martedì 26 gennaio 2010

SINDACO DI SANT'ANDREA

UNA STORIA VERA E AMARA SUL DECLINO DELLA CALABRIA


La visita a mia madre era stata brevissima come spesso succedeva. Lei stava facendo una delle tre cose che le occupavano la giornata e mi aveva licenziato:
'Va, va, che adesso devo mangiare'.
O doveva recitare il rosario, o doveva riposare. Dopo una di queste mini-visite mi venne incontro per strada Michele che mi salutò cordialmente e senza tanti fronzoli mi chiese:
"Perché non fai tu il sindaco di Sant'Andrea?".
All'inizio pensai che fosse una battuta scherzosa tra conoscenti che non si vedevano da tempo, ma Michele insisteva: fra un anno ci sarebbero state le elezioni comunali, il paese aveva bisogno di un rilancio, mancava il lavoro e non c'era un programma di interventi per creare occupazione... Se il paese veniva sempre abbandonato dalle forze migliori, nessuno avrebbe mai potuto risollevare quel lembo meraviglioso di Calabria. Era giunta l'ora per me di tornare ad occuparmi in maniera forte e audace dei problemi dei miei concittadini. Ero conosciuto e amato da tutti, avevo girato il mondo, chi meglio di me poteva sbrogliare quell'arruffatissima matassa della politica andreolese? Mentre Michele parlava, nella mia mente apparve il volto affettuoso di Peppe Ciuffo che mi disse:
'Alla gebbia del Sundrì!'.
Avevo visto la foto del Ciuffo qualche giorno prima quando gli avevo portato un fiore al cimitero ai piedi del suo altissimo loculo. Ahimè, erano finite le feste e l'allegria nella sua Casetta degli Amici ! Però dalla Casetta e dal loculo la vista era la stessa: il mare di sogno del golfo di Squillace. L'aria no, l'aria era diversa e aveva l'odore balsamico dei cipressi. Michele continuava:
'Sant'Andrea non ha avuto un grande sindaco dopo l'architetto Armogida, tu forse lo ricordi...'.
Eccome lo ricordavo, con i suoi capelli ispidi, quell'uomo buono come il pane, ingenuo, sognatore, generosissimo. Teneva i comizi dai ballatoi del paese arringando il popolo a votare per i comunisti nelle elezioni del 1948, ed evocava Tommaso Campanella con la sua sete di giustizia che finalmente il partito comunista avrebbe dato all'Italia. Gli attivisti della sinistra andavano di casa in casa cercando di convincere le vecchie analfabete a fare il segno di croce sul simbolo del partito comunista che in quelle elezioni era il volto di Garibaldi:
'Lo vedi, è San Giuseppe con la barba, lui devi votare!'.
E qualche vecchietta c'era cascata, anche se i preti stavano in guardia per smascherare l'inganno. I padri liguorini poi erano i più zelanti nel recuperare voti per la DC. Antonio il meccanico, non fidandosi delle promesse di sua moglie, le aveva fatto giurare sul crocifisso che avrebbe votato comunista. Lei era andata dai padri liguorini stretta tra la paura della scomunica se votava comunista e il timore di rompere un giuramento sacro. Il padre liguorino l'aveva accolta benevolo e aveva dissipato ogni dubbio:
'Il giuramento é nullo, perché era sì fatto in nome di Gesù ma contro Gesù stesso... i comunisti distruggevano le chiese e gli altari come avevano fatto i turchi e peggio ancora negavano l'esistenza di Dio!'.
La vigilia delle elezioni le donne rimasero a pregare nella cappella del Santissimo Sacramento della chiesa Matrice quando già erano chiusi i comizi elettorali. Pregavano a voce alta chiedendo a Dio la vittoria sui comunisti e a un certo punto Concetta invocò:
'Signore, non ne possiamo più di questa attesa! Dacci un segno! Se vinciamo noi, fa che le luci rimangano accese! Se devono vincere i comunisti, che la luce vada via!'.
Non l'avesse mai detto! La luce se ne andò all'improvviso, le donne strillarono forte e scoppiarono a piangere. Era stata la mano di Dio o quella del sagrestano? Comunque le elezioni confermarono la vittoria dei comunisti.

