianamente sente la poesia non solo come pittura (Ad Pisones, 361: ut pictura poësis), ma come qualcosa di più, come un quadro partecipato, vivente e sofferente; un quadro di una limpida “lucidità”, in cui la passione della “partecipazione” è commista e contenuta dall’alterità ed imperturbabilità della “riflessione”, e mostra l’unione inestricabile e feconda di quegli elementi che - insieme alla divina “sobrietà” e “musicalità” della lingua - sono all’origine del “miracolo poetico”.
Ma il messaggio più evidente, ch’è anche l’assillo più profondo dell’autore, è quello di costruire il suo sogno perenne di una umanità nuova, libera dal seme terrificante della violenza; è il desiderio di librare lo sguardo verso l’alto, per liberare l’uomo dalla melma fangosa che ovatta il mondo  edonistico-materialistico  in cui viviamo e in cui i valori supremi sono ormai “divertimento” e “roba” (soldi, ville, macchine, sesso, droghe,…): valori che nel I sec. dopo Cr. il poeta Giovenale (X, 81) riassumeva e fustigava nel famoso binomio panem et circenses, cioè mangiare e divertirsi, quasi fossero, questi, capaci di liberare l’uomo dall’inquietudine tragica delle vicende esperenziali.
Perciò, l’autore sente l’urgente bisogno di “cambiare il mondo” (p. 11), ma, - come un albatro cui non bastano le immensità dell’oceano per realizzarsi appieno, - capisce che “ci vorrebbe un colpo d’ala” possente, “come non si è mai visto finora”(p. 9), che gli consenta di “volare alto e non rimanere schiacciato dalla vita reale” (p. 15).
E così l’arduo scavo, nel quale tutta l’opera si risolve alla ricerca delle molteplici cause della violenza - scavo corredato di tanti ricordi personali, di venerande figure storiche del Paese e di ampie ricerche storico-letterarie ben approfondite e documentate -, mostra anzitutto come le varie culture (da quella pitagorica a quella essena e a quella cristiana) s’intersechino continuamente in un meraviglioso effetto di osmosi. Ma nel contempo - (come in un piccolo stagno d’acqua circolare, ove le onde, concentricamente restringendosi e slargandosi, si rifrangono con ritmo alterno dal centro al cerchio e dal cerchio al centro) - ci sospinge anche verso l’originaria unità del genere umano, cioè ci richiama al punto di partenza della storia, che si ritrova in interiore homine, cioè nell’animo di ogni persona, ove ciascuno avverte ineludibile il bisogno di dare un senso positivo alla vita.
La profonda crisi morale dei nostri giorni in buona parte proviene dallo scadimento, ormai incontrovertibile, della politica, alla quale - pure - tutti noi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ci eravamo rivolti pieni di entusiasmo, di fiducia e di speranze. Ma proviene, soprattutto, dal contrasto stridente fra leggi scritte (o positive), che sempre più spesso sono espressione delle esigenze e degli interessi della classe sociale che le scrive e le impone, e leggi non scritte, trascendenti nella loro origine eppure immanenti e vive in ogni coscienza, le quali potrebbero assicurare la fine della violenza - e, perciò, donarci la sospirata pace -, se solo attuassero in contemporanea il bisogno universale di giustizia e di amore, in una personale opera di silenziosa donazione e di fraterna condivisione di quanto ci vive attorno.
Occorre convincersi - scriveva qualche decennio fa un grande pensatore dei nostri tempi[1] - che le situazioni conflittuali che oppongono un uomo agli altri sono solo conseguenza di situazioni conflittuali presenti nella sua anima. Perciò, ciascun uomo deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, riappacificato, allacciando con loro relazioni nuove, che valorizzino le persone più che le cose. Alla trasformazione del mondo – della quale Salvatore in tutta l’opera da varie angolazioni s’interessa – concorre e contribuisce, dunque, solo la trasformazione di sé stessi. E’ da se stessi che bisogna cominciare. Il punto da cui partire per “sollevare il mondo” - come diceva Archimede - costituisce l’impresa più audace e più ardua ed è la trasformazione di ciascuno di noi: in essa anche il sissizio conviviale e amicale - che l’autore da tempo va predicando e diffondendo -, può avere il suo valore salvifico, se non lo si riduce soltanto ad un incontro formalistico e ritualistico.
Pura utopia? Direi di no, sia perché l’utopia, intesa come progetto cosciente per il miglioramento del mondo, è stata sempre il sale e il motore della storia sia perché - lo sappiamo tutti - il sogno, finché rimane sogno di uno solo resta una cosa sterile e inerte, ma quando diventa il sogno di molti – e perché no? – il sogno di tutti, si trasforma in realtà, e meravigliosa realtà.
A Salvatore gli auguri più sentiti per una meritata diffusione e successo dell’opera; a voi tutti, qui accorsi numerosi perché spinti da una legittima e sana curiosità, una lettura attenta e meditata del volume, che ad ogni pagina offre tanti spunti per pensare e, soprattutto, per cambiare testa, come dicevano spesso i nostri padri, o - che è lo stesso - metanoèin, come dice in greco il Cristo del Vangelo.

