lunedì 5 maggio 2014

RELAZIONE SU FRANCESCO GRISI


Processi letterari e Mediterraneo nell’opera di Francesco Grisi
Relazione di Salvatore Mongiardo: “L’Italia e il Pitagorismo tra due mari”

Saluto l’egregio Sindaco di Cutro, l’avvocato Salvatore Migale, Pierfranco Bruni, Presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, e tutta la popolazione di Cutro.

Ho incontrato Grisi a Roma una ventina di anni fa in occasione di un avvenimento al Campidoglio e poi ho letto alcuni suoi articoli, un suo scritto su San Francesco di Paola, e ho appena finito ora un suo aureo libricino prestatomi da Tonino Migale, La dolce compagna. E’ il diario lucido e senza alcuna ipocrisia di un ammalato di cancro, Grisi stesso, che sa di dovere affrontare a breve la morte a causa di un tumore maligno. Egli cerca di mettere ordine nel tumulto dei ricordi e nel disordine del presente, ma imperiosa gli si affaccia una visione a Todi e scrive:

Ho amato il mare greco della Calabria ionica. Laggiù il rosso della malattia non vincerà il verde e l’azzurro delle onde... tutto finirà nel colore di Pitagora.

Nell’ultima pagina scrive ancora:

Non mi restano le montagne ma il mare che si alza sugli scogli della Calabria di Pitagora.

Lo scrittore morente torna con un desiderio inestinguibile verso la fiumara di Cutro, ricorda il cavallo bianco e il nonno, pensa ripetutamente, quasi ossessivamente, allo Ionio e a Pitagora...

Una stranezza, mi sembrò all’inizio, poi mi resi conto che una pulsione irrefrenabile spingeva Grisi verso la Calabria, forse la stessa pulsione che ha spinto me a ritornare in Calabria. L’anima di Grisi non vede più i problemi e i disastri della Calabria: per lui rimane la terra del sogno, del grande desiderio, l’approdo definitivo e sicuro. Lui aveva bisogno di un VENTRE CALDO: tutto il resto non conta di fronte alla serenità e placidità che questa terra fa intravedere e promette come un utero materno. Un concetto molto bello che lo scrittore Domenico Raso, morto l’anno scorso, espresse per spiegare il perché del mio ritorno in Calabria.

Ma cosa significa questo richiamo verso la terra e il mare di Pitagora? Ha un senso o è puramente l’ultimo grido nostalgico di uno scrittore morente? In altre parole, da dove proviene i richiamo irresistibile di questa nostra terra? Il richiamo della terra di Pitagora verso Grisi, analizzato attentamente, altro non è che il richiamo che la nostra terra ha già operato verso lo stesso Pitagora. Pitagora cioè è venuto, anzi è tornato a questa terra che da bambino aveva visto e che non aveva mai potuto dimenticare, non per un innamoramento infantile, ma perché in questa terra, che già si chiamava Italia, si viveva in un modo completamente diverso dal resto del mondo.

L’Italia era la terra compresa tra i golfi di Squillace e di Lamezia, come scrive Aristotele, una terra al centro del Mediterraneo, i Mesoghios thàlassa, bagnata da due mari Ionio e Tirreno, terra che permetteva la coltivazione tutto l’anno per la mitezza del clima, specialmente adatta alla coltivazione del grano e della vite. Re Italo aveva fondato l’Italia con il sissizio, il banchetto comunitario dove tutti portavano il cibo che dividevano in parti uguali. Gli Itali non vivevano come gli altri popoli: erano liberi, uguali, amici tra di loro. Aristotele rimarca lo spirito di amicizia che regnava tra gli Itali. Pitagora, che visse in giro per il mondo tra Grecia, Siria, Libano, Israele, Egitto, Mesopotamia, quando dovette decidere dove andare a vivere definitivamente, tornò a quella terra che aveva visto da bambino e che lo aveva tanto impressionato. E sfidò l’Adriatico traversandolo da Corfù a Capo Iapigio, oggi Santa Maria di Leuca. Una traversata nella tempesta, se poi raccomandava ai morenti di pregare gli dei come si fa quando bisogna attraversare l’Adriatico selvaggio.