Ah, dunque, la gebbia del Sundrì. Ne aveva parlato il Ciuffo in uno degli innumerevoli conviti e l'aveva descritta come un posto di delizie dove andare a fare una scialata con gli amici. Gli avevo chiesto dove si trovasse e lui mi aveva indicato un luogo ai piedi delle colline. La Pasqua seguente mi avventurai alla ricerca. La campagna era incolta e a una svolta del viottolo mi trovai all'improvviso davanti alla vasca d'acqua, è questo il significato di gebbia con parola probabilmente di origine araba. I ranocchi sguazzavano felici e il capelvenere ingentiliva il punto di raccolta dell'acqua che veniva poi usata per innaffiare l'orto, curato e piantato in mezzo all'abbandono circostante. Chi curava quell'orto? Forse Cristo risorto? Non era egli apparso da ortolano a Maria Maddalena? Era venuto a cercare rifugio in quella campagna serena dopo tanto soffrire in terra di Palestina?
Ma Sundrì cosa voleva dire? Mi sforzavo di capire l'origine di quella parola e alla fine mi apparve chiara guardando la campagna attorno: era il posto dove convergevano i viottoli della contrada. Sundrì veniva dal greco sinedrìa che significa convegno, la stessa parola del sinedrio dei sacerdoti ebraici. Alla gebbia del Sundrì si radunavano gli antichi, quando ancora il paese non esisteva, per mangiare insieme nei giorni di festa e passare una giornata in allegria.

Michele premeva:
" Faremo un grande sissizio alla pineta e vinceremo le elezioni!"
E già, il sissizio. La prima volta ne avevo sentito parlare da un archeologo che tenne una conferenza a Copanello nell'estate del 1967. Egli descriveva il convito al quale partecipavano tutti gli Itali senza distinzione, in segno di amicizia e serena convivenza. Non ritrovavo però la fonte storica e mi disperavo finché un giorno Enrico mi telefonò annunciandomi:
"E' Aristotile nella Repubblica!"
Inserii il sissizio nel Ritorno in Calabria e i commenti appassionati al libro mi spinsero a fare qualcosa per dare alla mia terra un segnale di risveglio e di cammino verso la riscossa. Non fu facile organizzare il sissizio. Dove farlo, e come? Sarebbero venuti gli andreolesi? i forestieri? Andai perlustrando con Giovanni Amoruso la Lacina in cerca di un posto che avesse una sorgente, ma trovammo solo rovi e cespugli secchi. Allora decisi di farlo nella pineta di Sant'Andrea: non c'era posto più bello al mondo, con il rumoreggiare dell'Alaca, la vista azzurra del mare e quella verde della montagna sullo sfondo. E così fu. Nel 1995, 96, 97 tenni tre sissizi nella pineta dove presero parte circa due-trecento persone. Le ciaramelle suonavano, i tamburi e la grancassa pure, il vino scorreva abbondante, e Colino cantava la storia di quando suo padre…
Suo padre, Colino il vecchio con la barba lunga, era un taglialegna che lavorava in montagna e una sera fece tardi nel tornare a casa. In montagna il buio arriva presto a causa degli alberi che diventano cupi e minacciosi. Colino affrettò il passo, ma all'improvviso, alle Scalette di Foculìa, sentì un bambino piangere. Colino trasalì e stette ad ascoltare: andò in direzione del pianto e arrivò ai piedi di un albero dove c'era un neonato. Quale madre snaturata aveva potuto abbandonare un bambino così bello? Lo prese in braccio e affrettò il passo verso il paese, lì si sarebbe visto cosa fare del bimbo dopo averlo vestito e nutrito.
Colino era uomo forte, ma dopo un poco il bambino cominciò a pesargli molto più di un neonato, tanto che se lo mise a cavalcioni sulle spalle. Era già vicino al paese, a Faballino, quando il peso diventò insopportabile. Non solo. Ma si accorse che le gambette del neonato che teneva con le mani erano cresciute e diventate pelose: avevano anche il piede con l'unghia di capra. Allora Colino girò la testa per vedere cosa succedeva e vide con orrore che il bambino si era trasformato nella Brutta Bestia: le corna sulla testa, gli occhi e la bocca che sputavano fuoco non lasciavano dubbi. Il maledetto cominciò a stringere la gola a Colino per strozzarlo, ma egli invocò a gran voce la Madre Maria e buttò nel precipizio il demonio che scomparve tra fuoco e fiamme.

Che allegria c'era stata al primo sissizio, con Pampinedda che suonava la ciaramella e bevve tanto vino finché stramazzò a terra e temetti che fosse morto. E poi il secondo sissizio e il terzo. Mi rendevo conto però che il mio messaggio per una nuova civiltà si perdeva tra la musica, il vino, il mangiare. Rischiava di diventare, anzi era già diventato un appuntamento annuale per divertirsi, un supplemento di Ferragosto. E poi perché lo organizzavo? Cosa andavo cercando? Certamente non il successo personale o la carriera politica. La verità è che andavo cercando molto di più: vivere meglio. Ma il discorso era molto complicato. E allora tanto valeva fare una pausa per riflettere e con l'uscita del mio prossimo libro tenere un altro sissizio: un'altra parola greca che significa convito, mangiare insieme.