Enrico Armogida




[1] Martin Buber: Il cammino dell’uomo – Ediz. Qiqajon – Magnano (VC) 1990

mercoledì 24 luglio 2013

Risorge la vecchia Chiesa Matrice di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, CZ.

Risorge la vecchia Chiesa Matrice di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, CZ.


Carissimi Andreolesi, Amiche ed Amici,
si sta per avverare il sogno di migliaia di noi sparsi nei cinque continenti: il recupero della veneranda Chiesa Matrice abbattuta nel 1966. Quello che fino a ieri sembrava impossibile, oggi finalmente si realizza! Il grande rimpianto per la distruzione della Chiesa Matrice ora si placa in parte con il recupero delle pietre, dei graniti della volta, delle colonne, delle scalinate e di tutti gli elementi architettonici che da quasi cinquanta anni giacciono a Fabellino. Un destino benevolo ha voluto che i detriti rovesciati nella voragine di Fabellino rimanessero compatti e uniti in una posizione favorevole al loro recupero.  Le rovine sono rimaste in attesa che andassimo a cercarle al limite della strada che da Sant’Andrea va verso la montagna, a circa 1 km dal centro.
Questo recupero avviene per iniziativa del CENTRO SOCIALE PER ANZIANI "BRUNO GENCO" – del nostro Paese. E’ per incarico del Centro che rivolgo a voi tutti un appello perché  partecipiate a questo avvenimento storico.
Il giorno 6 agosto 2013, alle ore 18, avverrà il recupero delle prime pietre a Fabellino: un appuntamento con la storia da non perdere.
Il giorno 14 agosto 2013, alle ore 21.00, nel Cortile delle Suore Riparatrici, si terrà un incontro nel quale farò da moderatore e interverranno:
Maria Antonietta Lijoi, Presidente Circolo Sociale per Anziani Bruno Genco, il Sindaco Gerardo Frustaci, l’Assessore Franco Monsalina, Mario Codispoti Presidente ARA, Andrea Corapi Presidente AMA, Alfredo Varano e don Francesco Palaia.
Nulla potrà più restituire le atmosfere, le penombre, lo splendore degli altari policromi, dei dipinti delle cappelle, la maestosità del campanile, la voce antica delle tre campane, il pellicano dipinto sull’abside che si squarciava il petto per nutrire col sangue i suoi tre piccoli, le balaustre in ferro battuto…
Il recupero, che sarà illustrato nei dettagli tecnici dall’architetto Alfredo Varano, assume  valore di abbraccio simbolico che da Sant’Andrea si protende al Tempio di Gerusalemme, alle chiese, alle moschee e a tutti i luoghi sacri del mondo distrutti nelle guerre di religione e di conquista.
Chiedo a tutti quelli che hanno foto, cartoline, immaginette che riguardano la vecchia Chiesa Matrice, di mandarmeli per farne col tempo un libro. Per fortuna la grafica computerizzata oggi ci permette di fare una ricostruzione virtuale della Chiesa, e  invito chi è esperto in materia a farsi vivo. Chiedo anche a ognuno che ha un ricordo, una storia, un aneddoto da raccontare sulla Chiesa, di mandarmela per catalogarla.
Personalmente ho vissuto quella Chiesa in tutti i sacri penetrali, nelle immagini dei Santi, nel canto della liturgia, nella voci dei vecchi sacerdoti. La sua distruzione ha lasciato in me un vuoto incolmabile, ma mi ha anche portato a fare una predizione, come ho scritto nel mio Ritorno in Calabria, che allego e invito a rileggere per l’occasione.
Dal capitolo 33, La vigna di Tralò, -il colloquio tra me e Cristo-:
…Io mi misi a pregarlo:
– Signore, salva la Calabria, salva la mia terra! –
Gesù alzò lo sguardo e disse:
- Nel terzo millennio dalla mia nascita a Betlemme, lo Spirito di Dio soffierà sul mondo, gli abitanti di tutte le nazioni si riconosceranno fratelli e affideranno la loro vita a madri, sorelle, spose, figlie, amiche: la donna salverà l’umanità dalla violenza. Allora le donne della Calabria verranno a Fabellino e cercheranno le pietre della vecchia chiesa non per erigere l’altare del sacrificio, ma la mensa dell’amore fraterno. La vecchia chiesa era bella, ma non era la mia chiesa.
Il vento del Sud si levò insolito per quell’ora. Mi girai per un attimo a guardare le larghe folate che rovesciavano le chiome d’argento degli ulivi e agitavano le cime dei cipressi nel cimitero. Quando tornai con lo sguardo non vidi più Gesù, che fino a un istante prima era seduto accanto a me. Le lacrime mi sgorgarono a dirotto e caddero sulla terra di Calabria, amata e amara. Allora capii chi ero e cosa dovevo fare: vivere per aiutare gli altri, vivere per aiutare la mia gente…
Cominciai a scendere dalla vigna verso il paese. Il sole era calato dietro la montagna e nel cielo un gregge di nuvole rosa avanzava verso il mare. Gli ultimi bagliori si diffondevano sul Golfo di Squillace e, anche se era il tramonto, quella luce mi appariva con i colori teneri del mattino. Pensai che non era lontana l’alba del tempo nuovo che Gesù mi aveva annunciato.
Salvatore Mongiardo