Il richiamo della Calabria che tutti sentiamo si fonda sui valori che in questa terra sono nati e che si sono diffusi sulle sponde del Mediterraneo con i sissizi: da qui fino alla Grecia, all’Egitto, alla Libia, come attestano gli autori antichi. Il fascino di questa terra deriva dalle regole del vivere che per quei tempi erano veramente innovative e permettevano il buon vivere meglio che in ogni altro posto abitato. Quei valori erano già praticati nell’Italia di allora e furono da Pitagora capiti, enfatizzati, sacralizzati così che in poco tempo l’Italia di allora fu chiamata Magna Grecia, i megale Ellada, per la vita magnifica che si conduceva. Magna Grecia non era tutto il Sud Italia né la Sicilia, ma sostanzialmente la Calabria attuale con parte di Lucania e Puglia: il fondatore della Magna Grecia fu Pitagora e la capitale fu Crotone. Magna Grecia vuol dire valori italici versati dentro la filosofia greca.
La vita pitagorica si distingueva per:

1.     Uguaglianza e libertà

Tutti gli uomini e tutte le donne erano liberi e avevano pari dignità. In quell’epoca, accogliere le donne come allieve nella Scuola Pitagorica e dare la libertà agli schiavi, fu la grande innovazione del pitagorismo.

2. Comunità di vita e di beni

I Pitagorici vivevano in comune ed era abolito tra di loro il danaro o il possesso esclusivo di cose. La comunità si stringeva attorno a chi era ammalato o moriva: questo sistema vinceva non solo la solitudine in vita e in morte, ma eliminava anche la paura o l’ansia di non farcela economicamente con i propri mezzi.

3. Giustizia

Comunemente si dice che la giustizia era il fondamento della vita pitagorica, ma è una affermazione che va spiegata. Nei testi antichi i termini sono due: il primo è dikaiosyne (sostantivo femminile singolare), cioè la rettitudine, il sentimento e la pratica della giustizia. Tale termine andrebbe più correttamente tradotto con giustezza, la virtù che porta la persona verso il retto comportamento. L’altro, invece, è dìkaia (aggettivo neutro plurale), ch’è anch’esso tradotto con giustizia, ma che indica diritti e doveri, insomma quanto oggi si tende a chiamare legalità. Con l’uso differente dei due termini, il pitagorismo mette in chiaro che senza giustezza non ci può essere legalità: per esempio, se la legge non rispetta la giustizia sociale nella distribuzione dei beni, il debole rimane oppresso proprio dalla legalità. La legge italiana che consente retribuzioni spropositate ai manager di Stato è essa stessa fonte di illegalità.

4. Vegetarismo

Pitagora fu il campione del vegetarismo non solo per la pratica sistematica del rifiuto di carne e pesci, ma soprattutto per il significato che egli dava a tale pratica: Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo. Oggi la proibizione di mangiar carne è in vigore in alcuni ordini religiosi come i certosini e i monaci del Monte Athos, che però consumano il pesce. L’unico ordine religioso che escludeva inizialmente carne e pesce, è quello dei paolani, fondato in Calabria da San Francesco di Paola, per tradizione discendente dal pitagorismo. I vegetariani e vegani nel mondo sono oggi stimati in oltre mezzo miliardo, e nella sola Italia sono ormai sei milioni in continua crescita. La riapertura dei sissizi che abbiamo iniziato nel 1995 con il BUE di PANE, come fece Pitagora per ringraziare gli dei senza dover uccidere l’animale, sta ad indicare appunto questo obbiettivo. La violazione di questo precetto pitagorico ha portato ai lager nazisti: il popolo ebraico, che inventò l’olocausto dell’agnello nel tempio di Gerusalemme mattina e sera, finì lui stesso olocausto.

5. Non competitività

E’ indubbiamente la dottrina più originale di tutto il pitagorismo, perché vede la competizione e la vittoria come… male! Per loro gareggiare si poteva, ma solo come puro divertimento, senza vincitori né vinti: era loro proibito anche solo assistere ai giochi olimpici. Difatti, Pitagora affermava che la vittoria sporca il vincitore perché lo separa dal vinto e lo fa diventare oggetto d’invidia. Vincere, avere successo, cercare la propria affermazione, accumulare danaro e coltivare le proprie ambizioni erano cose indegne di una persona perbene, che invece doveva sempre cercare l’armonia. Era esclusa anche la competizione tra più partiti politici che paralizzavano la polis: unico doveva essere il regime e l’opposizione ad esso era considerata secessione da combattere col ferro e col fuoco. La politica odierna, a livello mondiale, è matematicamente sbagliata perché non favorisce l’unità di intenti ma la contrapposizione e la paralisi dei governi.

6. Amicizia

Per Pitagora l’amicizia era il valore fondante della vita e comprendeva tutti i viventi, da Dio all’animale. La filìa, che significa amicizia, amore, benevolenza, tenerezza, abbracciava cittadini e stranieri, marito e moglie, fratelli, congiunti e animali e anche i nemici che bisognava cercare di farsi amici.