E veniva dal greco anche sindaco che significava la giustizia comune, cioè fare le cose giuste per tutti. Sissizio, Sundrì, Sindaco: tre parole con il prefisso sin, che significa con, insieme, uniti. La storia, i luoghi di Sant'Andrea parlavano di concordia, di amicizia, di rispetto che però nel mio paese erano diventati merce rara. Me ne resi subito conto nei pochi incontri che ebbi in vista di una mia possibile candidatura. Gli andreolesi, miei amati concittadini, mi davano l'impressione di un paese vecchio e malato che invece di riunire le ultime forze per cambiare in meglio, le raccoglieva per un'ultima rissa. Certo, c'era molto da fare e le possibilità di rilancio del paese in grande stile esistevano: la montagna vergine come al tempo di Ulisse, le colline più leggiadre della Magna Grecia, il litorale ancora intatto per chilometri, quanti paesi avevano in Italia le stesse possibilità? Eppure non vedevo una via di uscita alla paralisi che le opposte fazioni avevano provocato. Gli andreolesi avevano inteso che democrazia significava libertà di bisticciare senza fine per il solo piacere di rovinare se stessi e gli altri. Tutto, ma proprio tutto, finiva in un alterco senza senso.
Quale maledizione aveva colpito il mio paese? Fino ai tempi della mia infanzia, quando non c'erano telefoni, né gas, né televisori e c'era povertà, il paese era vivo e scoppiava di gente. Ora, con tutti i confort della vita moderna, il posto si era svuotato e padrone incontrastato era il vento. E' vero, d'estate, come per incanto, il paese si ripopola e torna a vivere. Come continua a vivere nel ricordo di migliaia di andreolesi sparsi per il mondo, specie a Roma, Milano, America. Ma poi le iniziative per rivitalizzare l'ambiente e dare un futuro con più possibilità a chi è rimasto o a chi vorrebbe tornare muoiono tutte: i vecchi si disperano per la solitudine e i giovani per la mancanza di prospettive. La terra che aveva conosciuto il più grande splendore dei tempi antichi è condannata a sopravvivere di stenti.

Quando successe il fattaccio, a fine agosto del 1999, fui molto addolorato ma non sorpreso più di tanto. La notizia mi raggiunse per telefono nell'isola di Spargi, accanto a La Maddalena: avevano bruciato la pineta! La pineta, dove l'aria di mare si mescolava all'essenza dei pini, mi aveva guarito dai miei spaventosi mal di testa in giovinezza, quando ero stato cacciato dal seminario. Passavo allora intere giornate disteso sotto gli alberi a respirare cercando di non pensare a nulla. Senza rendermene conto, alla pineta ero tornato per tenere il primo sissizio della storia moderna, come per ringraziarla di avermi liberato dalla feroce emicrania. Ora la pineta non c'era più: "E' un deserto di cenere!" mi disse Gina che nei sissizi era la prima a ballare la tarantella.
Passarono mesi prima che avessi il coraggio di andare a rivedere quel posto. I pini erano ancora in piedi anche se morti e attraverso i rami scheletrici filtrava una luce livida e sinistra: nessun brusìo di insetti, nemmeno un filo di verde. Mi appoggiai alla balconata e stetti a guardare il mare, l'Eterno Azzurro più forte del fuoco, perché l'acqua spegne il fuoco, ma l'acqua chi la spegne? Fu proprio questo pensiero che mi risollevò il morale. L'ignoranza e la violenza erano grandi, ma il mare e la natura erano più grandi di loro e un giorno, forse nemmeno tanto lontano, la grande luce del tempo antico sarebbe tornata a risplendere su quelle terre. La pineta morta mi guariva ancora una volta dal peggiore dei mali, la disperazione. E quindi, mi chiedevo, cosa mi conveniva fare, quale decisione prendere? Entrare o no in lizza nelle prossime elezioni? No, decisi alla fine, il mio tempo era necessario per scrivere il secondo libro che mi premeva dentro, il libro sull'origine della violenza nell'uomo e nella sua storia: un compito immane. Poi si sarebbe visto. Era quasi buio e un grillo fuori stagione attaccò con il suo canto..
Sembrava chiedere:
"Crì-crì, dov'è il sindaco del Sundrì?".

Milano 1 febbraio 2000

Salvatore Mongiardo

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