Relazione
del Prof. Enrico Armogida
per la
presentazione del libro di Salvatore
Mongiardo
Cristo ritorna da Crotone
Cortile
delle Suore Riparatrici, ex Palazzo Scoppa, Sant’Andrea Ionio (CZ)
2
agosto 2013
Gentili
Signore e Signori,
Il mio
intervento esula volutamente dalla fattispecie di una vera recensione critica
sul recente lavoro di Salvatore Mongiardo per assumere, invece, il sapore vivo
di testimonianza di una lunga e costante amicizia, che risale ai lontani anni
’60, (cioè al comune periodo universitario), e che ci lega, pertanto, sin dagli
anni della nostra giovinezza, sì da aver costituito per entrambi una frequente
occasione di fitte consultazioni, di pacate discussioni e di privilegiata
lettura delle reciproche primizie
creative.
Perciò,
mi limiterò ad evidenziare solo alcune note
ricorrenti - almeno quelle più rilevanti e significative, - che
frequentemente affiorano nella sua fucina letteraria e che si possono ritrovare
di volta in volta, isolatamente o meno, all’interno di tutta la ricca
produzione di Salvatore [dalle Dieci
Poesie (del 1989) agli impegnativi romanzi e saggi, cioè Ritorno in Calabria (del 1994),
Viaggio a Gerusalemme (del 2002), Sesso e Paradiso (del 2006), Perché la violenza (del 2008)
e quest’anno (2013) Cristo ritorna da Crotone]: produzione
tutta pregna di preziosi tasselli autobiografici e di esistenziali motivi di
riflessione.
All’interno dell’animo dell’autore, il
primo elemento da evidenziare mi sembra un’innata forma d’inquietudine interiore, - simile a quella che apre le grandiose
pagine iniziali delle Confessioni di
Sant’Agostino: un’ inquietudine che
pone l’uomo in una specie di equilibrio instabile e lo rimanda a qualcosa di
più grande e di più alto, spingendolo prima o poi ad intraprendere con onestà
intellettuale un lungo e sofferto cammino verso la ricerca dei supremi valori
della verità, della giustizia e dell’amore.
Come necessario e complementare
elemento di equilibrio stabilizzante, sul piano esistenziale, a tale forma
d’inquietudine, si accompagna, anzitutto, un attaccamento alla terra natìa profondamente radicato, proprio di
chi sin dalla fanciullezza ha subito prima
l’esperienza traumatizzante dello straniamento, sublimato nei seminari di
Squillace e Catanzaro, e più tardi quella
dell’emigrazione, necessitata dalla ricerca di un lavoro soddisfacente, e
perciò ha dovuto consapevolmente - e spesso amaramente - vivere il suo
sradicamento dai luoghi e dalle persone amate ed il suo essere un “io diviso e lacerato”.
E, sul piano narrativo, trova spazio e
ragione l’abbandono frequente a stupendi
squarci lirici, che si ritrovano nei tanti aneddoti paesani inseriti, ma -
ancor più - nelle inaspettate quanto
ariose e benefiche pennellate paesaggistiche, di chiara ascendenza ionico-eolica, che conferiscono alla sua
prosa un particolare nitore pittorico, proprio
di chi orazianamente sente la poesia
non solo come pittura (Ad Pisones, 361:
ut pictura poësis), ma come qualcosa
di più, come un quadro partecipato,
vivente e sofferente; un
quadro di una limpida “lucidità”,
in cui la passione della “partecipazione”
è commista e contenuta dall’alterità ed imperturbabilità della “riflessione”, e mostra l’unione
inestricabile e feconda di quegli elementi che - insieme alla divina “sobrietà” e “musicalità” della lingua - sono all’origine del “miracolo poetico”.
Ma il
messaggio più evidente, ch’è anche l’assillo più profondo dell’autore, è quello
di costruire il suo sogno perenne di
una umanità nuova, libera dal seme
terrificante della violenza; è il desiderio di librare lo sguardo
verso l’alto, per liberare l’uomo dalla melma fangosa che ovatta il mondo edonistico-materialistico in cui viviamo e in cui i valori supremi sono
ormai “divertimento” e “roba” (soldi, ville, macchine, sesso,
droghe,…): valori che nel I sec.
dopo Cr. il poeta Giovenale (X, 81) riassumeva e fustigava nel famoso binomio panem et circenses, cioè mangiare e divertirsi, quasi fossero,
questi, capaci di liberare l’uomo dall’inquietudine tragica delle vicende
esperenziali.
