venerdì 6 marzo 2015

DAL GRANO ALLA VITA ETERNA


Prima parte
Fino a 12 mila anni fa circa, l’umanità si nutriva solo di bacche, frutti spontanei e caccia. La caccia era difficile e la raccolta di frutti aleatoria perché le tribù dovevano spostarsi continuamente alla ricerca di cibo. Poi, il riso in India e il grano in Medio Oriente cambiarono il mondo. Il grano si poteva mangiare già tenero sulla spiga o abbrustolito. E quando seccava, si conservava e si macinava con una pietra: farina, acqua, fuoco e diventava pane in qualunque momento.  

Per gli egizi solo un Dio poteva dare un cibo così buono e nutriente: Osiride, il Dio del sole. Osiride era morto soffocato in una bara, chiusa a tradimento dal geloso fratello Seth, ma la moglie Iside la cercò, aprì la cassa e vide delle piantine di grano, bianche per la mancanza di luce, che uscivano dal suo corpo: era la nascita del grano. Seth allora fece a pezzi il corpo di Osiride e lo disperse per tutto l’Egitto. Iside li ritrovò, li rimise assieme e fece risorgere Osiride a vita eterna. Anche gli egizi potevano risorgere dalla morte e difatti, nelle feste dedicate a Osiride, essi piantavano chicchi di grano in statuine di fango a forma del Dio. Poi, con le piantine spuntate e trapiantate, si otteneva del grano col quale si faceva il pane e si distillava il vino che si assumevano per poter risorgere. Gli egizi avevano già elaborato l’idea che c’era un’anima che non moriva ed era destinata a riunirsi al proprio corpo, come era successo a Osiride.
Gli egizi avevano anche constatato che il grano sotterrato moriva e rispuntava, mentre il corpo di un morto sotterrato non risorgeva, marciva. Allora inventarono la mummificazione per preservare il corpo destinato a riunirsi all'anima. Per questo motivo le tombe dei faraoni erano fornite anche di provviste alimentari. Per gli egizi la morte non era la fine, c’era un’altra vita, anche se si svolgeva in un mondo dove Osiride regnava solo sui morti. Un mondo triste, dove il sole di Osiride era nero.

Seconda parte
Gesù, vissuto in Egitto dopo la fuga da Erode, venne a contato con due culture diverse da quella ebraica: quella egizia e quella pitagorico-essena, appresa dai Terapeuti, una comunità ebraica che viveva attorno ad Alessandria. Vedendo i rituali del grano di Osiride e della mummificazione, Gesù recepì il bisogno di vincere la morte e lo risolse così: lui è Dio, il pane è il suo corpo ed il vino è il suo sangue. Chi mangia la sua carne e beve il suo sangue avrà la vita eterna.
Gesù aggiunse però un primo elemento di novità rispetto al rito di Osiride: non aspettò il trapianto e la crescita del grano, ma trasformò il pane sulla tavola nel suo corpo e il vino nel suo sangue. E aggiunse un secondo elemento di novità nella cena pitagorico-essena: la resurrezione. Difatti, nell'Ultima Cena, egli dà il pane e il vino come pegno di vita eterna, mentre nel sissizio italo-pitagorico erano solo simbolo di amicizia e fraternità.
E disco solare di Osiride, che fine ha fatto con Gesù? Sembra scomparso ed è, invece, sotto gli occhi di tutti: è diventato l’ostia della messa, che si leva bianca e rotonda come il sole, adorato al sorgere dai Pitagorici di Crotone.

Conclusione
La storia dimostra ampiamente che attorno al grano si sono sviluppati valori di convivialità, amicizia e superamento della morte. Questi valori sono tuttora rappresentati in Calabria col Sissizio, il Grano Bianco del sepolcro del Giovedì Santo, l’Ostia bianca e rotonda, i mostaccioli di Soriano fatti con farina e miele a forma di animali, il Bue di pane pitagorico e il Muscolo di grano. Questi valori invitano costantemente verso una vita libera dalle angosce generate dalla violenza e dalla paura della morte.

Salvatore Mongiardo

6 marzo 2015

mercoledì 25 febbraio 2015

SALVE REGINA di Saverio Mattei

Salve Regina

Volto in versi italiani da Saverio Mattei (1742-1795), barone di Montepaone e residente a Sant’Andrea dove sposò Maddalena Stella. Fu avvocato, poeta, Ministro della Real Casa Borbonica, musicologo e musicista. Morì a Napoli.
Questo Salve Regina, che dedico a mia madre nel decimo anniversario della sua morte, l’ho trascritto nella Biblioteca Ambrosiana di Milano dall’Ufficio della B. V. Maria, seconda edizione, Siena 1784. Una edizione analoga è ora consultabile in rete.

Te pietosa, te Madre amorosa,
O Regina, te inchino, e saluto,
Mia dolcezza, mia speme, l’aiuto
Solo attendo, mia vita, da te.
In esiglio raminghi, e meschini
Ah! qui d’Eva noi miseri figli,
A Te sola dei nostri perigli
Ricorriamo, gridando mercé.
Ed in questa di pianti, e lamenti
Valle opaca, sfogando in sospiri,
A te sola con flebili accenti
Raccontiamo gli affanni del cor.
Deh! quei dolci bellissimi rai,
Onde il Cielo più bello tu fai,
A noi volgi: tu nostra Avvocata,
Tu consola de’ figli il dolor.
E il bel frutto del puro tuo seno
Deh ci mostra Gesù benedetto,
Ed un giorno richiamaci almeno
Dall’esiglio col figlio a goder.
Per te dunque de’ servi devoti
Le preghiere si adempiano, e i voti,
Verginella pietosa Maria,
Dolce oggetto del nostro piacer.

Salvatore Mongiardo
25 febbraio 2015




giovedì 19 febbraio 2015

VIELLEICHT: FORSE- Una poesia scritta per me

Aprendo il vocabolario Brockhaus di tedesco ho rivisto questa poesia che Frau Elisabeth Alexander ha scritto come dedica a me regalandomi il vocabolario. Lei era una persona di straordinaria intelligenza e sensibilità e fu la mia padrona di casa ad Heidelberg, dove studiavo al Max Plank Institut . La traduco così:

FORSE
Volere e umiltà costruiscono
longanimi ponti
sopra la mansuetudine d'argento.

Risuona il Requiem?
Afflizione senza lamento-
Ritornata a casa nel grembo,
piange l'anima rinata. 

Disse uno a sera,
le foglie colorano l'autunno;
forse alberi stanno zitti.

