giovedì 14 novembre 2019

LA MORTE E IL TOMAISTA


La morte e il tomaista

            Tutti sanno cosa è la morte, anche se poi nessuno la conosce veramente, e Leopardi la definisce questo morir, questo supremo scolorar del sembiante. Molto più facile è spiegare cosa era un tomaista, termine che in italiano non è nemmeno registrato, ma in andreolese indicava l'artigiano che faceva le tomaie, la forma di cuoio che costituisce la parte superiore di una scarpa. Nella Calabria della mia infanzia non si sapeva di numeri di piedi: ogni piede era diverso e il tomaista faceva a ognuno la tomaia adatta. Poi il calzolaio cuciva e inseriva la tomaia sulla suola terminando la scarpa. Il tomaista di Sant'Andrea era grande amico di mio padre, che mi mandò da lui per le tomaie di un paio di scarpe di pelle di capretto. Poi un altro grande amico di mio padre, Severino Voci, mi fece elegantissimi scarponcini neri che furono l'invidia dei miei coetanei, i quali andavano quasi tutti scalzi. Del tomaista non ricordo il nome: la moglie si chiamava Letizia e abitavano vicino a Piazzetta Malaira.   
            Il tomaista seguì la gigantesca ondata migratoria del dopoguerra e partì per l'Argentina con moglie e figli piccoli. Lasciò in paese l'anziano padre, Cola e setta frìavi, Nicola delle sette febbri, così chiamato perché aveva sofferto di sette attacchi di febbri malariche. Poco dopo la sua partenza il padre morì ed io, come facevano i bambini, andai a curiosare. Il vecchio era composto nella bara e le donne recitavano preghiere con voce sommessa. Il morto non aveva più donne nella parentela stretta per cui nessuna gli faceva u trìvulu. Quel compito, riservato alle donne, nel dizionario Andreolese-Italiano di Enrico Armogida è definito così:
Era costituito da una nenia, cioè da una interminabile cantilena - dal ritmo lento grave e penoso - improvvisata e ritmata, con cui si narravano i momenti lieti e tristi della vita del defunto.
Quel lamento faceva venire la pelle d'oca per le grida acute di strazio che la donna del trìvulu emetteva. Per Cola, invece, le preghiere a voce bassa erano come un sussurro per addormentare un bambino.
            In Argentina, dove le pelli di animali erano abbondanti, il tomaista deve aver fatto una discreta fortuna, tanto che poteva permettersi di tornare in paese abbastanza spesso. Naturalmente, ogni volta veniva a trovare mio padre nella sua forgia. Il tomaista aveva preso l'abitudine scherzosa di dire a mio padre che era tornato in paese per ingannare la morte: egli ormai aveva una certa età e la morte poteva cercarlo in Argentina. Così lui veniva in paese, dove la morte non immaginava si trovasse. Al momento di ripartire, tornava a salutare mio padre, dicendogli che era da troppo tempo in paese, dove la morte poteva venire a cercarlo. E allora era più prudente tornarsene in Argentina.
            I suoi tentativi di imbrogliare la morte durarono a lungo, ma alla fine le sue astuzie furono scoperte. Girovagando nelle sterminate pampas, forse camuffata da contadina con falce, la morte lo colse e lo congiunse al padre Cola.

Salvatore Mongiardo
14 novembre 2019

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