24 luglio 2013

venerdì 10 maggio 2013

PRESENTAZIONE LIBRO ROMA CRISTO RITORNA DA CROTONE

Cari Amici,
potete vedere la presentazione del 3 maggio a Roma e nel secondo link una mia intervista.
Cordialità.

https://www.youtube.com/watch?v=4dvDHeqzq3g  

https://www.youtube.com/user/85Vis 

martedì 23 aprile 2013

PRESENTAZIONE LIBRO Cristo ritorna da Crotone


Salvatore Mongiardo
Cristo ritorna da Crotone
PRESENTAZIONE ROMA VIA GIULIA 142 VENERDI' 3 MAGGIO  2013 ORE 17 
Le radici culturali del messaggio di Gesù derivano dall'antica
Calabria, dove re Italo fondò l’Italia con il Sissizio, il convivio comune
ed egualitario. Attorno al Sissizio si svilupparono i valori di amicizia,
libertà, giustizia sociale, rifiuto del sacrificio di sangue, dieta
vegetariana, comunità di vita e di beni, adottati poi da Pitagora e
riassunti nel “Sissizio pitagorico”, la cena rituale col pane e il vino.
La dottrina della Scuola Pitagorica di Crotone si diffuse nel
Mediterraneo e arrivò anche agli Esseni, che celebravano la stessa
cena sissiziale, diventata poi l’Ultima Cena di Gesù. La Calabria fu
quindi la culla dell’eucaristia: da lì viene anche l’ostia bianca e
rotonda della messa e la tovaglia di lino bianco sugli altari. Questo
libro spiega le culture attraverso le quali si è formata la dottrina di
Gesù e dà nuova luce al destino dell’umanità: finché i Vangeli saranno
letti, anche questo libro sarà letto.
Il libro, con la scoperta di queste radici culturali, rivela un
Cristo Nuovo e annuncia la sua Seconda Venuta.


