Processi letterari e Mediterraneo nell’opera di Francesco Grisi
Relazione di Salvatore Mongiardo: “L’Italia e il Pitagorismo tra due
mari”
Saluto l’egregio Sindaco di
Cutro, l’avvocato Salvatore Migale, Pierfranco Bruni, Presidente del Centro
Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, e tutta la popolazione di Cutro.
Ho incontrato Grisi a Roma
una ventina di anni fa in occasione di un avvenimento al Campidoglio e poi ho letto
alcuni suoi articoli, un suo scritto su San Francesco di Paola, e ho appena
finito ora un suo aureo libricino prestatomi da Tonino Migale, La dolce compagna. E’ il diario lucido e
senza alcuna ipocrisia di un ammalato di cancro, Grisi stesso, che sa di dovere
affrontare a breve la morte a causa di un tumore maligno. Egli cerca di mettere
ordine nel tumulto dei ricordi e nel disordine del presente, ma imperiosa gli si
affaccia una visione a Todi e scrive:
Ho amato il mare greco della Calabria ionica. Laggiù il rosso della
malattia non vincerà il verde e l’azzurro delle onde... tutto finirà nel colore
di Pitagora.
Nell’ultima pagina scrive
ancora:
Non mi restano le montagne ma il mare che si alza sugli scogli della
Calabria di Pitagora.
Lo scrittore morente torna
con un desiderio inestinguibile verso la fiumara di Cutro, ricorda il cavallo
bianco e il nonno, pensa ripetutamente, quasi ossessivamente, allo Ionio e a
Pitagora...
Una stranezza, mi sembrò
all’inizio, poi mi resi conto che una pulsione irrefrenabile spingeva Grisi
verso la Calabria, forse la stessa pulsione che ha spinto me a ritornare in
Calabria. L’anima di Grisi non vede più i problemi e i disastri della Calabria:
per lui rimane la terra del sogno, del grande desiderio, l’approdo definitivo e
sicuro. Lui aveva bisogno di un VENTRE CALDO: tutto il resto non conta di
fronte alla serenità e placidità che questa terra fa intravedere e promette come
un utero materno. Un concetto molto bello che lo scrittore Domenico Raso, morto
l’anno scorso, espresse per spiegare il perché del mio ritorno in Calabria.
Ma cosa significa questo
richiamo verso la terra e il mare di Pitagora? Ha un senso o è puramente l’ultimo grido nostalgico di uno scrittore
morente? In altre parole, da dove proviene i richiamo irresistibile di questa
nostra terra? Il richiamo della terra di Pitagora verso Grisi, analizzato
attentamente, altro non è che il richiamo che la nostra terra ha già operato verso
lo stesso Pitagora. Pitagora cioè è venuto, anzi è tornato a questa terra che
da bambino aveva visto e che non aveva mai potuto dimenticare, non per un
innamoramento infantile, ma perché in questa terra, che già si chiamava Italia,
si viveva in un modo completamente diverso dal resto del mondo.
L’Italia era la terra
compresa tra i golfi di Squillace e di Lamezia, come scrive Aristotele, una terra
al centro del Mediterraneo, i Mesoghios
thàlassa, bagnata da due mari Ionio e Tirreno, terra che permetteva la
coltivazione tutto l’anno per la mitezza del clima, specialmente adatta alla
coltivazione del grano e della vite. Re Italo aveva fondato l’Italia con il
sissizio, il banchetto comunitario dove tutti portavano il cibo che dividevano
in parti uguali. Gli Itali non vivevano come gli altri popoli: erano liberi,
uguali, amici tra di loro. Aristotele rimarca lo spirito di amicizia che
regnava tra gli Itali. Pitagora, che visse in giro per il mondo tra Grecia,
Siria, Libano, Israele, Egitto, Mesopotamia, quando dovette decidere dove
andare a vivere definitivamente, tornò a quella terra che aveva visto da
bambino e che lo aveva tanto impressionato. E sfidò l’Adriatico traversandolo
da Corfù a Capo Iapigio, oggi Santa Maria di Leuca. Una traversata nella tempesta,
se poi raccomandava ai morenti di pregare gli dei come si fa quando bisogna
attraversare l’Adriatico selvaggio.
Il richiamo della Calabria
che tutti sentiamo si fonda sui valori che in questa terra sono nati e che si
sono diffusi sulle sponde del Mediterraneo con i sissizi: da qui fino alla
Grecia, all’Egitto, alla Libia, come attestano gli autori antichi. Il fascino
di questa terra deriva dalle regole del vivere che per quei tempi erano
veramente innovative e permettevano il buon
vivere meglio che in ogni altro posto abitato. Quei valori erano già praticati
nell’Italia di allora e furono da Pitagora capiti, enfatizzati, sacralizzati
così che in poco tempo l’Italia di allora fu chiamata Magna Grecia, i megale Ellada, per la vita magnifica
che si conduceva. Magna Grecia non era tutto il Sud Italia né la Sicilia, ma sostanzialmente
la Calabria attuale con parte di Lucania e Puglia: il fondatore della Magna
Grecia fu Pitagora e la capitale fu Crotone. Magna Grecia vuol dire valori italici versati dentro la filosofia greca.