Heidelberg, 15. 10. 1966


sabato 31 gennaio 2015

Il SOPRANNOME DI DORA SAMA'

IL SOPRANNOME
"DISTINTIVO" DI OGNI ANDREOLESE

L'idea del presente racconto mi è balenata dopo la telefonata dalla Sicilia del gesuita Fratel Egidio Ridolfo, confratello di Padre Giuseppe (mio fratello), con lui al Gesù Nuovo di Napoli dal 1967 al 13 dicembre 2010.
Ho avuto modo di conoscerlo e di sentirlo per telefono dopo avergli inviato, nel 2006, la biografia "Una vita nascosta in Cristo - la Monachella di San Bruno", della Serva di Dio Mariantonia Samà (nata nel mio paese di Sant'Andrea Ionio - CZ), della quale è diventato così devoto d'aggiungerla ai suoi tanti Protettori.
Sofferente a causa dell'inesorabile male che l'affliggeva da tempo, è stato chiamato dal Signore il 13 gennaio 2013.
Circa due mesi prima mi aveva telefonato dalla clinica di Palermo, dove si trovava per l'ennesimo controllo diagnostico, felice d'aver terminato in quel momento la lettura del mio secondo libro: "Testimonianze sulla Monachella di San Bruno".
Si era soffermato divertito e incuriosito sui vari soprannomi, usati da me negli episodi dei miei concittadini, per agevolare la conoscenza dei protagonisti e impedire di confonderli a causa delle numerose omonimie. Era molto allegro nel ripetere quei nomi strani, inventati dagli avi di ogni famiglia andreolese e l'ho intrattenuto volentieri per ridurre l'orario d'attesa, in quel luogo tutt'altro che accogliente!
Non essendo in grado di risalire agli antenati di ogni nucleo familiare, ho soddisfatto la sua curiosità con la storia ascoltata diverse volte da mio padre, del soprannome ereditato da lui dalla mamma Maria Caterina, figlia di don Giuseppe Damiani, andreolese, il quale apparteneva ad un nobile casato e aveva sposato una giovane di umili origini.
Dopo qualche tempo dal matrimonio, Giuseppe Damiani si trasferì in Sicilia per prendere servizio come cancelliere a Girgenti, mentre la moglie, incinta, lo raggiunse quando la piccola Maria Caterina aveva già circa quattro anni.
La moglie trovò difficoltà ad ambientarsi in un luogo molto diverso dal suo per usi e costumi e soffriva per la lontananza dai genitori, dai parenti, per la rara partecipazione alle funzioni sacre, tanto che il marito, notato il suo disagio, cercò di andarle incontro.
Dopo circa quattro anni le permise di lasciare la Sicilia, ma volle tenere con sé la ragazza per provvedere lui alla sua istruzione, visto che in paese non esistevano ancora le scuole.
Entrambi convinsero la figlia a rimanere con la promessa che, in assenza del padre, avrebbe avuto la compagnia di una donna che, al momento, sembrava essere molto amorevole.
In seguito, però, tale donna si rivelò severa e niente affatto comprensiva.
Pertanto, Maria Caterina divenne insofferente: aveva nostalgia della madre, delle favole che le raccontava e delle preghiere che recitavano insieme mattina e sera.
All'età di otto anni, durante una fiera in piazza, il padre le permise di andarci da sola e, per la prima volta, si sentì libera in mezzo alla gente del posto.
Sostava davanti ad ogni bancarella, ammirava gli oggetti che l'attraevano e si divertiva a spostarsi da una parte all'altra, quando s'incantò davanti a delle stoviglie variopinte. Le ricordavano quelle di creta, lavorate al tornio dagli abili stovigliai andreolesi e assisteva volentieri alla compravendita, fino a distinguere chiaramente l'accento calabrese nel linguaggio del mercante.
Si avvicinò alle donne che gli stavano accanto, per chiedere la loro provenienza e, nel sentire il nome del suo paese, esultò di gioia sperando di poter realizzare il suo sogno. Raccontò la sua storia, espresse piangendo il desiderio di riabbracciare la madre e riuscì a commuoverle, fino a convincerle a condurla con loro.
L'imprevisto ritorno di Maria Caterina rese felice la madre che, abbracciandola, le promise di non separarsi più da lei.
Gli abitanti del paese sapevano che don Giuseppe Damiani, durante il suo servizio in Tribunale, usava la "parrucca", detta - tuttora - in gergo dialettale "pilucca".
Questo termine li agevolò a trovare il "soprannome" appropriato per la nuova arrivata: bastava indicare la ragazza come Maria Caterina "e pilucca" per non confonderla con le tante persone che avevano lo stesso nome.
Da giovane sposò l'esperto stovigliaio Giuseppe Samà, uomo onesto, religioso ed ebbero tre figli, tra cui Andrea. Questi, in seguito al matrimonio con la giovane Maria Concetta D'Amica, divenne padre di quattro figli, compresa me, ed abbiamo ereditato il suo "soprannome".
Bisogna riconoscere l'utilità di questo "distintivo" che ci permette di risalire anche dai discendenti agli avi, come io stessa ho potuto constatare tante volte.  
Infatti, quando mi reco in estate nel mio paese e incontro i figli o i nipoti dei miei compaesani, emigrati da tempo in America o altrove, risalgo al nome dei loro genitori e dei nonni dopo aver sentito la... magica parola del loro "soprannome".
Concludo esternando la mia ammirazione nei confronti dei nostri progenitori che, pur senza cultura, affrontarono situazioni difficili e risolsero seri problemi, grazie alla loro acuta intelligenza e sofferta esperienza.
Attenti osservatori in ogni stagione dei cambiamenti del tempo e di altri fenomeni atmosferici, acquisirono una profonda conoscenza empirica e si lasciarono guidare dal loro intuito nel lavoro campestre, attuando un programma prestabilito ed efficace. Conoscevano il periodo adatto alla coltivazione della terra, alla preparazione dei solchi per la semina del grano, alla potatura degli alberi per rinvigorirli e sapevano individuare il momento più idoneo per il raccolto e per una migliore conservazione del prodotto. Non sapendo scrivere, erano talmente perspicaci da sintetizzare il sapere in proverbi dialettali e in rima, per facilitare l'apprendimento e insegnarli a loro volta ai pronipoti.
Si prova piacere a sentirli e a ripeterli perché permettono alle nuove generazioni di risalire, a distanza di anni, alla profonda saggezza degli antenati.
Intendo riportarne alcuni dal contenuto religioso, sociale e giuridico, appresi dai miei genitori e dagli anziani del paese.
1) "Cui a Dio on crida, paradisu on bida"
    (Chi non crede in Dio, non vede il paradiso);
2) "Cui on rispetta u patra e ra mamma, on ava do Signuri benedizziuani e manna!"
   (Chi non rispetta il padre e la madre, non riceve dal Signore benedizioni e provvidenza!);
3) "Oja in figura, domana nsepoltura, mbiatu cui pe l'anima procura!"
    (Oggi vivi, domani morti. Beato chi pensa a salvarsi l'anima!);
4) "Cùasi viduti, cùasi tenuti; cùasi arrobati, cùasi tornati o aru mpiarnu ncatinati"
   (La roba trovata può essere trattenuta; quella rubata va restituita o si finisce all'inferno);
5) "Uamo abbisato, mìanzu sarvatu"
    (Uomo avvisato (di un pericolo) può salvarsi (se riflette!);
6) "Dimmi cu cui vai e ti dicu cu sii"
    (Dimmi con chi vai (chi frequenti) e ti dirò chi sei);   
7) "Si bua chino u ceddaru puta e zzappa nte jennaru"
  (Se vuoi pieno il piccolo ripostiglio (per un abbondante raccolto), pota e zappa in gennaio);
8) "Pe Sammartinu ogni mustu diventa vinu"
    (Per S. Martino (11 novembre) ogni mosto è già vino);
9) "Cu dassa a strata vecchia pa nova, sapa chiddu hi dassa e on sapa chiddu hi trova"
    (Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa ciò che lascia, ma non sa ciò che trova): é un invito a riflettere per qualsiasi scelta;
10) "Arrobba strana e fatiga e festa, trasa d'a porta e nescia d'a finestra"
      (Il guadagno del giorno festivo, entra dalla porta ed esce dalla finestra).
I nostri avi partecipavano ogni mattina alla Santa Messa, prima di recarsi nei campi e l'intera popolazione rispettava con il riposo la domenica e ogni festività.
Anche se privi di cultura, con l'esempio trasmisero alla prole l'amore verso Dio e verso il prossimo.
In molte famiglie oggi manca il dialogo tra genitori e figli e non riescono ad instaurarlo, perché interrotto dall'importuno, frequente squillo del piccolo, inseparabile cellulare.
Auguriamo che i giovani della nuova generazione, inchiodati sin da piccoli davanti al computer o ad un teleschermo, trovino il tempo di alzare il loro sguardo verso il cielo per lodare Dio, nostro Creatore, per aver dotato l'uomo di così tanta intelligenza e ingegnosità.
                                                                            Dora Samà
Castelfranco Veneto, 19 marzo 2014