Salvatore Mongiardo è nato a Sant’Andrea Jonio (CZ) nel
1941, si è laureato in Italia e specializzato in Germania e
Francia. Ha lavorato nel marketing internazionale per la
Procter&Gamble a Roma, per l’Aga Khan in Costa Smeralda
e poi nell’immobiliare a Milano. Successivamente si è dedicato
soprattutto alla scrittura: i suoi libri autobiografici indagano
l’umano destino e le cause profonde della violenza. Egli
sostiene che in Calabria si trovano i più grandi giacimenti di
energie mentali e morali, il vero tesoro dell’umanità, e
che dalla Calabria verrà la nuova civiltà del mondo, la
CIVILTA’ SISSIZIALE. I fatti, le situazioni, i nomi
e i personaggi dei suoi libri sono veri.
Opere pubblicate: Dieci poesie, Ritorno in Calabria, Viaggio a Gerusalemme,
Sesso e Paradiso, Perché la violenza.

www.gangemieditore.it
WORLDWIDE DISTRIBUTION
& DIGITAL VERSION EBOOK /APP:

lunedì 25 marzo 2013

CRISTO RITORNA DA CROTONE


Care Amiche ed Amici,
Ho il piacere di annunciarVi che è già disponibile il mio libro che potete ordinare presso Gangemi Editore.

Per l’occasione l’Editore praticherà uno sconto da 15,00 a 12,00 euro senza spese di spedizione in caso di pagamento anticipato su conto corrente bancario, bollettino postale o carta di credito. Il libro è disponibile anche in formato eBook al seguente indirizzo http://www.gangemieditore.com/scheda_articolo.php?id_prodotto=4267.
 Per pagamento su conto corrente bancario:

BANCA: Unicredit S.p.A.
INTESTATO A: Gangemi Editore S.p.A.
IBAN: IT 10 O 02008 05022 000400000805
ABI: 02008 CAB: 05022 CIN: O C/C 000400000805
 Per pagamento con bollettino postale:

Versamento su c/c postale n° 15.911.001
intestato a Gangemi Editore S.p.A., piazza San Pantaleo 4, 00186 Roma.

Per pagamento con carta di credito:
2.       Cliccare su “acquista”
3.       Inserire il codice sconto “mongiardo”

 ________________
Ufficio commerciale Gangemi Editore S.p.A.Piazza San Pantaleo 4 direzione editoriale
00186 Roma
Via Giulia, 142 sala conferenze e mostre
Via Giacomo Peroni, 130 (Tecnopolo Romano) stabilimento
Via Ramperti, 9 centro logistica media
0039 06.6872774/5 (centralino)
0039 06.68806189 (fax)www.gangemieditore.it

Sfoglia online il nostro catalogo

ESORTAZIONE A PAPA FRANCESCO


Esortazione a Papa Francesco
Santità,
per una fortunata coincidenza il mio libro Cristo ritorna da Crotone  è andato in stampa a Roma lo stesso giorno della Vostra elezione a papa. Anche io ero in Piazza San Pietro aspettando che si aprisse il balcone, e mi è piaciuto quando avete recitato insieme a tutti noi il Padre Nostro che dice:
Rimetti a noi i nostri debiti.
I debiti pubblici hanno raggiunto livelli inaccettabili e bisogna abbatterli per il bene di tutti, soprattutto dei più poveri. Le grandi culture come l’ebraica, la pitagorica e l’islamica hanno sempre condannato il pagamento di interessi sui debiti: il meccanismo perverso degli interessi sta spingendo i popoli verso una nuova miseria. Ed è troppa l’angoscia tra le popolazioni che assistono agli ondeggiamenti dei mercati finanziari ormai fuori controllo.
Nel mio libro, al capitolo 37, propongo la soluzione del problema dei debiti in questo modo:
CONGELARE I DEBITI PUBBLICI
NON PAGARE PIU’ INTERESSI
RESTITUIRE IL DEBITO IN UNA VENTINA DI ANNI.
Io non ho l’autorità per portare avanti questa campagna che invece acquisterebbe straordinaria potenza sulla Vostra bocca dal momento che avete voluto chiamarVi Francesco, come il Poverello di Assisi. Io vengo da una terra di emigrazione, la Calabria, e in Argentina ho visitato una numerosa comunità di Calabresi, alcuni noti anche a Voi. Dalla Calabria viene anche una lezione di comunione di vita e di beni col Pitagorismo, e una capacità di grandi visioni con Gioacchino da Fiore.
Spero che Vi facciate interprete di questa proposta presso la comunità internazionale e mi auguro che veniate a visitare la Calabria, la terra che fu madre dell’Italia e culla dell’Eucaristia.
Fraternamente,
Salvatore Mongiardo
Roma, 19 marzo 2013


domenica 18 novembre 2012

Storia della statua di S. Andrea Apostolo


Storia della statua di S. Andrea Apostolo
che si venera nell’omonimo paese sullo Ionio in Calabria

