sabato 18 ottobre 2014

LA MADONNA DELLA STRADA

LA MADONNA DELLA STRADA

Il viandante di una volta e l’automobilista di oggi che da Sant’Andrea Marina sale verso il centro storico, dopo circa un chilometro vede alla sua sinistra un’edicola, raffigurante una Madonna con Bambino in braccio. Su un marmo sotto l’effigie c’è scritto:

MADONNA DELLA STRADA
GUIDA IL MIO CAMMINO
A DIVOZIONE DEL
DOTT. GIUSEPPE D’AMICA
1951

Il dottor D’Amica è stato medico a Sant’Andrea ed è morto ultranovantenne pochi anni fa, a me ben noto per essere stato medico della mia famiglia, per la storia che sto per raccontare e per una reciproca simpatia che ci legava.

Nel 1951 il dottor D’amica si motorizzò, tra i primi in paese, comprando una macchina con la quale andava in giro per le visite fuori paese. La Calabria di allora non conosceva ancora il fenomeno criminale che è dilagato dagli anni Settanta in poi, anche se vicino alla stazione ferroviaria di San Sostene era successo un fatto orribile. Un giovane forestiero, che aveva una macchina ed era ben fornito di soldi per avere venduto delle vacche a una fiera, offrì un passaggio a due sconosciuti durante una tempesta. I due malviventi lo uccisero, gli rubarono i soldi e la macchina e buttarono il suo corpo a lato della strada. I familiari vi posero una lapide, ora rimossa, che implorava:

PORGI O VIANDANTE UN FIORE UNA PREGHIERA
A LUI CHE GIOVIN PER BONTA’ FU UCCISO
DA LADRA E IGNOTA MAN TRA LA BUFERA

Il dottor D’amica, da uomo accorto qual era, pensò bene di munirsi di una pistola, piccola e piatta, che portava in tasca e che faceva vedere in modo che si sapesse che andava armato. Ma, dubitando delle forze umane e da credente qual anche era, pensò di ricorrere alla potente protezione della Madonna. E così, sotto il titolo di Madonna della Strada, eresse un’icona per la benedizione della quale molti scesero dal paese assieme all’arciprete don Andrea Samà, u mbraghatu, il rauco cioè. C’era ovviamente anche il dottore D’Amica e io, che avevo dieci anni, facevo da chierichetto. Era probabilmente il maggio 1951.
Al momento della benedizione, ci si accorse che mancava l’aspersorio per attingere dal secchiello l’acqua benedetta, e l’arciprete mi disse:
-Prendi un cespuglietto, pijja ’na strofficeddha…
Strappai da terra una piantina secca e la porsi all’arciprete che commentò:
-L’hai scelta bene, a scijjisti bona, questo è l’issòpo, quello che usavano i sacerdoti ebrei e che noi ricordiamo in chiesa quando diciamo: Asperges me, Domine, hyssopo et mundabor….

L’estate seguente, in agosto, avevo servito all’arciprete la messa domenicale delle 11, celebrata ogni domenica nella cappella dell’Immacolata della veneranda Chiesa Matrice, demolita nel 1965 per una vicenda, ancora non abbastanza chiarita, di tangenti e altro. La messa delle 11 era molto frequentata, con i confratelli che cantavano l’ufficio dell’Immacolata in latino, una lunghissima predica dell’arciprete che, anche se rauco, non la smetteva di blaterare contro le donne che osavano mettere il costume da bagno sulla spiaggia mostrando i corpi seminudi: Carne da macello, carne da macello…
La funzione terminava poi con il canto del De Profundis, straziante di bellezza e dolore, che Andrea, l’organista cieco, intonava per le anime dei confratelli defunti. Terminata la funzione, andavamo in sacrestia dove l’arciprete si toglieva i paramenti sacri. Poi io avevo l’obbligo, impostomi da mia madre, di accompagnarlo fino a casa:
-Mi raccomando, cammina tenendolo alla tua destra e poi vieni subito per il pranzo…
Difatti, a quell’ora io boccheggiavo per la fame, anche perché non avevo mangiato dalla mezzanotte precedente per poter fare la comunione e dovevo osservare il digiuno eucaristico che allora vigeva.

Una domenica di agosto, mentre stavamo per uscire dalla sacrestia per andare verso casa, entrò il dottor D’Amica che salutò complimentoso:
            -Arciprete reverendissimo…
Il dottore, con linguaggio forbito come sempre, raccontò all’arciprete i tre miracoli che l’icona della Madonna aveva operato. Il primo consisteva nella piantina secca usata per la benedizione, che era rifiorita fuori stagione. Il secondo miracolo era avvenuto quando la vacca del bovaro Volante aveva mangiato molte piante di avena, ajìna, e stava morendo. La moglie del Volante pregò con fervore quella Madonna e la vacca si alzò e riprese forze. Il terzo miracolo, il più spettacolare, accadde quando il bovaro soprannominato Ndriello, avanzando di notte col carro verso il paese, vide sull’icona un grande globo di luce e pensò che avessero allacciato la corrente elettrica. Il mattino dopo, il globo luminoso non c’era più e non c’era traccia di rete elettrica.
Il dottore raccontò ripetutamente i tre miracoli citando nomi e cognomi dei testimoni pronti a confermare tutto davanti all’arciprete, che ascoltava con sufficienza e senza commenti. Alla fine, come la Madonna volle, il dottore ci lasciò e ci mettemmo in moto verso casa. Io ero molto eccitato e non vedevo l’ora di suonare le campane per radunare il popolo, assistere l’arciprete nell’annuncio dei miracoli, dirlo a mia madre, alle nonne, ai vicini… Aspettavo istruzioni dall’arciprete che rimaneva in silenzio e allora osai chiedere:
            -Cosa dobbiamo fare per i tre miracoli?
L’arciprete rimaneva muto e prima di lasciarlo davanti a casa sua, ripetei la domanda. Allora l’arciprete disse:
-Il dottore aveva già mangiato e non aveva un c… da fare, on avìa chi cazzu u pìattina!

Alla fine, però, la fiducia che il dottore D’Amica aveva riposto nella Madonna della Strada fu ripagata con un miracolo grandissimo e pubblico. Difatti, alla sua morte egli volle che fossero suonate le campane a festa e che in chiesa si cantasse il Magnificat per l’esultanza. Il dottore superò così, lucido e sereno, il malo passo della morte, molto più periglioso delle strade della Calabria.

                                                               Salvatore Mongiardo

18 ottobre 2014




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