                                                                            

sabato 10 gennaio 2015

Dora Samà - LA MIA VOCAZIONE PER L'INSEGNAMENTO

Con questo mio scritto cercherò di rispondere alla domanda di mia nipote Maria su quando ho sentito la vocazione per l'insegnamento.
Risalgo con la memoria, innanzitutto, all'età di quattro anni quando qualche volta rifiutavo, piangendo, di recarmi all'asilo e mia madre mi accontentava facendomi andare a scuola con le sue due nipoti, Silvia e Teresita D'Amica, entrambe insegnanti. 
In aula mi comportavo bene per godere in seguito dello stesso beneficio e, per non distrarre gli alunni, eseguivo strani disegni dietro la lavagna o scarabocchiavo fogli con matite multicolori.
Riflettendo sul periodo della scuola elementare, ricordo che, a differenza dei miei compagni, io desideravo che le vacanze natalizie ed estive fossero più brevi per ritornare prima in classe.
Suppongo, tuttavia, che la mia vera vocazione all'insegnamento sia nata verso la fine del ciclo scolastico elementare.
Mio padre, per suoi principi e pregiudizi, come già aveva fatto con le mie due sorelle, Caterina e Teresina, si era opposto alla mia richiesta di sostenere l'esame per l'ammissione alla prima media.
Io, però, non mi arresi come loro, ma perseverai nella mia richiesta per altri cinque interminabili anni, sperando di poter realizzare il mio sogno e, proprio per questa mia forte ostinazione che non mi faceva desistere, continuo ancor oggi a considerare la mia scelta come "una chiamata di Dio".   
Si dice, infatti, che "se un evento è volontà di Dio", niente lo ferma e, prima o poi, il nostro sogno si realizza e diventa realtà.
Così, per una serie di circostanze molto favorevoli e, devo dire... "inspiegabili", dopo cinque anni dalla fine della scuola elementare, (durante i quali tenevo comunque i libri in mano), fu emanato un decreto ministeriale che consentiva di sostenere, con la sola licenza elementare, un esame che avrebbe permesso, addirittura, l'accesso al secondo anno dell'Istituto Magistrale!
Sempre per "strana coincidenza", mio padre in quel periodo si era ammalato in modo grave e temeva di morire lasciando la famiglia in difficoltà economica...
Accettò per questo che io partecipassi all'esame di ammissione, pensando che il mio futuro lavoro potesse poi garantirmi un reddito da condividere con la famiglia.
Ovviamente, la partecipazione all'esame richiedeva una seria ed intensa preparazione, perché in pochi mesi occorreva studiare le varie materie e nel paese non vi erano né scuole private né persone disponibili a tal fine.
Le "circostanze" favorevoli, per mia fortuna, continuavano a verificarsi: nello stesso periodo e, precisamente, il 5 dicembre 1945, si era laureato in lettere a Messina mio fratello Giuseppe, che già dava a casa lezioni ad alcuni ragazzi di S. Andrea Jonio, durante le quali io "origliavo" dietro la porta, per colmare il mio periodo di "vuoto scolastico".
Mio fratello, però, aveva già deciso di partire subito dopo la laurea per il noviziato presso i gesuiti ma, in modo "inspiegabile" (in quanto ne condivideva la scelta), mio padre temporeggiava trattenendolo in famiglia e io ho potuto avere, così, a disposizione e a tempo pieno, un ottimo insegnante con cui affrontare la mia avventura!
L'impegno di entrambi fu veramente intenso, anche perché inizialmente avevamo capito che il "salto" riguardasse solo i tre anni della scuola media e non anche il primo anno dell'Istituto Magistrale... Grazie, comunque, alla professionalità di mio fratello ed alla mia tenacia e costanza, riuscii a superare l'esame (fatta eccezione per la musica ed il disegno geometrico, che ripetei con successo nella sessione autunnale), recuperando tutto il tempo perduto e riuscendo a diplomarmi a 19 anni.
Devo riconoscere che nel mio cuore, sin da piccola, albergava già la certezza che sarei diventata maestra, in quanto avevo confidato il mio sogno alla "Monachella di San Bruno" (al secolo Mariantonia Samà), una mistica andreolese che già all'epoca era in concetto di santità per i molti carismi posseduti e per la quale attualmente è in corso il Processo di Canonizzazione.
Mariantonia mi ha sempre invitata ad aver fiducia e a pregare con costanza per poter raggiungere il mio obiettivo.
Ricordo bene che ai miei dubbi ed ai miei momenti di sconforto lei rispondeva utilizzando il verbo non al futuro, quale speranza, ma al presente, quale certezza: "Diventate maestra, anche se i tempi del Signore non sono i nostri!".
In seguito agli approfondimenti che sono stati fatti su di lei nell'ambito del procedimento di beatificazione e che hanno messo in luce la sua capacità di interpretare la volontà divina, resto sempre più convinta che la mia passione per l'insegnamento sia stata vera e propria "vocazione", cioè una chiamata venuta da lassù...
L'ho mantenuta sempre viva durante il quasi quarantennio di attività.
Ho, infatti, iniziato ad insegnare subito dopo il diploma per un triennio nella Scuola Popolare, istituita all'epoca contro l'analfabetismo e nell'anno 1951 ho poi superato (unica su 10 candidati andreolesi) il concorso per entrare in ruolo. Ho, così, insegnato per ulteriori 35 anni (a Sant'Andrea Jonio e successivamente a Napoli), decidendo, infine, di andare in pensione in anticipo rispetto al termine previsto per legge, per non correre il rischio di lasciare gli ultimi alunni a metà ciclo, senza poterli condurre al diploma, perché loro avrebbero sofferto quanto me. 
Ricordo ancora con affetto (e con i rispettivi nomi) tutti gli alunni dei vari cicli, ai quali ho sempre dato la mia totale dedizione, destinando loro, oltre che l'orario scolastico, anche il mio tempo "familiare", in quanto portavo a casa tutti i compiti da correggere...
Sono stata, comunque, ripagata, sia dalla stima dei loro genitori che dal loro affetto, che conservano immutato a tutt'oggi parlando, addirittura, di me con enfasi ai loro figli e creando su Facebook una pagina dal titolo
"I bambini della maestra Dora".
Castelfranco Veneto, 16 dicembre 2014
Dora Samà