La statua è in legno di ulivo e risalirebbe all’anno 1047. Ne abbiamo certezza perché, intorno al 1933, i pittori Zimatore e Grillo, che affrescarono la chiesa del Patrono, decisero di aprire la statua per alleggerirla e risanarla dei tarli roditori. I portatori, difatti, si lamentavano del peso eccessivo durante le lunghe processioni, ma nessun falegname in paese era disposto a tagliarla. Allora i pittori si rivolsero a mio padre, Mastru Vicenzìnu, che trapanò il petto del Santo e vide che la punta di ferro affondava. Poi la segò dalla spalla sinistra alla coscia destra, e nel cavo c’era ’na cartuddha, un pezzetto di pergamena con su scritto 1047. Mio padre era categorico sulla data: ’A vitta io!... L’ho vista io! Questa notizia è leggermente in contrasto con quanto riporta don Tito Voci nel suo bel libro Indagine storica su S. Andrea Jonio (pag.51), che fa risalire l’iscrizione all’anno 1009, e il rinvenimento dell’iscrizione stessa a metà del Milleottocento, quando la statua fu restaurata dopo l’oltraggio dei soldati francesi. Don Tito riporta questa notizia che aveva appreso dall’arciprete don Bruno Voci, grande dotto e compagno di studi di Pio XII a Roma.
Gli anni attorno al Mille erano quelli della conquista della Calabria da parte dei Normanni, ma prima del loro arrivo da noi si osservava il rito greco, che esclude tutte le statue e permette solo le immagini, le icone. La statua, quindi, segna un ritorno al culto latino e testimonia anche che il paese di Sant’Andrea in collina era preesistente, visto che si poneva una statua importante in quella chiesa. La statua riecheggia le antiche sculture greche, con il piede sinistro poggiato sulla punta e indietreggiato rispetto al destro. Elemento particolare è il libro che il Santo tiene con la mano sinistra e che rappresenta il Vangelo di Sant’Andrea, il famoso Quinto Vangelo che nessuno ha finora trovato e che riporterebbe una dottrina in parte diversa da quella dei quattro vangeli canonici. Nella stessa pagina don Tito scrive: Tra i simboli di Sant’Andrea, insieme alla croce e ai pesci, vediamo un libro, che può riferirsi ai Vangeli di Sant’Andrea, messi tra gli apocrifi del Decreto Gelasiano (Papa Gelasio I, 492-496). Certamente lo scultore teneva conto dell’antica tradizione orientale circa un vangelo attribuito a S. Andrea, e testimonia così anche l’antichità della statua.
Questa vicenda è stata narrata da Mario Pomilio nel bellissimo romanzo “Il quinto evangelio, Rusconi, 1975, pag.73”:
… Avevo dimenticato di parlarti d’una credenza e d’una usanza. Si dice qui che ogni cento anni un monaco arriva fra noi dall’Oriente recando con sé un libro e dei pesci. Ed è uso d’un paese non distante da qui, sito proprio a mezza strada tra Stilo e Vivario, d’addobbare ogni anno in primavera una navicella con fiori e ricchi drappi, per simularne lo sbarco. Dietro l’uomo che fa le
parti del monaco si forma quindi una processione la quale per un sentiero sale fino a un’antica chiesa molto cara ai pescatori e dedicata a Sant’Andrea, quello stesso che fu tra gli apostoli di Gesù e che, a quanto narrano, fu inviato in Calabria a convertire le nostre genti. Alla fine i pesci e il libro vengono deposti sull’altare. I primi sono per ricordare che fu proprio quell’apostolo a indicare a Gesù, quando le genti ebbero fame, il ragazzo che teneva in mano i pesci e i pani del miracolo. Per quanto riguarda il libro, un vecchio codice dei Vangeli, ricordo d’aver udito che fu appunto Sant’Andrea colui che indusse San Giovanni a scrivere il suo Vangelo.
