lunedì 5 agosto 2013

Relazione del Prof. Enrico Armogida

Relazione del Prof. Enrico Armogida
per la presentazione del libro di Salvatore Mongiardo
Cristo ritorna da Crotone
Cortile delle Suore Riparatrici, ex Palazzo Scoppa, Sant’Andrea Ionio (CZ)
2 agosto 2013

Gentili Signore e Signori,
Il mio intervento esula volutamente dalla fattispecie di una vera recensione critica sul recente lavoro di Salvatore Mongiardo per assumere, invece, il sapore vivo di testimonianza di una lunga e costante amicizia, che risale ai lontani anni ’60, (cioè al comune periodo universitario), e che ci lega, pertanto, sin dagli anni della nostra giovinezza, sì da aver costituito per entrambi una frequente occasione di fitte consultazioni, di pacate discussioni e di privilegiata lettura delle reciproche primizie creative.
Perciò, mi limiterò ad evidenziare solo alcune note ricorrenti - almeno quelle più rilevanti e significative, - che frequentemente affiorano nella sua fucina letteraria e che si possono ritrovare di volta in volta, isolatamente o meno, all’interno di tutta la ricca produzione di Salvatore [dalle Dieci Poesie (del 1989) agli impegnativi romanzi e saggi, cioè Ritorno in Calabria (del 1994), Viaggio a Gerusalemme (del 2002), Sesso e Paradiso (del 2006), Perché la violenza (del 2008) e quest’anno (2013) Cristo ritorna da Crotone]: produzione tutta pregna di preziosi tasselli autobiografici e di esistenziali motivi di riflessione.
All’interno dell’animo dell’autore, il primo elemento da evidenziare mi sembra un’innata forma d’inquietudine interiore, - simile a quella che apre le grandiose pagine iniziali delle Confessioni di Sant’Agostino: un’ inquietudine che pone l’uomo in una specie di equilibrio instabile e lo rimanda a qualcosa di più grande e di più alto, spingendolo prima o poi ad intraprendere con onestà intellettuale un lungo e sofferto cammino verso la ricerca dei supremi valori della verità, della giustizia e dell’amore.
Come necessario e complementare elemento di equilibrio stabilizzante, sul piano esistenziale, a tale forma d’inquietudine, si accompagna, anzitutto, un attaccamento alla terra natìa profondamente radicato, proprio di chi sin dalla fanciullezza ha subito prima l’esperienza traumatizzante dello straniamento, sublimato nei seminari di Squillace e Catanzaro, e più tardi quella dell’emigrazione, necessitata dalla ricerca di un lavoro soddisfacente, e perciò ha dovuto consapevolmente - e spesso amaramente - vivere il suo sradicamento dai luoghi e dalle persone amate ed il suo essere un “io diviso e lacerato”.
E, sul piano narrativo, trova spazio e ragione l’abbandono frequente a stupendi squarci lirici, che si ritrovano nei tanti aneddoti paesani inseriti, ma - ancor più -  nelle inaspettate quanto ariose e benefiche pennellate paesaggistiche, di chiara ascendenza ionico-eolica, che conferiscono alla sua prosa un particolare nitore pittorico, proprio di chi orazianamente sente la poesia non solo come pittura (Ad Pisones, 361: ut pictura poësis), ma come qualcosa di più, come un quadro partecipato, vivente e sofferente; un quadro di una limpida “lucidità”, in cui la passione della “partecipazione” è commista e contenuta dall’alterità ed imperturbabilità della “riflessione”, e mostra l’unione inestricabile e feconda di quegli elementi che - insieme alla divina “sobrietà” e “musicalità” della lingua - sono all’origine del “miracolo poetico”.
Ma il messaggio più evidente, ch’è anche l’assillo più profondo dell’autore, è quello di costruire il suo sogno perenne di una umanità nuova, libera dal seme terrificante della violenza; è il desiderio di librare lo sguardo verso l’alto, per liberare l’uomo dalla melma fangosa che ovatta il mondo  edonistico-materialistico  in cui viviamo e in cui i valori supremi sono ormai “divertimento” e “roba” (soldi, ville, macchine, sesso, droghe,…): valori che nel I sec. dopo Cr. il poeta Giovenale (X, 81) riassumeva e fustigava nel famoso binomio panem et circenses, cioè mangiare e divertirsi, quasi fossero, questi, capaci di liberare l’uomo dall’inquietudine tragica delle vicende esperenziali.