lunedì 1 dicembre 2014

VANGELO DI NONNA MARIANNA

Vangelo di nonna Marianna

Dedico questa novella alla memoria di mia sorella la scrittrice Anna Mongiardo

Nonna Marianna era vedova di mio nonno paterno Salvatore, morto nel 1922 per malattia contratta durante la prima Guerra Mondiale nel gelo del Monte Grappa, dove lui era responsabile della teleferica. Quella morte mise in ginocchio la famiglia di otto figli piccoli, e nonna Marianna se la vide brutta fin quando mio padre, crescendo, non si impadronì del mestiere e poté iniziare a lavorare come fabbro nella bottega, la forgia, che era stata di suo padre.
La nonna, occhi nerissimi e lucidi come smalto, abitava in una casa a pochi passi dalla Chiesa Matrice e dall’Olmo della Libertà, uno dei tre piantati a Sant’Andrea durante la Repubblica Partenopea del 1799. La restaurata monarchia borbonica si guardò bene dal farli tagliare temendo rivolte: due dei tre olmi sopravvivono ancora in paese; il terzo fu tagliato agli inizi del Millenovecento davanti alla casa dei Migali, indomiti antiborbonici, per far passare la nuova strada provinciale. I Migali avevano voluto un olmo davanti casa per testimoniare l’opposizione ai tiranni, e usano fino al presente nella famiglia il nome di Armodio, uccisore del tiranno Ipparco nell’antica Atene.

A me piaceva andare da nonna Marianna per l’aura di mistero che si respirava nella sua casa dove vedevo il ritratto di nonno Salvatore in divisa militare, e quello del figlio, anche lui Salvatore, un bellissimo giovane morto a venticinque anni poco prima della mia nascita. Mi attiravano anche i fatti strani successi in quella casa, come quello accaduto quando era morto il cognato della nonna, Arena. Nonna Marianna aveva sentito un fracasso di stoviglie rotte e andò a guardare nella credenza, ma le stoviglie erano tutte intere. Impallidì allora, e capì che un parente lontano era morto e mandava l’avviso con quel rumore: era questa l’interpretazione che in paese si dava al rumore di piatti rotti. La nonna si preoccupò e andò a dirlo a mio padre che lavorava nella forgia sotto casa, ma lui sorrise incredulo e continuò a lavorare.

Era il periodo di carnevale e la nonna si mise a friggere polpette di carne di maiale riempiendone una limba, un grande recipiente di terracotta con la bocca più larga della base, quando arrivò il telegramma dall’America che annunciava la morte del parente. Allora mio padre chiuse la forgia, andò in casa dove si teneva il lutto, si ricevevano cioè le visite di condoglianza, durante le quali veniva offerto ripetutamente il caffè.
Mia nonna non sapeva cosa fare con la limba piena di polpette, la coprì con un grande piatto e la infilò sotto una cassapanca. Mio padre aveva lavorato sodo tutta la mattinata e, dopo l’ennesimo caffè, sentì un forte languore di stomaco. Ebbe bisogno di fare acqua, come si diceva pudicamente per fare pipì, andò al piano di sopra e vide la limba sotto la cassa. La tirò fuori, tolse il piatto e mangiò delle polpette. La ricoprì, la rimise sotto la cassa e ritornò al lutto che durò a lungo, e mio padre mangiò polpette altre volte. Quando la nonna radunò la numerosa famiglia per la cena e scoperchiò la limba, disse allibita:
            -Quantu fu sbertu u gattu, quanto è stato intelligente il gatto! Tirare la limba, scoperchiarla, mangiare le polpette e poi rimetterla a posto!

La nonna usava nel parlare le misure borboniche. Il muro della sua casa era stato rinforzato e c’erano volute due canne di pietra: una canna corrispondeva a otto metri cubi. Il vicino che aveva fatto il rinforzo non volle essere pagato:
-Galantuomo fu Franciscuzzu Varano, vero galantuomo!
Quando si era fidanzata, nonno Salvatore si accorse che in casa di lei non avevano sale: andò dal salinaro e tornò portandone nientedimeno dui livri, due libbre, poco più di mezzo chilo.
E per indicare una piccola quantità, lei diceva ’na unza, un’oncia, circa ventisette grammi. Lei era analfabeta e non sapeva leggere, ma riusciva a riconoscere alcune lettere maiuscole: Chissu è lu O, chistu è lu A…

Un pomeriggio mi raccontò di quando, molto tempo prima, la Sibilla era venuta in paese per far morire tutti gli abitanti. Si nascose in una casetta, aspettò l’ora propizia nella notte, aprì la finestrella e lanciò la maledizione:
            -Morea mortalitati, morea mortalitati!
E sarebbero morti tutti se una donna, udendo la maledizione, non avesse avuto l’accortezza di gridare:
            -Alle galline, alle galline!
La popolazione si salvò, ma al mattino tutte le galline furono trovate morte stecchite.

Mia madre non amava la nonna, sua suocera, per certi suoi modi di fare che a lei sembravano fuori luogo. Per esempio, quando mangiava e al termine si alzava da tavola, la nonna diceva:
            -E pure oggi mangiammo bellissima!
Una forma avverbiale antica che meriterebbe un approfondimento filologico, ma che a mia madre non piaceva, come non piaceva il gesto della nonna di raccogliere le briciole cadute per terra, solo un gesto, facendo finta di portarle alla bocca in segno di rispetto per il cibo che non si doveva sprecare.

Peggio ancora, la nonna beveva vino, cosa che mia madre disapprovava perché le donne non dovevano bere, e poi perché la nonna beveva come gli uomini. Con questa espressione mia madre indicava un modo di bere, usato dai lavoratori in campagna, dove si portava il vino in una mbùmbula, un orcio di coccio smaltato di verde, che conteneva circa due litri. Era di forma cilindrica con due manici in alto e l’imboccatura stretta. Quando si dava da bere allo zappatore, questo lo prendeva infilando la mano sinistra nel manico esterno. Poi coricava l’orcio sulla parte esterna dell’avambraccio sinistro e lo alzava facendo cadere del vino in bocca. La mano destra rimaneva appoggiata al marruggiu, il manico della zappa. Era un modo suggerito dall’igiene, per non bere dove altri avevano accostato le labbra.