La vita pitagorica si distingueva per:
1.
Uguaglianza
e libertà
Tutti
gli uomini e tutte le donne erano liberi e avevano pari dignità. In
quell’epoca, accogliere le donne come allieve nella Scuola Pitagorica e dare la
libertà agli schiavi, fu la grande innovazione del pitagorismo.
2. Comunità di vita e di beni
I Pitagorici
vivevano in comune ed era abolito tra di loro il danaro o il possesso esclusivo
di cose. La comunità si stringeva attorno a chi era ammalato o moriva: questo
sistema vinceva non solo la solitudine in vita e in morte, ma eliminava anche
la paura o l’ansia di non farcela economicamente con i propri mezzi.
3. Giustizia
Comunemente
si dice che la giustizia era il fondamento della vita pitagorica, ma è
una affermazione che va spiegata. Nei testi antichi i termini sono due: il
primo è dikaiosyne (sostantivo femminile singolare), cioè la
rettitudine, il sentimento e la pratica della giustizia. Tale termine andrebbe
più correttamente tradotto con giustezza,
la virtù che porta la persona verso il retto comportamento. L’altro, invece, è dìkaia
(aggettivo neutro plurale), ch’è anch’esso tradotto con giustizia, ma che
indica diritti e doveri, insomma quanto oggi si tende a chiamare legalità.
Con l’uso differente dei due termini, il pitagorismo mette in chiaro che senza
giustezza non ci può essere legalità: per esempio, se la legge non
rispetta la giustizia sociale nella distribuzione dei beni, il debole rimane
oppresso proprio dalla legalità. La legge italiana che consente retribuzioni
spropositate ai manager di Stato è essa stessa fonte di illegalità.
4. Vegetarismo
Pitagora
fu il campione del vegetarismo non solo per la pratica sistematica del rifiuto
di carne e pesci, ma soprattutto per il significato che egli dava a tale
pratica: Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo. Oggi la
proibizione di mangiar carne è in vigore in alcuni ordini religiosi come i
certosini e i monaci del Monte Athos, che però consumano il pesce. L’unico
ordine religioso che escludeva inizialmente carne e pesce, è quello dei
paolani, fondato in Calabria da San Francesco di Paola, per tradizione
discendente dal pitagorismo. I vegetariani e vegani nel mondo sono oggi stimati
in oltre mezzo miliardo, e nella sola Italia sono ormai sei milioni in continua
crescita. La riapertura dei sissizi che abbiamo iniziato nel 1995 con il BUE di
PANE, come fece Pitagora per ringraziare gli dei senza dover uccidere
l’animale, sta ad indicare appunto questo obbiettivo. La violazione di questo precetto
pitagorico ha portato ai lager nazisti: il popolo ebraico, che inventò
l’olocausto dell’agnello nel tempio di Gerusalemme mattina e sera, finì lui
stesso olocausto.
5. Non competitività
E’
indubbiamente la dottrina più originale di tutto il pitagorismo, perché vede la
competizione e la vittoria come… male! Per loro gareggiare si poteva, ma solo
come puro divertimento, senza vincitori né vinti: era loro proibito anche solo
assistere ai giochi olimpici. Difatti, Pitagora affermava che la vittoria sporca
il vincitore perché lo separa dal vinto e lo fa diventare oggetto
d’invidia. Vincere, avere successo, cercare la propria affermazione, accumulare
danaro e coltivare le proprie ambizioni erano cose indegne di una persona
perbene, che invece doveva sempre cercare l’armonia. Era esclusa anche la
competizione tra più partiti politici che paralizzavano la polis: unico doveva
essere il regime e l’opposizione ad esso era considerata secessione da combattere col ferro e col fuoco. La politica
odierna, a livello mondiale, è matematicamente sbagliata perché non favorisce l’unità
di intenti ma la contrapposizione e la paralisi dei governi.
6. Amicizia
Per
Pitagora l’amicizia era il valore fondante della vita e comprendeva tutti i
viventi, da Dio all’animale. La filìa, che significa amicizia, amore,
benevolenza, tenerezza, abbracciava cittadini e stranieri, marito e moglie,
fratelli, congiunti e animali e anche i nemici che bisognava cercare di farsi
amici.
