mercoledì 14 aprile 2010

LETTERA A DON GIOVANNI

Lettera a don Giovanni (parroco di San Bovio presso Milano)

Milano, 20 febbraio 1994

Caro don Giovanni,

ho lasciato passare tre mesi dal nostro incontro del 20 novembre 1993 prima di scriverle la presente. Per alcune coincidenze, che solo adesso mi appaiono chiare, quel giorno rappresenta una tappa importante della mia vita. Il comune amico Ernesto Le aveva dato il manoscritto del mio Ritorno in Calabria. Lei l'aveva letto durante l'estate e aveva espresso il desiderio di incontrarmi, cosa che ho fatto molto volentieri perché nulla è per me più piacevole che discutere del mio libro. Mentre Lei mi preparava il caffè, guardavo le sedie in velluto rosso, i quadri dei santi alle pareti, il lindo decoro di tutta la canonica. Sentivo anche le scampanellate, alla porta, di persone che La cercavano per mille motivi. E riflettevo alla mia solitudine nella quale vivo male, ma alla quale sono costretto a rientrare non appena cerco di uscirne. Da qualche tempo l'incontro con altri mi arreca qualcosa di brutto, di sgradevole, di cattivo. Da solo sto male, ma con gli altri sto peggio.

Durante il nostro colloquio Lei mi faceva notare che eravamo praticamente coetanei, Lei del Nord e io del Sud, entrambi educati nei seminari, ma con storie personali che poi divergevano. E mi sottolineò che provava dispiacere perché dal mio libro traspariva dolore in ogni mio approccio verso la Chiesa. Lei voleva aiutarmi a superare questa lacerazione, forte della Sua esperienza di sacerdote felice nella vita e nella fede. Inoltre mi faceva osservare che dal mio libro il seminario appariva unicamente come un luogo di oppressione. Non faccio fatica a darLe ragione su questo punto. Il seminario era anche un luogo dove ho riso e dove ho organizzato storiche burle, dove ho anche stretto amicizie tra le più solide e affettuose, e il mio pensiero va al fraterno amico don Peppino Scopacasa, arciprete di Mongiana in Calabria, l'uomo più allegro della terra. E' vero, il seminario era pure, con tutti i suoi limiti, scuola di apprendimento delle lettere e delle scienze, nonché sede di mistiche atmosfere tanto consone all'arcana bellezza della Calabria. Di tutto questo sono ben cosciente, eppure non riesco a pensare al seminario se non come a un periodo triste e sconsolato della mia vita, una punizione per non so quale peccato. Forse, poiché davanti a Dio non esiste passato e futuro, Lui mi ha punito agli albori della vita per un crimine che dovrò ancora commettere. Ma dovrà essere un peccato veramente mostruoso, una specie di YBRIS, l’oltraggio dei Greci contro la divinità se, a distanza di oltre trent' anni, il tempo trascorso in seminario è impresso nella mia mente come una dolorosissima marchiatura a fuoco.

Quello che accadde dopo il nostro colloquio, e che Lei ovviamente ignora, mi sembra talmente importante che merita di essere scritto con la massima cura. A malincuore lasciai la canonica, sapendo che la Sua giornata era piena di mille impegni, mentre la mia pencolava nel vuoto. Un pallido sole novembrino rischiarava la facciata della chiesetta attaccata alla canonica; la porta era aperta ed entrai a cercarvi un attimo di serenità. Vidi a sinistra l'affresco di scuola leonardesca del battesimo di Gesù e, a destra, l'urna con le ossa del martire San Bovio. Mi sedetti e appoggiai la testa sullo schienale del banco di fronte, con un gesto a me ben noto in gioventù. Chiusi gli occhi e mi rividi nella cattedrale di Squillace, durante i vespri in onore di Sant'Agazio, martire di Cappadocia, patrono della città e di tutta la diocesi. La gran chiesa sfavillava di luci, il vescovo Fares sembrava veramente il faro alto e fiammeggiante raffigurato nel suo stemma episcopale, tanto brillavano pastorale e mitria, anello e croce pettorale. Il vecchio sacrestano girava la manovella del mantice dell'organo e il decrepito canonico Fulciniti riusciva a stento a premere i tasti con le dita mentre cantavamo in coro:

O ter quaterque et amplius

beata semper arcula

quae tanti sacra militis

ossa recordis gremio.

(O tre, quattro e più volte

sempre beata urna

che di un sì gran soldato

le ossa racchiudi in seno).

Era il maggio odoroso e i nostri volti giovanili ardevano di fede e preghiera. Allora io ero certo, certissimo che, come fra poco sarebbe scoppiata l'estate in Calabria, così la chiesa era prefigurazione della gioia infinita alla quale Dio ci chiamava nel cielo. Fu durante quei vespri solenni che don Ciccio Laugelli, il quale sedeva in rossa mozzetta arcipretale negli stalli dietro di me, disse rivolto a don Paolo Sorrenti, perennemente pallido e teso:

"Lo vedi Sant'Agazio con la palma del martirio e le ossa in bella mostra nell'urna? Si è fatto uccidere perché ha rifiutato di bruciare un po' d'incenso agli dei dell'Olimpo. Adesso il vescovo Fares lo incensa quante volte vuole e tutti in coro gli cantiamo una bella ninna nanna in latino!"