Fu così che una volta, avevo una diecina d’anni, andai a trovarla ed entrando vidi la nonna proprio nell’atto di bere come un uomo. La nonna non si scompose, finì di bere dicendo: Lodamu u Signuri, si asciugò la bocca col dorso della mano, e nascose la mbùmbula sotto il letto, come faceva sempre. Poi si sentì in dovere di darmi una spiegazione:
            -Nipote mio, ora tu sei grande e devi sapere come è la vita! La vita è come se tu dovessi portare sulla testa un grossa màzzara, una masso tondeggiante di granito, dalla fiumara di Alaca fin su in paese. La pietra ti schiaccia e tu non reggi più. Allora che fai?
Mi sgomentava l’idea della màzzara sulla testa, ma non azzardavo una risposta. La nonna continuò:
            -Ti dico io cosa devi fare! Butti giù la pietra, ti siedi sopra e ti riposi. Poi devi mangiare bene e bere meglio. Ricordati: mangiare bene e bere meglio, altrimenti non ce la fai!
E rafforzò la negazione con un gesto non più in uso: piegò la mano destra all’interno verso il polso, la poggiò così piegata contro il collo e poi la fece scivolare in fuori stendendola a palma in su. In quel momento suonò la campana grande della Chiesa Matrice per la funzione serale. A quel rintocco i colombi volarono dal sottotetto della chiesa e andarono a posarsi sull’olmo. La nonna rifletté un momento e poi disse:
            -Quello che ti ho detto è vangelo!

Mi prese per mano e mi condusse in chiesa per la recita del rosario e la benedizione eucaristica. Salimmo per la scala di granito, quella delle donne, che era più breve della scalinata maggiore, e si levava a lato del campanile dove era murato lo stemma dei principi Ravaschieri Fieschi, feudatari del principato di Satriano che all’epoca includeva Sant’Andrea. Entrammo in chiesa per la porta delle donne che si apriva sotto il campanile attraverso un bell’arco di granito a tutto sesto.

In chiesa ci dirigemmo verso la cappella dedicata alla Madonna Immacolata. A lato dell’altare, su un gran quadro con cornice in oro zecchino, erano scritti in bella grafia i nomi di tutti i confratelli sotto il decreto del Re Ferdinando IV di Borbone che autorizzava la Confraternita. Alla lettera M c’era, identico al mio, il cognome e il nome di nonno Salvatore.
La statua dell’Immacolata in legno dipinto, opera di un sacerdote di Sersale, sfavillava di luci sopra l’altare. Le donne iniziarono la recita del rosario e alla fine cantarono il Salve Regina, adattato in italiano e musicato dal napoletano Sant’Alfonso:

In questa valle orrenda
Di pianto e di dolore
Coi gemiti del cuore
Noi invochiamo pietà.

Ma non ci fu pietà. Pochi anni dopo, una vicenda che ho descritto compiutamente nel Ritorno in Calabria nel capitolo Il precipizio di Fabellino, portò alla demolizione della veneranda Chiesa Matrice. Il popolo non ebbe il coraggio di reagire e non si oppose al saccheggio. Altari in marmi policromi, tabernacoli, dipinti, colonne, volte, cancellate, balaustre, stucchi e ossa di migliaia di morti sepolti nella chiesa nei secoli, furono rovesciati a Fabellino, il precipizio che finisce nella valle di Alaca.
Un angelo di stucco, strappato dalla cupola della Chiesa, mentre veniva buttato nella discarica pensò che quella fosse la valle di Giosafat e guardò per vedere se le ossa riprendessero carne per risorgere. Ma le ossa rimasero secche e l’angelo stesso si sbriciolò rotolando a valle.

1 dicembre 2014

Salvatore Mongiardo

venerdì 14 novembre 2014

RESURREZIONE DEL DIGAMMA

Resurrezione del Digamma

Quando tornò dall’America nel 1947, nonno Bruno, padre di mia madre e marito di nonna Maria Caterina, aveva settanta anni. Abitava la casa accanto alla nostra e, durante la sua permanenza in America, io avevo dormito con la nonna nel letto grande al suo posto, il lato destro per chi sta coricato: un uso antico rispettato a Sant’Andrea da tutte le coppie.
Io ero l’unico nipote maschio vicino e il nonno mi portava nei suoi vari appezzamenti di campagna, dove si beava di lavorare e mi raccontava…
Un giorno mi portò alla Gattinella, la valle incantata vicina al paese, dove c’era un porcile inutilizzato, a zimba o u zimbili, e mi disse:
            -Vediamo se indovini! Erano in tre, pelo rosso, zappa fossa e piscia in coscia. E se non era per piscia in coscia, pelo rosso si mangiava zappa fossa. Chi sono?
Non ero capace di dipanare la matassa e allora il nonno mi spiegò che pelo rosso era il lupo, zappa fossa il maiale e piscia in coscia il cane. E quindi significava che se il cane non mandava via il lupo, questo avrebbe mangiato il maiale.

Il nonno amava le chiese e le pratiche di pietà e spesso, di pomeriggio, sedeva al balconcino accanto al vaso di begonia, e cantava canzoni sacre. Un pomeriggio si mise a cantare, con bella voce di baritono, la canzone di Sant’Alfonso Maria dei Liguori:

Amai finora il mondo
Sperai da lui la pace
Ma lo trovai fallace,
Malvagio e traditore.
Rovinava un po’ il canto perché stringeva le labbra per non farsi sfuggire la dentiera americana che gli ballava in bocca. Nonna Caterina, che nella cucina di sopra lavava i piatti, si affacciò alla finestra e assentì:
            -Mundu mpamu, disse Caramante!
Difatti, il vicino soprannominato Caramante, veniva citato spesso in paese per questa sua battuta.
Intanto sulla strada passava Caterina di Rosa, alta e solenne, con un fascio d’erba sulla testa e con occhi di colore cobalto così intenso da sembrare una extraterrestre. Assentì all’infamità del mondo annuendo col capo e facendo così dondolare il fascio d’erba che portava. Tirava con una mano la sua capra per la corda e un capretto seguiva la madre che aveva la mammella gonfia di latte. Il capretto cercava di succhiare, ma ne era impedito da una sacca di stoffa, annodata sul dorso della capra, dentro la quale era infilata la mammella. Il capretto era ormai abbastanza grande da mangiare erba: il latte doveva essere venduto per darlo ai bimbi e il capretto stesso sarebbe finito su una tavola da pranzo.