Amicizia degli dei verso gli uomini, degli
uomini l’uno per l’altro, fra i cittadini, stranieri, dell’uomo per la moglie,
i figli, i fratelli, i parenti; amicizia, insomma, di tutti per tutti, persino
verso certi animali, grazie a un sentimento di giustizia e di naturale unione e
solidarietà, amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e
conciliazione delle contrastanti forze latenti in esso… (Giamblico, Vita
Pitagorica, 229)… L’amicizia è uguaglianza (Giamblico, 162)… Ma,
ancora più degno di ammirazione, è quanto [i Pitagorici] affermavano circa la
comunione dei beni divini… Sovente si rivolgevano l’un l’altro
l’esortazione a non distruggere l’elemento divino che è in noi stessi. Così,
tutta la sollecitudine per l’amicizia che essi avevano nell’agire e nel parlare
mirava in un certo senso a fondersi e a divenire tutt’uno con la divinità, a
entrare in comunione con la mente e con l’anima divina (Giamblico 240) … Diventare
amici dei propri nemici: (Giamblico 40).
7. Religiosità
Fortissimo
era il sentimento e la pratica religiosa presso Pitagora e i suoi, che però
onoravano gli dei del proprio paese di origine: Pitagora non cercava la conversione,
concetto a lui ignoto, e le onoranze giornaliere agli dei erano fatte senza
sacerdoti. Se vogliamo in breve capire l’intima essenza dello stile di
vita pitagorico, possiamo leggerlo in Giamblico (86, 137):
Tutti
i loro [pitagorici] precetti relativi al fare o non fare una determinata cosa
mirano al divino. E questo è il principio ordinatore dell’intero loro modo di
vivere, nonché il senso della filosofia dei Pitagorici: porsi al seguito della
divinità.
Il
richiamo della terra di Pitagora arrivò forte e chiaro fino al più grande di
tutti i pitagorici, al più grande calabrese di tutti i tempi: Gesù Cristo.
Le
radici culturali di Gesù non derivano dal mondo ebraico, ma sono gli stessi
valori che abbiamo appena elencato e che a lui sono arrivati da questa nostra terra
tramite gli Esseni, i pitagorici ebrei.
La
stessa Divina Eucaristia istituita da Gesù nell’Ultima Cena era originariamente
il sissizio pitagorico, la cena col pane e col vino, che simboleggiava la
giustizia sociale attuata:
Dello
stesso pane un pezzo a tutti, dello stesso vino un sorso a tutti.
Un altro grande personaggio sentì il fascino di questa terra, San Tommaso
D’Aquino, che nella vicina Belcastro si accese di fuoco mistico e di amore
sconfinato per il pane degli angeli, la Divina Eucaristia. Dimenticò la fredda filosofia
scolastica per comporre gli inni più belli della Chiesa Latina quali Lauda Sion, Pange lingua, Ave verum, Adoro
te devote. Ecco perché queste terre, e Cutro in particolare, si possono considerare
come la culla dell’eucaristia.
Il libro di Grisi è tutto percorso da sentimenti di profonda religiosità
che legano il destino umano al Dio. Finora abbiamo visto perché il richiamo
della Calabria è tanto forte da richiamare me, voi, Grisi, Pitagora, Gesù
stesso. La Calabria in effetti possiede la chiave del buon vivere: la sua gravissima decadenza deriva dal non aver osservato
quelle regole d’oro. La decadenza della Calabria è la prova del nove che
bisogna ritornare a quei valori fondanti della prima Italia: una precisa
indicazione che vale per tutta l’umanità.
C’è un’altra dimensione nel libro di Grisi: la ricerca del buon morire. Grisi cerca in tutti i
modi di rompere il muro del mistero che circonda la morte, ma alla fine
conclude con una nobile rassegnazione:
Addio mia bella addio, l’armata se ne va
E se non partissi anch’io sarebbe una viltà.
Noi però abbiamo ora una visione più completa del problema della morte, e
intravediamo l’orizzonte nuovo del buon
morire, un argomento che si lega strettamente al grano, al pane,
all’eucaristia come promessa di vita eterna, alla resurrezione promessa da
Gesù. E’ un argomento affascinante che non possiamo trattare ora ma che, se vorrete,
anche in onore di Grisi possiamo sviluppare nella prossima FESTA DEL PANE di
Cutro l’11 agosto prossimo.
La Calabria ha bisogno di una cosa che tutti noi possiamo fare ogni giorno:
amare questa terra. Se noi l’ameremo sinceramente, la Calabria stessa ci dirà
quello che dobbiamo fare per il bene di tutti, come lo ha detto a Italo, a
Pitagora, a Gesù, a Cassiodoro, a Gioacchino da Fiore, a San Francesco di
Paola, a Campanella.
Salvatore
Mongiardo
Cutro -
Convegno di domenica 4 maggio 2014
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