martedì 26 gennaio 2010

CONCERTINO ALLA PORTA

STRUGGENTI RICORDI DI ARCANA BELLEZZA NEL MONDO DELL'INFANZIA CALABRESE



Nonna Marianna avanzava con la lunga sottana nera: vestiva a lutto da quando suo marito, mio nonno Salvatore, era morto trent' anni prima nel 1922. La sottana terminava con un ampio riccio, nero anche quello; mio nonno era maestro fabbro, non un comune contadino, e perciò lei aveva diritto a quella distinzione. Zia Antonia, sua figlia e sorella di mio padre, la seguiva portando una sporta vuota sulla testa, fatta di canne e vimini intrecciati. Passarono la curva della caserma accanto a casa mia e arrivarono alla forgia di mio padre, che stava ferrando un asino. Il padrone dell'asino teneva sollevato il piede dell' animale con tutte e due le mani. Mio padre gli pareggiava e puliva l'unghia con un attrezzo simile a una palettina dai bordi taglienti come un rasoio, in andreolese chiamato "rùajina" parola misteriosa che in italiano, con termine non meno misterioso si chiama incastro.
Si fermarono davanti alla forgia e uno degli apprendisti di mio padre alzò la falce che aveva appena terminato, la incrociò con un martello come il simbolo del partito comunista e:
"Una falce così bella non ce l' ha nemmeno Stalin!" esclamò consegnandola a zia Antonia che la mise dentro la sporta, mi prese per mano e mi condusse con loro appena fuori paese, alla Porta, dove avevano un piccolo fondo con alberi di fichi. Per arrivare alla Porta dovemmo passare davanti alle prime Madonnelle, una minuscola cappella votiva con quattro riquadri raffiguranti santi e la Madonna del Carmine, ancora bucherellata da quando un cacciatore, adirato perché non aveva colpito nessuna quaglia, le aveva sparato urlando:
"Almeno a te ti becco!"
La Madonna del Carmine non gradì l'oltraggio e ripagò all'istante il cacciatore con una paralisi facciale che gli storse il viso per il resto dei suoi giorni.
Noi tre scendemmo ancora per un centinaio di metri lungo l'impietrata, la ripida strada selciata fatta con i sassi levigati del fiume Alaca, bagnata per secoli dal sudore dei contadini e delle donne che la risalivano, carichi come bestie da soma fino al paese.

Passammo davanti alle seconde Madonnelle, altri cinque riquadri con altri santi, e girammo a sinistra lasciando l'impietrata e le rovine del lazzaretto, dove passavano la quarantena i forestieri che arrivavano in paese. Io diedi un'occhiata attenta agli olmi che crescevano accanto alle rovine del lazzaretto: erano carichi di bacche ancora verdi. Fra qualche mese avrei fatto man bassa di bacche dolciastre e saporite. Superammo il dosso e scendemmo nella valletta ombreggiata da querce, ulivi e fichi. Zia Antonia non perse tempo. Con la falce tagliò l'erba secca attorno agli alberi, poi montò su un grande fico carico di frutti maturi e si mise a riempire il paniere.
Erano le cinque del pomeriggio e cominciò a rintoccare la campana della chiesa matrice che chiamava per la recita del rosario e la benedizione serale. Nonna Marianna sedette ai piedi di un ulivo al tronco del quale era stato legato, con un filo di raffia, un rametto di ulivo benedetto nel giorno delle Palme, che serviva a propiziare un buon raccolto. Prese dalla tasca la corona e cominciò a pregare. Io feci un cappio con un lungo stelo d'erba e cercai qualche lucertola da acchiappare. Forse inseguendo una lucertola, o forse perché era l'ora che gli animali si affrettavano alle loro tane, un grande serpente nero avanzò verso di me frusciando tra le foglie. Al mio urlo di spavento nonna Marianna si alzò e agitò il rosario contro la mala bestia; zia Antonia scese dall'albero e avanzò verso il serpente schermandomi dietro di sé:
"Vieni qua, vieni, se hai coraggio: ti schiaccio la testa come la Vergine Immacolata!"
Il serpente non accettò la sfida e piegando flessuosamente si allontanò di lato. Zia Antonia continuò a raccog1iere fichi e nonna Marianna a pregare. Quando terminò il rosario implorò a voce alta:
"Madonna mia, perdonami se non vengo stasera alla novena in chiesa!"
Difatti era cominciata la novena della Madonna Assunta e zia Antonia intonò una canzone, che si cantava la sera dai balconi e ballatoi:

"Và nel cielo a godere, o mia Signora,
un giorno appresso a te, tirami ancora!"

Con lo stesso motivo e parole le rispose nonna Marianna, ma con voce più stanca e sbiadita, più antica insomma. Intanto la luce del giorno si era attenuata nella valletta, dove arrivava chiaro il martellare di mio padre sull'incudine, seguito velocemente dal martellare di altri due apprendisti che usavano due grandi mazze per battere il ferro caldo e dargli la forma voluta. Questa lavorazione, che si chiamava "dallare", richiedeva grande perizia e forza: mio padre teneva il ferro con la tenaglia e lo batteva per primo con il maglio detto anche mezza mazza. Poi lo colpiva con la mazza grande l'apprendista che gli stava di fronte a sinistra e dopo l'altro apprendista che stava a destra con un'altra mazza. Le due mazze erano di peso uguale, ma terminavano con le punte una a forma di cuneo, detta di pinna e l'altra arrotondata, detta di bolla, che stendevano il ferro in maniera uniforme.
Il rimbombo delle mazze, dolce e poderoso, accompagnava il canto della nonna e della zia. Un'ultima cicala e il primo grillo della serata si misero a fare il contrappunto. E una rana non lontana si inserì nel concerto con un gracidare lento e discreto. Mbi mbo mba le mazze, fri fri la cicala, cri cri il grillo, gre gre la rana. E con suono che veniva da
più lontano: nda, ndi ndo attaccarono le tre campane della chiesa matrice, perché il sacerdote stava benedicendo il popolo con l'ostensorio. Un barbagianni, che iniziava la caccia notturna, unì a quei suoni un fruscio d'ali più tenero e carnale volando da un ramo all' altro per prepararsi alla caccia notturna.

Zia Antonia iniziò una canzone che la sera si eseguiva in chiesa al termine della funzione:

"L' orizzonte già s'imbruna
ed in alto la stella appare
quando spunta in ciel la luna
un pensiero al buon Gesù!"

Come se il firmamento fosse ai suoi ordini, sul mare si levò la luna e a occidente spuntarono le prime stelle. Nonna Marianna si asciugò una lacrima e disse:
"Così bello deve essere il paradiso dove mi ha preceduto mio marito e mio figlio e dove fra non molto anch'io andrò."
Zia Antonia protestò:
"Questi non sono discorsi da fare adesso che con il buio della sera mi scura il cuore! E non c'è nessuna fretta di andare in paradiso dove non ci sono fichi così buoni."
Ne sbucciò uno che gocciolava nettare e lo mangiò mentre rideva con i suoi occhi chiari.

3 settembre 1994

Salvatore Mongiardo

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