Il nonno mi fece sedere accanto a sé sul balconcino e mi raccontò la storia dell’uccello mercurio.
Na vota era nu ’rre, una volta c’era un re che aveva due figli, uno buono e l’altro cattivo, e doveva decidere a chi dei due lasciare il regno. Li chiamò e disse: Chi di voi mi porterà una penna d’uccello mercurio, sarà mio successore. L’uccello mercurio aveva penne di paradiso, me era difficile trovarle. Il figlio buono fu fortunato e in un posto chiamato Monte Ulivè trovò la penna. Il fratello cattivo allora lo uccise, lo spogliò e lo sotterò, prese la penna e i vestiti bagnati di sangue, tornò dal padre e disse che bestie feroci avevano divorato il fratello. E diede al padre la penna che si vantò di aver trovato. Il padre pianse la perdita del figlio buono e nominò suo successore il figlio cattivo.
Anni dopo un pastorello portò le sue pecore a pascolare a Monte Ulivè e vide spuntare dal terreno una cannuccia di osso. Pensò che fosse di qualche animale, la prese e incise dei buchi per farne uno zufolo. Quando ebbe terminato, cominciò a suonare, ma dallo zufolo uscì una voce che cantava lamentosa:

Suonami, suonami, pecorarello,
Suonami, suonami, pecorare’,
Per una penna d’uccello mercurio
M’hanno ammazzato a Monte Ulivè.

Il pastorello corse in città, suonò lo zufolo in piazza e tutti sentirono lo strano messaggio. Allora fu portato davanti al re che sentì la voce del figlio ucciso e scoprì l’assassinio.
Io inondavo il nonno di domande: perché si dice Monte Ulivè, perché uccello mercurio? …
Il nonno non seppe darmi una spiegazione. Io posso ora tentarne una: Monte Ulivè forse richiama l’Orto degli Ulivi, luogo di passione e morte di Gesù, e mercurio forse il Dio Mercurio, Ermes per i greci, che aveva ali ai piedi essendo messaggero degli Dei…

Un giorno il nonno mi raccontò di un massaro, un fattore di Sant’Andrea che aveva fatto soldi e aspirava ad aver un figlio addottorato in legge. Così mandò il figlio a studiare a Napoli al tempo dei Borboni. Quando il giovane si laureò, tornò in paese e il padre fece una festa con molti invitati e un grande pranzo. Era uso che il dottorato dovesse fare un discorso per dimostrare le sue capacità, ma nonostante i ripetuti inviti, il giovane non aprì bocca. Era ormai sera e gli invitati avevano perso la speranza di sentirlo parlare, così si misero a passeggiare in piazza, quando la luna piena si levò nel cielo. Allora il giovane fece un gesto indicando la luna e disse:
            -Ma questa luna sembra proprio la luna di Napoli!
Gli invitati si misero a ridere, e il padre si disperò: Poveri soldi miei, buttati all’acqua e al vento!
Poco dopo il massaro costruì una casetta di campagna e invitò il figlio ad andare per festeggiare la copertura del tetto. Il giovane avvocato andò e si mise a guardare lungamente le travi di legno del tetto che, trascinate dai buoi nel trasporto, si erano sporcate su una cacca di vacca. Finalmente l’avvocato parlò in latino chiedendo come gli animali erano potuti arrivati sul tetto e sporcare le travi:
            -Quòmodo fecit bobus cacare travas?

Un altro giorno mi raccontò una storia, successa durante la Pigliata, cioè la cattura di Gesù e la rappresentazione della passione. In un paese chiamato Projalìa, che in Calabria non esiste a meno che non sia Parghelia, un giovane fu scelto per fare da Cristo, ma commise un’imprudenza. La sera prima, invece di mangiare leggero, mangiò fave, e lo sforzo di trascinare la croce gli smosse gli intestini. Aveva bisogno di andare al bagno, ma non poteva abbandonare la rappresentazione. Cercò di resistere e si fece anche mettere in croce legato mani e piedi. Ma alla fine proprio non ce la faceva più e disse a gran voce:

Gente di Projalìa, amici cari,
Scindìtimi dalla cruci
Ca mi vogliu cachizzari!

Ma il popolo rispondeva in coro:

Centu carrini pijjàti chi hai
Stringia lu culu e non cacara mai!
Aveva ricevuto come compenso cento carlini e doveva resistere per non rovinare la rappresentazione.

Il povero giovane implorò:

Io vi lu dicu e vi lu dissa mbuci
O mi scinditi o vi cacu la cruci!
E proprio così successe, nello sconcerto generale, con una scarica irrefrenabile.
Alla fine del racconto chiesi al nonno ragione di quella strana parola che non avevo mai sentito prima:
cachizzare. Il nonno insisté che si diceva così perché così gliela avevano raccontata i suoi nonni…
Recentemente ho verificato con Enrico Armogida che il verbo kakizo esiste in greco, ma col significato di incolpare o parlar male di qualcuno. Forse, prima di spegnersi nel Meridione, quella parola greca ha cercato con un guizzo di salvarsi cambiando significato…

Durante l’estate faceva molto caldo e io mi lamentavo: Facia cardu… Il nonno mi riprendeva:
-Non si dice cardu, si carda la lana, ma cà(u)vuddu.
Nonno Bruno usava ancora la misteriosa lettera di greco arcaico chiamata DIGAMMA, pronunciata come una v preceduta da un accenno di u. Il digamma si rappresentava graficamente come una F, ma le grammatiche di greco antico sostengono sia scomparsa ancor prima della redazione dei poemi omerici… Sarà vero per quanto riguarda la Grecia, ma il digamma è sopravvissuto a Sant’Andrea, dove alcuni vecchi lo pronunciavano proprio come nonno Bruno: cà(u)vuddu e come io stesso voglio riprendere a pronunciare.

Un pomeriggio il nonno mi raccontò del Beato Serapione, un santo monaco che nel deserto faceva vita di dura penitenza, tanto che stava per morire di fame. Allora si convinse a cuocere dei fagioli per mangiarli. Ma quando erano quasi cotti, il diavolo per dispetto gli fece la pipì nella pentola e Serapione dovette buttare i fagioli.

Nonno Bruno era uomo che dava soldi a tutti e non richiedeva indietro i prestiti, dicendo che lui era tranquillo e che ognuno se la doveva vedere con la propria coscienza. Nonna Caterina dissentiva:
            -Tu credi ancora che quella persona ha la coscienza?
E sottolineava la generosità esagerata del nonno con il proverbio:
-La troppa carità strappa la bisaccia, a troppa carità scianca a vìartula.
Ovviamente la bisaccia era quella del frate francescano che veniva dal Convento di Santa Maria degli Angeli di Badolato e andava per le vie del paese facendo la questua.