Il paese cui fa riferimento Mario Pomilio, a metà strada tra Stilo e Vivario, cioè Squillace, non può essere che il nostro, ma non sappiamo da dove Pomilio prese quell’indicazione così precisa.
Nel libro di Mons. Francesco Samà, dal titolo Vita di S. Andrea Apostolo, si narra che la statua fu portata al mare e bagnata dal popolo per implorare la pioggia dopo tre anni di siccità: O ni vagni o ti vagnàmu… O ci bagni o ti bagniamo. Quest’antica credenza forse riecheggia i riti propiziatori della pioggia che si facevano ai tempi della Magna Grecia, portando a mare le statue delle divinità, come avveniva per i Bronzi di Riace (Prof. Giuseppe Roma, Università della Calabria). Monsignor Samà riporta anche l’offesa fatta alla statua durante il saccheggio del paese nel 1806 da parte delle truppe napoleoniche. Un soldato cavò gli occhi con la baionetta perché non era riuscito a tirare la statua giù dalla nicchia per distruggerla: Accippàu, cioè diventò pesante e immobile come un ceppo d’albero.
La croce a X, o croce decussata, è il simbolo del Santo e si trova anche su alcune bandiere, come quella di Scozia. Generalmente si ritiene che il Santo fu legato a una croce di quella forma. La critica più recente spiega che forse fu legato a un albero con piedi e mani allargate, e diventò lui stesso come una X, come l’uomo di Leonardo per intenderci. Fu quindi visto dai presenti come una X, che nella lingua greca corrisponde al chi aspirato maiuscolo e rappresenta, secondo Platone, l’immortalità.
Al braccio destro del Santo è appesa una coppia di triglie, in ricordo di quando Andrea di Betsaida era pescatore fin quando Gesù lo chiamò per primo: perciò in greco è designato come protocleto. Betsaida sorge sul Lago di Genezaret o Tiberiade, in ebraico Kinneret per la sua forma di arpa, detto anche Mar di Galilea, dove le triglie, pesce di acqua salata, non esistono, come ho verificato di persona. La triglia, invece, è comune nei mari della Grecia (barbunia). Le reliquie che si conservano in paese sono due: una è del liquido (manna) che trasuda dal sacello dove si conservano le ossa dell’Apostolo in Amalfi. L’altra è un frammento dell’occipite (còcculu), secondo una tradizione orale a me riferita da don Luigi Samà. D’altra parte, Mario Codispoti ricorda come nel popolo si credeva che gli Andreolesi fossero particolarmente intelligenti per virtù di questa reliquia. La complessa vicenda delle reliquie del Santo è riportata nel libro di Mons. Samà e si può riassumere così: in Amalfi c’è il corpo e l’occipite, come ho verificato di persona. Il cranio, portato a Roma, fu restituito da Papa Paolo VI alla Chiesa di Patrasso. Dal cranio manca anche la parte frontale, venerata nel Monastero di Sant’Andrea sul Monte Athos in Grecia, da me fotografata nell’agosto del 2012 (vedi foto).
Nelle vecchie immaginette e nel filmino a colori girato dal compianto Bruno Greco, insegnante e notaio a Brooklyn, si può vedere l’aureola in argento trafugata nel furto sacrilego intorno al 1950 assieme alla croce e ai due pesci. Quell’aureola era fatta con grappoli d’uva traforati e intrecciati su tutta la superficie, mentre l’aureola che l’ha sostituita porta dei grappoli solo verso l’esterno. Per quanto a mia conoscenza, il dio greco Diòniso aveva il capo coperto di grappoli d’uva (Bacco per i Romani). Quell’aureola forse riecheggiava le nostre lontane origini come popolo degli Enotri che poi diventarono Itali. Quegli Enotri abitavano le nostre contrade, come confermerebbero i palmenti scavati nella roccia, di recente scoperti nelle campagne di Santa Caterina Ionio (vedi relazione di Manuela Alessia Pisano).
Salvatore Mongiardo