 Amicizia degli dei verso gli uomini, degli uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, stranieri, dell’uomo per la moglie, i figli, i fratelli, i parenti; amicizia, insomma, di tutti per tutti, persino verso certi animali, grazie a un sentimento di giustizia e di naturale unione e solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso… (Giamblico, Vita Pitagorica, 229)… L’amicizia è uguaglianza (Giamblico, 162)… Ma, ancora più degno di ammirazione, è quanto [i Pitagorici] affermavano circa la comunione dei beni diviniSovente si rivolgevano l’un l’altro l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così, tutta la sollecitudine per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a entrare in comunione con la mente e con l’anima divina (Giamblico 240) … Diventare amici dei propri nemici: (Giamblico 40).

7. Religiosità

Fortissimo era il sentimento e la pratica religiosa presso Pitagora e i suoi, che però onoravano gli dei del proprio paese di origine: Pitagora non cercava la conversione, concetto a lui ignoto, e le onoranze giornaliere agli dei erano fatte senza sacerdoti. Se vogliamo in breve capire l’intima essenza dello stile di vita pitagorico, possiamo leggerlo in Giamblico (86, 137):

Tutti i loro [pitagorici] precetti relativi al fare o non fare una determinata cosa mirano al divino. E questo è il principio ordinatore dell’intero loro modo di vivere, nonché il senso della filosofia dei Pitagorici: porsi al seguito della divinità.


Il richiamo della terra di Pitagora arrivò forte e chiaro fino al più grande di tutti i pitagorici, al più grande calabrese di tutti i tempi: Gesù Cristo.

Le radici culturali di Gesù non derivano dal mondo ebraico, ma sono gli stessi valori che abbiamo appena elencato e che a lui sono arrivati da questa nostra terra tramite gli Esseni, i pitagorici ebrei.
La stessa Divina Eucaristia istituita da Gesù nell’Ultima Cena era originariamente il sissizio pitagorico, la cena col pane e col vino, che simboleggiava la giustizia sociale attuata:

Dello stesso pane un pezzo a tutti, dello stesso vino un sorso a tutti.

Un altro grande personaggio sentì il fascino di questa terra, San Tommaso D’Aquino, che nella vicina Belcastro si accese di fuoco mistico e di amore sconfinato per il pane degli angeli, la Divina Eucaristia. Dimenticò la fredda filosofia scolastica per comporre gli inni più belli della Chiesa Latina quali Lauda Sion, Pange lingua, Ave verum, Adoro te devote. Ecco perché queste terre, e Cutro in particolare, si possono considerare come la culla dell’eucaristia.

Il libro di Grisi è tutto percorso da sentimenti di profonda religiosità che legano il destino umano al Dio. Finora abbiamo visto perché il richiamo della Calabria è tanto forte da richiamare me, voi, Grisi, Pitagora, Gesù stesso. La Calabria in effetti possiede la chiave del buon vivere: la sua gravissima decadenza deriva dal non aver osservato quelle regole d’oro. La decadenza della Calabria è la prova del nove che bisogna ritornare a quei valori fondanti della prima Italia: una precisa indicazione che vale per tutta l’umanità.

C’è un’altra dimensione nel libro di Grisi: la ricerca del buon morire. Grisi cerca in tutti i modi di rompere il muro del mistero che circonda la morte, ma alla fine conclude con una nobile rassegnazione:

Addio mia bella addio, l’armata se ne va
E se non partissi anch’io sarebbe una viltà.

Noi però abbiamo ora una visione più completa del problema della morte, e intravediamo l’orizzonte nuovo del buon morire, un argomento che si lega strettamente al grano, al pane, all’eucaristia come promessa di vita eterna, alla resurrezione promessa da Gesù. E’ un argomento affascinante che non possiamo trattare ora ma che, se vorrete, anche in onore di Grisi possiamo sviluppare nella prossima FESTA DEL PANE di Cutro l’11 agosto prossimo.

La Calabria ha bisogno di una cosa che tutti noi possiamo fare ogni giorno: amare questa terra. Se noi l’ameremo sinceramente, la Calabria stessa ci dirà quello che dobbiamo fare per il bene di tutti, come lo ha detto a Italo, a Pitagora, a Gesù, a Cassiodoro, a Gioacchino da Fiore, a San Francesco di Paola, a Campanella.

                                                                                  
                                                                                   Salvatore Mongiardo

Cutro - Convegno di domenica 4 maggio 2014


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