Quando nonno Bruno subì una delusione per motivi di soldi, grossa per l’importo e anche perché consumata nell’ambito della parentela, si comportò allo stesso modo:
            -Se la vedono con la loro coscienza…
 Però l’amaro in bocca gli rimase, tanto che alla fine disse:
            -Non prestare e non donare / Non fare bene ché ricevi male!
Io esclamai sorpreso:
            -Pappù, nonno, questo è solo un proverbio o è veramente così?
Nonno Bruno non rispose, mi venne vicino e carezzò i miei capelli neri che a lui piacevano tanto perché al sole avevano riflessi di blu.

Poi riandò con la memoria a cose del passato e mi raccontò del grande terremoto del 1783. Durante quel sisma terribile, la montagna alle spalle di Sant’Andrea si scosse tanto che le fu dato il nome di Trematerra, ancora in uso nella cartografia. La sommità del monte si aprì e fuoruscirono fango caldo e lapilli.

E mi raccontò anche di Trentacapilli, il capitano borbonico che catturò Gioacchino Murat sbarcato a Pizzo nel tentativo di riconquistare il Regno di Napoli. Mal gliene incolse, perché fu fucilato in base a una legge che Murat stesso aveva emanato contro tentativi borbonici di riconquista:
Giacchinu ficia a leggia e morìu u primu
Gioacchino fece la legge e morì per primo.

14 novembre 2014
Salvatore Mongiardo

Il prof. Lorenzo Viscido mi scrive:

A proposito del verbo "cachizzari", mi permetto di segnalarti che esso e` un composto greco di "kakkao" ( = "defecare"; cfr. Aristofane, Nubes 1384 e 1390) piu` "izo", da cui "kakkizzo" o "kakizo". Tale composto costituisce un intensivo di "kakkao". Su tale uso cfr. A. N. Jannaris, An Historical Greek Grammar, London 1897, p. 301, par. 1095.

domenica 2 novembre 2014

CRISTO DA CROTONE A PAVIA

Cristo da Crotone a Pavia

Il 3 giugno 2014 il giornalista Claudio Micalizio ha condotto la presentazione del mio libro Cristo ritorna da Crotone nella Sala di Santa Maria Gualtieri in Pavia. L' incontro era organizzato dal Centro di Cultura e Partecipazione Civile - Città del Sole di Pavia, e dall'Associazione Calabrolombarda di Milano. Erano presenti le autorità cittadine, Vincenzo Lista e Salvatore Tolomeo. Ha presieduto il prof. Giuseppe Nappi e ha svolto la relazione don Franco Tassone.

Nel 2012 mi ero recato a Pavia per riverire in San Pietro in Ciel d’Oro l’urna di Severino Boezio, posta vicina a quella di Sant’Agostino. Avevo già onorato, nella basilica eretta in suo onore sul sito dell’antica Tagaste in Algeria, il braccio destro di Sant’Agostino, quel braccio che, nelle sue Confessioni, scrisse sul tempo e la memoria le più grandi pagine della letteratura universale. Durante quella visita a Pavia, provai profonda pietà per Boezio al pensiero che dovette affrontare la morte, decisa dal re barbaro Teodorico, consolato unicamente dalla filosofia.

Pavia mi procurò forti emozioni anche durante la presentazione del mio libro, e l’artefice fu don Franco Tassone, che mi definì mistico e illuminato: due qualità nelle quali mi riconosco senza falsa modestia. Fu in quella stessa occasione che, durante il mio intervento, mi venne di dure che se Dio è mamma allora lo Spirito Santo è donna. Un tema che ho chiaro in mente e che confluirà nel mio prossimo libro dal titolo:

EVOE’
LA VITA UNIVERSALE.

L’amico Vincenzo Lista, che organizzò la presentazione di Pavia, mi invita di nuovo a un incontro che si terrà verso fine del 2014, e approfitto ora per affrontare un argomento che si può riassumere così:

Come hanno potuto dodici pescatori ignoranti conquistare il mondo?

Normalmente si risponde a questo interrogativo dicendo che Gesù era figlio di Dio e perciò la sua dottrina era destinata a prevalere. E’ questa una spiegazione teologica, basata cioè su un apparato di definizioni. Se invece guardiamo alla vicenda di Gesù oltre le definizioni, ci rendiamo conto che la sua incarnazione non è stata tanto il nascere in Palestina, cioè nella carne, ma piuttosto una discesa della sua anima nelle culture del suo tempo, una discesa cioè nella storia del mondo.
Ma procediamo con ordine.

Sappiamo dai Vangeli che Gesù e i suoi genitori fuggirono in Egitto per scampare alla strage di Erode. La parte di Egitto più vicina a Israele era ed è Alessandria, la città costruita da Alessandro Magno, abitata all’epoca di Gesù da migliaia di ebrei. Attorno ad Alessandria c’era un insediamento di Terapeuti vicino al Lago Merotis, una comunità che era essenzialmente essena, come scrive Filone d’Alessandria, grande filosofo e dotto ebreo contemporaneo di Gesù.
Tornato in Palestina, a dodici anni Gesù va con i genitori a Gerusalemme e nel Tempio ha una disputa con i dottori della legge. Disputa vuol dire contestazione, non accettazione: dove aveva appreso quel ragazzino una cultura alternativa che gli permetteva di contestare i dottori ebrei? E’ legittimo ipotizzare che ad Alessandria egli abbia appreso la dottrina essena dai Terapeuti o da altri esseni.
Ma ad Alessandria apprese anche, dalla popolazione egizia, il ciclo di Osiride, il Dio che muore e risorge. Gli egizi, durante le feste in suo onore, mangiavano il corpo e bevevano il sangue di Osiride sotto la specie del pane e del vino per poter risorgere come lui alla vita eterna. Tralasciamo per ora la morte e resurrezione, la parte egizia confluita nella dottrina di Gesù, per concentrarci sulla dottrina essena, anch’essa confluita nella dottrina di Gesù che le fuse in un’unica dottrina.

Quando Gesù comincia la sua predicazione, secondo i Vangeli, il suo comportamento e insegnamento sono contrari ai precetti della Bibbia, difatti egli:
1.     -Non rispetta il sabato
2.     -Frequenta i lebbrosi, le prostitute e i pubblicani
3.     -Contesta e irride i sacerdoti del Tempio
4.     -Libera gli animali destinati al sacrificio nel Tempio
5.     -Prende donne al suo seguito
6.   -Celebra la Pasqua un giorno prima di quella del Tempio di      Gerusalemme, come facevano gli esseni e come viene confermato        da Giovanni nel suo Vangelo.
7.   -Si dichiara figlio di Dio, cosa inaudita per la Bibbia che prevede la pena di morte per quella bestemmia.  La condanna a morte di Gesù era nella legalità per il mondo ebraico, anche se ottenuta forzando la mano a Pilato.

In sintesi, Gesù era un antibiblico e, quindi, il voler spiegare la vicenda di Gesù come un osservante della Bibbia è come voler ribaltare tutta la sua vicenda.
Qual era dunque la cultura con la quale Gesù si era formato? Era la cultura che veniva dal Pitagorismo, da Crotone e dall’Italia di allora, per cui si può dire che Gesù era culturalmente italiano. Quest’affermazione deriva dal mio libro che contiene l’analisi dei passaggi della dottrina nata in Italia col Pitagorismo, passata quindi agli esseni e da questi a Gesù. Quello che ora voglio sottolineare è come Pitagora abbia fondato la sua dottrina su elementi italici, quelli cioè che egli aveva trovato nell’Italia del sesto secolo avanti Cristo.

