Sala della Protomoteca, Campidoglio di Roma, 30 marzo 2009
Gentilissime Signore e Signori,
questo Dizionario è un’opera nata pochi mesi fa, ma è cresciuta così rapidamente che oggi ho il piacere e l’onore di presentarla a voi nel Campidoglio di Roma. Quest’opera è stata concepita e iniziata dall’autore intorno al 1970 con carta e penna e la sua compilazione è terminata al computer nel 2008 dopo circa trenta anni di pazienti ricerche. Nelle 1.300 pagine del Dizionario, ogni parola della lingua andreolese è registrata così come veniva parlata, e in parte ancora viene parlata, a Sant’Andrea Ionio; è tradotta poi in italiano e inoltre spiegata nella sua etimologia greca, latina, araba, o francese, inglese, spagnola. Ci sono poi proverbi, modi di dire, racconti, aneddoti, personaggi famosi o singolari che si muovono tra una folla di contadini, artigiani, preti, monache. C’è anche la descrizione dettagliata dell’arte dei vasai, dei sarti, dei carrettieri, delle tessitrici, dei contadini, con i termini usati per indicare l’arte, gli attrezzi e i processi lavorativi. E rivivono le feste religiose, il culto dei morti, i canti della mietitura, il suono delle zampogne a Natale. Dalle sue pagine balza un mondo variegato che si muoveva secondo le vicende politiche e militari, o secondo le buone e cattive annate dei raccolti.
Andreolese, l’avrete intuito, è l’aggettivo che indica gli abitanti e la lingua di Sant’Andrea Ionio, un paese affacciato sul golfo di Squillace, che fu di circa 5.000 abitanti intorno al 1950 ed è oggi ridotto a circa 2.500 con una predominanza di anziani. Un paese che ha visto più di 500 suoi giovani partecipare alla prima guerra mondiale e altrettanti nella seconda, pagando un grave tributo di sangue. Nel secondo dopoguerra il paese si è svenato con una massiccia emigrazione di migliaia di andreolesi verso gli Stati Uniti, il Canada, Milano e soprattutto qui a Roma, dove vive il nucleo più importante di circa cinquemila persone tra andreolesi originari, figli e nipoti. Tutti i vostri cognomi e soprannomi, carissimi concittadini andreolesi, sono riportati e spiegati nella loro origine, spesso magnogreca, come Betrò, Carioti, Codispoti, Lijoi, Samà.
Per brevità di tempo non posso dilungarmi sull’opera dal punto di vista letterario o filologico, anche perché a me preme indagare le motivazioni profonde che sono all’origine del Dizionario. L’Autore stesso, l’amico Enrico Armogida, ha detto che avvertiva chiaramente la fine di quel mondo andreolese e voleva salvarlo per le generazioni future. E non c’è dubbio che l’Autore abbia compiuto questo spettacolare salvataggio in extremis per l’amore che porta a persone, luoghi, cieli e campagne della sua infanzia e della sua vita: in ogni pagina dell’opera è vivo il rimpianto per quel mondo definitivamente avviato sul viale del tramonto. L’autore ne è lucidamente cosciente e sembra rassegnato in alcune pagine, ma poi in altre pagine il rimpianto sale di intensità fino a diventare inconsolabile.
Ho voluto allora riflettere sul fenomeno del rimpianto, cosa che tutti temono tanto che si dice comunemente: meglio rimorsi che rimpianti, mai avere rimpianti! Invece, stimolato da quest’opera, sono arrivato alla conclusione che il rimpianto è una delle grandi risorse dell’uomo perché richiama verso una situazione del passato per indicare fenomeni non ancora compresi. Il rimpianto che emana da questo Dizionario è come il segnale di un contatore Geiger che indica un tesoro nascosto nel mondo andreolese. Ma è possibile che un paese della Calabria possa nascondere un tesoro? Cercando una risposta a questa domanda, ho sfogliato il Dizionario alla parola mara, il glauco Mare Ionio sul quale si affaccia il paese. Il Dizionario, a proposito di mare, racconta di pagliai rivestiti di canne, rami di pioppo o ginestre profumate, dove gli andreolesi passavano l’estate per godere i bagni e l’aria di mare in serenità e amicizia. E parla anche di piccoli capanni di frasche per le galline, per il focolare, per far svestire le donne sulla battigia: u pojjharìaddhu ’e l’unda, si chiamava in andreolese. U mara non era nemmeno lontanamente il mare pieno di navi da guerra che Pompeo e Cesare, Augusto e Marco Antonio armarono per lottare gli uni contro gli altri seminando rovina.