Perciò,
l’autore sente l’urgente bisogno di “cambiare
il mondo” (p. 11), ma, - come un
albatro cui non bastano le immensità dell’oceano per realizzarsi appieno, - capisce che “ci vorrebbe un colpo d’ala” possente, “come non si è
mai visto finora”(p. 9), che gli consenta di “volare alto e non rimanere schiacciato dalla vita reale” (p. 15).
E così
l’arduo scavo, nel quale tutta
l’opera si risolve alla ricerca delle molteplici cause della violenza - scavo
corredato di tanti ricordi personali, di venerande figure storiche del Paese e
di ampie ricerche storico-letterarie ben approfondite e documentate -, mostra
anzitutto come le varie culture (da
quella pitagorica a quella essena e a quella cristiana) s’intersechino
continuamente in un meraviglioso effetto di osmosi.
Ma nel contempo - (come in un piccolo stagno d’acqua circolare, ove le onde, concentricamente
restringendosi e slargandosi, si rifrangono con ritmo alterno dal centro al cerchio e dal cerchio al
centro) - ci sospinge anche verso l’originaria
unità del genere umano, cioè ci richiama al punto di partenza della storia, che si ritrova in interiore homine, cioè
nell’animo di ogni persona, ove ciascuno avverte ineludibile il bisogno di dare un senso positivo alla vita.
La
profonda crisi morale dei nostri giorni in buona parte proviene dallo
scadimento, ormai incontrovertibile, della politica, alla quale - pure - tutti
noi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ci eravamo rivolti pieni di
entusiasmo, di fiducia e di speranze.
Ma proviene, soprattutto, dal contrasto stridente fra leggi scritte (o positive), che sempre più spesso sono espressione
delle esigenze e degli interessi della classe sociale che le scrive e le
impone, e leggi non scritte,
trascendenti nella loro origine eppure immanenti e vive in ogni coscienza, le
quali potrebbero assicurare la fine della
violenza - e, perciò, donarci la
sospirata pace -, se solo
attuassero in contemporanea il bisogno universale di giustizia e di amore, in una personale
opera di silenziosa donazione e di
fraterna condivisione di quanto ci
vive attorno.
Occorre
convincersi - scriveva qualche decennio fa un grande pensatore dei nostri tempi[1]
- che le situazioni conflittuali che oppongono un uomo agli altri sono solo
conseguenza di situazioni conflittuali presenti nella sua anima. Perciò, ciascun uomo deve sforzarsi di superare il
proprio conflitto interiore per potersi rivolgere ai suoi simili da uomo
trasformato, riappacificato, allacciando con loro relazioni nuove, che
valorizzino le persone più che le
cose. Alla trasformazione del mondo – della quale Salvatore in tutta l’opera da
varie angolazioni s’interessa – concorre e contribuisce, dunque, solo la
trasformazione di sé stessi. E’ da se stessi che bisogna cominciare. Il punto
da cui partire per “sollevare il mondo”
- come diceva Archimede - costituisce l’impresa più audace e più ardua ed è la
trasformazione di ciascuno di noi: in essa anche il sissizio conviviale e amicale - che l’autore da tempo va
predicando e diffondendo -, può avere il suo valore salvifico, se non lo si riduce soltanto ad un
incontro formalistico e ritualistico.
Pura utopia? Direi di no, sia perché
l’utopia, intesa come progetto cosciente per il miglioramento del mondo, è
stata sempre il sale e il motore della storia sia perché - lo sappiamo tutti -
il sogno, finché rimane sogno di uno solo resta una cosa sterile e inerte, ma
quando diventa il sogno di molti – e perché no? – il sogno di tutti, si
trasforma in realtà, e meravigliosa realtà.
A
Salvatore gli auguri più sentiti per una meritata diffusione e successo
dell’opera; a voi tutti, qui accorsi numerosi perché spinti da una legittima e
sana curiosità, una lettura attenta e meditata del volume, che ad ogni pagina
offre tanti spunti per pensare e, soprattutto, per cambiare testa, come dicevano spesso i nostri padri, o - che è lo
stesso - metanoèin, come dice in
greco il Cristo del Vangelo.
Enrico Armogida
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