Pitagora venne a Crotone d’Italia, come la chiama Diogene Laerzio, la prima volta da bambino, portato dal padre Mnesarco durante un suo viaggio di lavoro. Egli notò allora che gli Itali vivevano liberi, dividevano il cibo tra di loro nel sissizio, cioè il banchetto comune, ed erano essenzialmente vegetariani. Da adulto Pitagora girò il mondo per decenni, ma quando dovette lasciare la sua patria Samo per sfuggire alla tirannide di Policrate, volle tornare in Italia, dove la popolazione autoctona meglio rispecchiava la sua filosofia. Gli Itali però non sapevano di essere speciali: Pitagora diede loro coscienza della loro peculiarità innalzando a dottrina il loro modo di vivere. Avvenne una fusione tra l’essere, il modello italico, e la coscienza dell’essere, la filosofia pitagorica: nacque così quel grandioso fenomeno, non ancora ben compreso, che si chiamò Magna Grecia.

Questa mia scoperta equivale a quella del Big Bang in astrofisica. Prima del Big Bang, si pensava che ci fosse una sola galassia e che l’universo fosse stabile. Ora sappiamo che di galassie ce n’è un numero sterminato, che l’universo è in continua espansione e che in esso si sono generati stelle, pianeti e sulla Terra anche la vita.

Similmente, la scoperta del Gesù italiano cambia l’asse della storia che non ruota più attorno alla Bibbia come fonte di salvezza. Al contrario, la dottrina pitagorica insegna che il sacrificio di sangue, che la Bibbia predicò e praticò con infinite vittime sgozzate e olocausti, porta alla rovina. Difatti, Pitagora afferma che uccidendo l’animale, la violenza entra nell’uomo creando una cultura che restituisce all’uomo la violenza da lui data all’animale. La storia purtroppo dimostra come Pitagora avesse ragione: il popolo ebraico, che per mille anni ha offerto olocausti mattina e sera nel Tempio, finì lui stesso olocausto ad opera dei nazisti. Da un po’ di tempo, invece di olocausto degli ebrei come si diceva fino a pochi anni fa, si dice Shoà, che in ebraico vuol dire strage: inconsciamente forse si vuole rimuovere quel precedente. In verità la Bibbia aveva creato negli ebrei la convinzione che l’essere vittima sacrificale era segno di predilezione divina, e perciò non lottarono contro il nazismo. Si lasciarono uccidere, proprio come dice la Bibbia (Isaia 53,6-7): Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca come l'agnello condotto al mattatoio.



Pitagora vide che gli Itali offrivano agli Dei il Bue di Pane, che veniva infornato con il primo grano dell’anno, quindi intorno a luglio, in ricordo dell’abbandono dell’alimentazione di carne e dell’avanzare del grano, come testimonia Aristotele. Egli scrive nella Politica che Italo convertì il popolo degli Enotri da allevatori in agricoltori, li chiamò Itali dal suo nome e stabilì il sissizio, il convivio al quale tutti partecipavano portando il cibo che dividevano.
Pitagora capì l’importanza del sissizio e ne fece un sissizio pitagorico che celebrava la sera dopo cena con pane e vino: dello stesso pane un pezzo a tutti e dello stesso vino un sorso a tutti. Il sissizio pitagorico diventò poi sissizio degli esseni, e alla fine ultima cena di Gesù.

I dodici apostoli, senza saperlo, si riallacciavano alla dottrina pitagorica diffusa, per cinque secoli prima di Cristo, da filosofi del calibro di Socrate, Platone, Aristotele, Plotino e poi da una lunga schiera di pitagorici e neopitagorici, comprese molte donne, attivi in tutto il mondo greco-romano. Furono loro che dissodarono il terreno nel quale poi gli apostoli seminarono la loro predicazione. Due esempi per illustrare questa mia affermazione. La libertà degli schiavi, bandiera del cristianesimo, fu inalberata da Pitagora che liberò i suoi due schiavi Astreo e Zalmosside. E Timeo, il legislatore di Locri, allievo di Telàuge figlio di Pitagora, inserì la proibizione della schiavitù nelle Tavole di Locri nel sesto secolo avanti Cristo, norma passata pari pari agli esseni che non tolleravano la schiavitù. Come anche la comunione dei beni, base della vita italica e pitagorica, fu adottata da Gesù e osservata dagli apostoli e dai primi cristiani: primi e ultimi, si può dire, perché senza la comunione dei beni il cristianesimo è svuotato di sostanza e la stessa comunione eucaristica si riduce a una formalità.
Insomma, Gesù non fu un profeta ebraico velleitario, ma un ribelle del sistema ebraico che portava avanti un discorso basato sulla civiltà dell’Italia, convalidata e razionalizzata dalla matematica e dalla filosofia pitagorica.

Per dare un’idea della diffusione del neopitagorismo, la filosofia che riprese il pitagorismo nell’impero di Roma, ricordo solo alcuni capiscuola che ebbero fama e allievi, un’accelerazione vera e propria che spianò la strada al cristianesimo. Basta ricordare i principali rappresentanti del neopitagorismo come Nigidio Figulo (prima metà del sec. I a. C.), Apollonio di Tiana (sec. I d. C.), Moderato di Gades (sec. I d. C.), Nicomaco di Gerasa (sec. II d. C.), Numenio di Apamea (sec. II d. C.). Lo stesso Cicerone, estimatore del pitagorismo e grande amico di Nigidio Figulo, andò a Metaponto a onorare la casa e tomba di Pitagora, come lui stesso scrive.
Inoltre, il più grande tempio dei Pitagorici si trova a Roma, nel sottosuolo di Porta Maggiore, una superba basilica tutta bianca a tre navate, costruita sottoterra forse nel secondo secolo dopo Cristo, chiusa attualmente al pubblico ma esplorabile con internet digitando: basilica neopitagorica Porta Maggiore Roma.

Per concludere questo scritto, che avremo modo di allargare prossimamente con gli amici a Pavia in compagnia di un Bue di Pane, mi sento di dire che la nuova civiltà del mondo, la Civiltà Sissiziale, sarà l’unica possibile alternativa al caos che avvolge sempre di più il nostro pianeta. Questa nuova e grande avventura parte dall’Italia perché questo è il destino dell’Italia: dara al mondo la civiltà. E quando l’Italia va incontro a questo destino, è grande e magnifica. Quando si allontana da questo grandioso compito, è depressa e in ginocchio. Non c’è, comunque, da avere paura perché Gesù l’italiano riprende il suo cammino da Crotone per soccorre l’umanità.



2 novembre 2014
Salvatore Mongiardo