Continuando nella mia indagine, ho visto che il Dizionario contiene la biografia di personaggi di Sant’Andrea come lo scrittore e poeta Saverio Mattei nel Millesettecento, e la Monachella di San Bruno, per la quale il 2 marzo 2009 è stata chiusa l’istruttoria del processo per la beatificazione. Il suo nome era Mariantonia Samà, nata nel 1875 a Sant’Andrea, dove è sempre vissuta ed è morta a 80 anni circa nel 1953. Il Dizionario racconta la straordinaria vicenda, all’apparenza minuscola, che si intreccia con Papa Leone XIII, presso il quale la baronessa Enrichetta Scoppa venne da Sant’Andrea per ottenere il privilegio di visitare la Certosa di Serra, sempre vietata alle donne. La baronessa maturò così il progetto di portare con la sua lettiga la piccola Mariantonia a Serra, dove fu guarita.
Se ho decifrato correttamente il segnale del rimpianto del mondo andreolese, il Dizionario sembra voler dire che la grande storia, quella del potere, delle guerre, della politica, non aiutano più di tanto l’uomo a vivere, anzi spesso lo danneggiano con il loro carico di violenza e sangue. Al contrario, la storia minuscola dei contadini e dei pagliai andreolesi riusciva a dare più qualità alla vita perché quel popolo viveva con una forte tensione etica, come testualmente riporta l’Autore. C’era insomma un orizzonte alto che aiutava gli andreolesi a non rimanere schiacciati dal peso della vita, che spesso fu difficile e al limite dell’impossibile, con gravi ingiustizie sociali, analfabetismo, povertà e fame che portarono all’emigrazione di massa.
Quel mondo andreolese ci permette di capire che la decadenza di Sant’Andrea, della Calabria e del Meridione è un problema di natura etica, non un problema di natura politica, e ciò spiegherebbe perché i tentativi della politica non l’hanno potuto risolvere. I greci chiamarono il Meridione Magna Grecia, come scrivono Giamblico e Porfirio, non per la ricchezza delle città e dei commerci, ma per l’altezza del pensiero e l’onestà di vita che Pitagora diffuse nelle nostre contrade calabresi. E parliamo della stessa terra dove Italo fondò l’Italia non su base politica, ma sullo spirito di amicizia, come riporta testualmente e ripetutamente Aristotele nella sua Politica.
Al mondo odierno, carico di paure e angosce per il domani, il mondo andreolese manda a dire da questo dizionario che la vita è difficile oggi come fu difficile a Sant’Andrea. Che però un orizzonte alto dentro l’anima andreolese, aiutava a vivere meglio e a morire serenamente. Quell’orizzonte però non si apriva per caso, ma era frutto di una forte passione per la vita, che era vissuta secondo regole ben precise, come spesso l’Autore ricorda. Quell’orizzonte cioè si apriva con la fedeltà incondizionata tra sposi, parenti e amici, con l’onestà e l’onore di vita e con la fiducia in Dio, che sovrastava e guidava tutti gli avvenimenti grandi e piccoli.
Concludo con una riflessione. Le prime pagine di questo Dizionario furono scritte all’incirca quando vennero scoperti i Bronzi di Riace. A me sembra che ci sia una specie di legame tra i due avvenimenti. Allora l’archeologia sottomarina restituì dalla Calabria statue di sublime bellezza. Ora, questo Dizionario, con una esplorazione dell’anima andreolese, porta alla luce le regole d’oro che aiutarono i calabresi a vivere. Quelle regole, a mio modo di vedere, possono essere ancora oggi un riferimento valido per chi è alla ricerca di nuovi assetti e stili di vita.
Salvatore Mongiardo
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