Allora avevo quattordici anni, l'espressione di don Ciccio Laugelli mi sembrò blasfema. Dopo tanti anni, guardando le ossa di San Bovio nella Sua chiesetta, mi resi conto che don Ciccio aveva il dono della comprensione profonda delle cose. Perché tanto sangue e ossa di morti attorno a Gesù che si proclama vita lui stesso? Perché in ogni altare, sul quale si ricorda, o si rinnova secondo i cattolici, il sacrificio della croce, c'è la pietra sacrale, quel tassello al centro del marmo che racchiude le ossa dei martiri?

Lasciai la chiesetta e a piedi me ne tornai a casa. Era l'una e mi misi a tavola mentre il telegiornale trasmetteva che papa Giovanni Paolo II riconfermava il divieto alla contraccezione durante un'udienza nella quale Luc Montagne, lo scienziato dell'Istituto Pasteur di Parigi, lo aveva inutilmente supplicato di liberalizzare l'uso del profilattico. Pochi anni prima lo stesso papa in terra d'Africa aveva severamente proibito il profilattico, mentre attorno le persone morivano di AIDS come le mosche. Poi il telegiornale passò a un'altra notizia. Il gran capo della mafia Totò Riina, imputato di numerosi omicidi, si rifiutava di parlare con il pentito Tommaso Buscetta perché quest'ultimo per Riina era un uomo senza morale: era andato con più donne! In un istante compresi che il papa e Riina affermavano la stessa cosa. Per loro contava soprattutto il comportamento sessuale: i morti, le vittime erano solo una triste necessità per raggiungere un fine. Per Riina il fine era l'arricchimento; per il papa l'osservanza di una legge che lui proclama divina e della quale si professa massimo custode. Ora più che mai sono convinto di quanto ho scritto nel Ritorno in Calabria: la Chiesa ha perso nel Rinascimento la battaglia contro la scienza e perderà adesso la battaglia contro il sesso perché sta ricoprendo la terra di morte e contraddizione, cioè di ipocrisia. Con quale faccia tosta il papa permette il sesso, a chi non vuole figli, solo quando la donna è infeconda? Se lo scopo è identico, che cioè non ci sia frutto, che differenza fa se uno getta la semente nel ruscello o se la sparge sul terreno arido dove non può germogliare? Chi può affermare che un comportamento è contrario alla legge di Dio e l'altro conforme? In verità la passione carnale è come un vento di primavera che strappa via i fiori dall'albero. Ma per quanti ne strappi, ne rimangono ancora molti per dare frutti. I fiori sono numerosi proprio perché il vento possa strapparne senza danno: Dio ha dato la vita e l'ha data in abbondanza.

Ma tutto questo è poca cosa di fronte all'orrore dell'aborto, contro cui la Chiesa tuona da tutti i pulpiti e del quale è invece la causa primaria. Tucidide scriveva che chi può evitare un male e non lo fa, quello è il vero responsabile. E cosa fa la Chiesa se non rimanere insensibile di fronte al saccheggio giornaliero degli uteri, alla carneficina incessante dei non nati? In ogni malattia o disastro la buona regola è prevenire: in base a quale logica, a quale precetto evangelico, la Chiesa proibisce la prevenzione dell'aborto, cioè la contraccezione? Ho scritto e lo ripeto, e vorrei che tutti i vocabolari di tutte le lingue della terra, vive e morte, torcessero le loro alfabetiche budella e sputassero fuori le parole più forti, più tremende, più orribili, per esprimere il mio sdegno e la mia condanna. Nei libri di storia il massacro dei non nati peserà sulla Chiesa come la più grande infamia di tutti i tempi.

Un'ultima cosa voglio dirLe, caro don Giovanni. Alla Chiesa non saranno dati altri secoli per scusarsi di questa carneficina, come ha recentemente fatto con la farsa della riabilitazione di Galileo. La storia, justus judex ultionis, “giusto giudice di vendetta”, presto romperà il maledetto trinomio di sacerdote, sacrificio e vittima.

Dalla finestra del mio studio vedo il bel campanile della Sua chiesa e sento l'orologio che suona le ore. Fino a poco fa ero triste e invidiavo la Sua vita. Ora non più. So che non entrerò più nella Sua chiesa e in nessun’altra, anche se mi dispiace e mi rendo conto che la mia lacerazione è insanabile. Starò lontano dalla Chiesa di Roma per un motivo molto semplice: il mio onore. Solo persone senza onore possono sopportare la mattanza dell'aborto e rimanere in quella Chiesa rendendosi complici di questo scandalo: l'omertà di mafia al confronto è poca cosa!

Caro don Giovanni, io ho finito la mia amara riflessione e La lascio con l'augurio che la storia possa consumare il cuore di pietra dei sacerdoti, così come il mare scava anche il basalto più duro.

Salvatore Mongiardo

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