Perciò, l’autore sente l’urgente bisogno di “cambiare il mondo” (p. 11), ma, - come un albatro cui non bastano le immensità dell’oceano per realizzarsi appieno, - capisce che “ci vorrebbe un colpo d’ala” possente, “come non si è mai visto finora”(p. 9), che gli consenta di “volare alto e non rimanere schiacciato dalla vita reale” (p. 15).
E così l’arduo scavo, nel quale tutta l’opera si risolve alla ricerca delle molteplici cause della violenza - scavo corredato di tanti ricordi personali, di venerande figure storiche del Paese e di ampie ricerche storico-letterarie ben approfondite e documentate -, mostra anzitutto come le varie culture (da quella pitagorica a quella essena e a quella cristiana) s’intersechino continuamente in un meraviglioso effetto di osmosi. Ma nel contempo - (come in un piccolo stagno d’acqua circolare, ove le onde, concentricamente restringendosi e slargandosi, si rifrangono con ritmo alterno dal centro al cerchio e dal cerchio al centro) - ci sospinge anche verso l’originaria unità del genere umano, cioè ci richiama al punto di partenza della storia, che si ritrova in interiore homine, cioè nell’animo di ogni persona, ove ciascuno avverte ineludibile il bisogno di dare un senso positivo alla vita.
La profonda crisi morale dei nostri giorni in buona parte proviene dallo scadimento, ormai incontrovertibile, della politica, alla quale - pure - tutti noi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ci eravamo rivolti pieni di entusiasmo, di fiducia e di speranze. Ma proviene, soprattutto, dal contrasto stridente fra leggi scritte (o positive), che sempre più spesso sono espressione delle esigenze e degli interessi della classe sociale che le scrive e le impone, e leggi non scritte, trascendenti nella loro origine eppure immanenti e vive in ogni coscienza, le quali potrebbero assicurare la fine della violenza - e, perciò, donarci la sospirata pace -, se solo attuassero in contemporanea il bisogno universale di giustizia e di amore, in una personale opera di silenziosa donazione e di fraterna condivisione di quanto ci vive attorno.
Occorre convincersi - scriveva qualche decennio fa un grande pensatore dei nostri tempi[1] - che le situazioni conflittuali che oppongono un uomo agli altri sono solo conseguenza di situazioni conflittuali presenti nella sua anima. Perciò, ciascun uomo deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, riappacificato, allacciando con loro relazioni nuove, che valorizzino le persone più che le cose. Alla trasformazione del mondo – della quale Salvatore in tutta l’opera da varie angolazioni s’interessa – concorre e contribuisce, dunque, solo la trasformazione di sé stessi. E’ da se stessi che bisogna cominciare. Il punto da cui partire per “sollevare il mondo” - come diceva Archimede - costituisce l’impresa più audace e più ardua ed è la trasformazione di ciascuno di noi: in essa anche il sissizio conviviale e amicale - che l’autore da tempo va predicando e diffondendo -, può avere il suo valore salvifico, se non lo si riduce soltanto ad un incontro formalistico e ritualistico.
Pura utopia? Direi di no, sia perché l’utopia, intesa come progetto cosciente per il miglioramento del mondo, è stata sempre il sale e il motore della storia sia perché - lo sappiamo tutti - il sogno, finché rimane sogno di uno solo resta una cosa sterile e inerte, ma quando diventa il sogno di molti – e perché no? – il sogno di tutti, si trasforma in realtà, e meravigliosa realtà.
A Salvatore gli auguri più sentiti per una meritata diffusione e successo dell’opera; a voi tutti, qui accorsi numerosi perché spinti da una legittima e sana curiosità, una lettura attenta e meditata del volume, che ad ogni pagina offre tanti spunti per pensare e, soprattutto, per cambiare testa, come dicevano spesso i nostri padri, o - che è lo stesso - metanoèin, come dice in greco il Cristo del Vangelo.

Enrico Armogida




[1] Martin Buber: Il cammino dell’uomo – Ediz. Qiqajon – Magnano (VC) 1990

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